Antonio Pascale, la Lettura (Corriere della Sera) 08/04/2012, 8 aprile 2012
L’ECOLOGISMO CHE SI INCARTA
Se comprate carta o se leggete un libro spesso trovate una sigla: Fsc (Forest Stewardship Council). È un marchio di certificazione: la carta proviene da foreste gestite nel rispetto dell’ambiente. Greenpeace ne è il principale sostenitore. Intorno a questa certificazione è in corso una diatriba. Altre associazioni ambientaliste, come Rainforest Foundation Uk, muovono accuse pesanti a Greenpeace: propensione alle azioni spettacolari, ma con analisi imprecise e unilaterali. Il 22 luglio scorso Andrew C. Revkin, sul «New York Times», ha sottolineato come alcune azioni dei militanti, come distruggere dei campi di grano sperimentali, modificati per aumentare il contenuto nutrizionale, siano molto grezze, violente e dannose per la ricerca. Dario Bressanini, sul blog del «Fatto quotidiano» (25 febbraio 2011), ha dimostrato come, nel caso del mais modificato in Spagna, Greenpeace travisi completamente i dati. Buona o cattiva fede?
Ma cominciamo dall’inizio. Prendiamo i ragazzi di Greenpeace, affabili e cortesi. Vi fermano e dopo un po’ di conversazione vi chiedono se intendete versare una quota. Bene, potete fare un esperimento sul campo, perché magari mi sbaglio: se avete una qualche competenza scientifica, provate a porgere delle domande specifiche su temi più complessi, vi accorgerete che i ragazzi ne parlano per sentito dire. Se chiedete loro cos’è un ogm, non riescono a definirlo correttamente. Ora, se nemmeno sanno di che si tratta, di che parliamo? Là dove non ci sono competenza e analisi vince la retorica, ecco perché ti mostrano un attivista con la tuta antiradiazione che distrugge un campo di piante ogm. Di cosa si può discutere? Ci sono i buoni e puri in tuta che ci proteggono dai cattivi. Detta in breve, le campagne di Greenpeace tendono a estorcere un’emozione. Emozionatevi pure, ma non pensate.
Va bene, obiezione: che c’entrano i ragazzi? Se volete informazioni precise, rivolgetevi agli esperti di Greenpeace. Giusto. Eppure Patrick Moore, cofondatore di Greenpeace, nel 1986 decise di lasciare l’associazione perché si rese conto che poche persone avevano una formazione scientifica. Esperti pochi, e quindi le battaglie erano all’insegna della suddetta retorica: tanti aggettivi e scarsa attenzione al metodo di indagine. Il cloro per esempio. Greenpeace ancora oggi ha una posizione intransigente verso questo elemento. Vero, il cloro è tossico (a certe dosi), ma è per questo che uccide i batteri dell’acqua. Il più grande progresso della salute pubblica è dovuto al cloro, milioni di persone sono state salvate dalla morte per colera, febbre tifoidea e altre malattie trasmesse attraverso l’acqua. Facciamo o non facciamo il bagno in piscine clorate? Il nostro stomaco contiene acido cloridrico. E il Pvc (cloruro di polivinile) allora? Altra storica campagna di Greenpeace: una plastica velenosa, a base di cloro. Però, sottolinea Patrick Moore, «lo troviamo negli ospedali, i sacchetti per il sangue, le iniezioni endovenose, i guanti, le cuffie. Essendo liscio e impermeabile, può essere disinfettato e facilita il controllo della diffusione di infezioni».
Insomma, senza un metodo d’analisi scientifico e condiviso, non abbiamo la possibilità di distinguere la dose che ci salva la vita da quella che inquina il mondo. La preoccupazione dunque è che Greenpeace esageri nelle sue battaglie: solo se spaventi bene i cittadini puoi sperare di mantenere la leadership del settore. I problemi ci sono, ma i rimedi proposti? Sono realistici?
Torniamo al marchio Fsc. L’accusa è che l’Fsc sia un sistema poco flessibile, concepito da e per produttori e consumatori che vivono e operano nei Paesi più sviluppati. È costoso e per questo poco adottato nei Paesi in via di sviluppo — ci sono altri marchi meno costosi e ugualmente validi. L’Indonesia per esempio ha un elevato tasso di povertà e non è in grado di ammortizzare i costi della certificazione dei prodotti forestali. Perché, oltre alla ricchezza che produce direttamente, l’industria forestale si incarica anche di portare alle comunità rurali alcuni servizi sociali di base. Ora, Greenpeace accusa le aziende che operano in Indonesia, come Asia Pulp e Paper (App), di disboscare selvaggiamente. Ma Patrick Moore la pensa diversamente: «Sia io, sia la mia organizzazione Greenspirit Strategies Ltd, siamo stati diverse volte in Indonesia per vari progetti. Le aziende cartarie come Asia Pulp e Paper si impegnano in un’oculata azione di pianificazione, monitoraggio, sostegno alle comunità, fornendo formazione, occupazione, pratiche di migliore crescita. In Indonesia lo Stato detiene oltre il 50 per cento dell’estensione forestale, metà della quale è stata dichiarata riserva da proteggere in perpetuo. Nessun Paese industrializzato può vantare un simile piano territoriale. La certificazione Fsc rappresenta 104 milioni di ettari. Nonostante le sue abilità di marketing e la fama della sigla, Fsc non certifica sufficienti aree di foresta per soddisfare la domanda dei mercati internazionali. Perché molti dei suoi membri, principalmente gruppi ambientalisti, sono rimasti ostili all’industria e sono stati irrealistici nelle loro pretese». Chi ha ragione? Bisognerebbe approfondire la questione. E poi, c’è da aggiungere che il problema del disboscamento non deriva dalla selvicoltura (è una industria rinnovabile, si tagliano gli alberi e si ripiantano), ma dalla povertà — il rapporto Fao del 2007, «State of the World’s Forest Report»: «Gli abitanti dei Paesi più poveri, per sopravvivere, sono costretti a trasformare le foreste in insediamenti e terreni agricoli».
Infine, il direttore esecutivo di Greenpeace, intervistato da Sara Gandolfi di «Sette», ha detto: «Perché tutti mi vogliono? L’ho chiesto all’amministratore delegato di una grande azienda e mi ha risposto: così evitiamo di finire sulla vostra lista nera». Ecco, questa frase ambigua, lascia spazio a un dubbio: le ditte hanno paura della lista nera? C’è quindi un conflitto di interessi tra Fsc (che da qualche anno non pubblica i bilanci) e Greenpeace? O segui il nostro marchio o sei nemico dell’ambiente e ti facciamo la guerra? La rivista «Nat Geo» è stata messa nella blacklist da Greenpeace per aver prodotto due riviste con carta che dopo analisi risultava essere di derivazione App. Due, tra migliaia di riviste e libri che la collana «Nat Geo» pubblica. Dunque, Greenpeace è una multinazionale lobbysta? Non ci sarebbe niente di male, se fosse per il bene dell’ambiente. Ma se di fronte a problemi complessi, invece di basarsi su studi analitici in peer review, vincono le semplificazioni emotive, il sospetto viene: è Greenpeace ad aver subito una pericolosa modifica genetica?
Antonio Pascale