Fulvio Abbate, la Lettura (Corriere della Sera) 08/04/2012, 8 aprile 2012
NON SCRIVERO’ PIU’ NEL NOME DI SAN PPP
Ho appena deciso di «abiurare» ciò che ho scritto a proposito di Pasolini nel corso degli ultimi vent’anni. Nell’ordine, un romanzo del 1992, Oggi è un secolo, dove lo immaginavo mentre fa ritorno a noi, come in un seguito di Uccellacci e uccellini; e ancora, C’era una volta Pier Paolo Pasolini, del 2005, dove provavo a raccontare la «necessità» della sua voce di poeta, anzi, il bisogno della persistenza della sua tersa consapevolezza politica; e poi, infine, Pier Paolo Pasolini raccontato ai ragazzi, uscito pochi mesi fa. Uno scritto, quest’ultimo, concepito affinché coloro che son venuti dopo potessero intuire la vitalità, la grandezza dello scandalo che animava gli anni 70, i più incandescenti, l’avventura terminale pasoliniana. Le virgolette sono qui dovute, lo stesso scrittore, pochi mesi prima di finire assassinato, volle abiurare, testualmente, la sua «Trilogia della vita»: Decameron, Canterbury e Il fiore. Riteneva che «ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia». Anch’io sento una simile delusione, e dunque prometto che quando si tratterà di celebrare i cento anni della nascita, o portare l’ennesima primula all’Idroscalo di Ostia, non ci sarò, né metterò nero su bianco una parola, fosse anche di quelle necessarie a spiegare, come disse proprio Pasolini al giovane Veltroni, che «si applaudono sempre i luoghi comuni» mentre uno scrittore dovrebbe essere «una contestazione vivente». Parole che listano a lutto l’assenza ormai conclamata di una Sinistra, di una forza d’opposizione, di uno «straccetto rosso»; acclarato il vuoto di fantasia di chi avrebbe dovuto almeno provare a dargli retta. Sono deluso dalle dispute dei critici, penso a Carla Benedetti che, dito ammonitore, domanda al curatore dell’opera, Walter Siti, il «perché di tanta acrimonia da fratello minore mentre vesti i panni dell’esperto, del filologo?». Al contrario, penso che la scelta non apologetica, ma problematica, sia l’unica necessaria per sottrarre Pasolini alle sue prefiche. Laureate e non. Trovo desolante che il poeta delle Ceneri di Gramsci sia diventato un Padre Pio dell’afasia «civile», sempre lì a mettere in moto la regressione letteraria e fideistica, com’è testimoniato dai molti blog che tengono accesa la lucciola pasoliniana nell’infinito della Rete, dove la melopea-lagna non riesce a produrre pensieri se non regressivi: fra convento fortificato e fan club. Sono deluso dalle semplificazioni di quei «fascisti» che con poveri mezzi d’intelletto a loro volta rivendicano l’antimodernità dello scrittore in chiave autarchica, così come mi deprime ripensare, e l’ho già raccontato, ad alcuni ragazzi gay in nero-Paul Smith che davanti alle foto di PPP nudo, scattate alla torre di Chia da Dino Pedriali nel 1975, seppero trovare come uniche parole un «che bonazzo!». Per non dire di certi «ex-voto» pittorici del suo volto, così brutti che neppure Novella Parigini. Mi rassicura, forse, sapere che Enrique Irazoqui, già Cristo nel Vangelo secondo Matteo, abbia detto di sentirsi anche lui «infastidito dal culto acritico universale di San Pier Paolo Pasolini, del Profeta Pasolini, dell’Infallibile Pasolini». Stringere la mano a Pino Pelosi, l’assassino, mi provoca meno disagio di tutto ciò che ho appena provato a dire.
Fulvio Abbate