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 2012  aprile 07 Sabato calendario

MAGHI E ORGANIGRAMMI IN TINELLO. LA LEGA PARALLELA DI

MANU&ROSY — «Certo che è il capo. Lo è sempre stata, anche prima della malattia di Bossi». Lei è Manuela Marrone, la moglie di Umberto Bossi. Sua, secondo i nemici, la decisione di far scendere in campo il figlio Renzo di cui il marito si è amaramente rammaricato giusto ieri. Sua, soprattutto, sarebbe la direzione strategica delle grandi manovre che avrebbero dovuto trasformare il Carroccio in una dinastia, sintetizzata dallo slogan che gridavano i pretoriani di Gemonio ai comizi di Renzo nel 2010: «Dopo Bossi, Bossi». La decisione fatale da cui sarebbe germinata la «cupola» insediata ai vertici della Lega su cui stanno indagando le Procure di Milano, Napoli e Reggio Calabria.
Nell’opinione comune, il ruolo di Manuela Marrone nasce con la malattia del marito nel 2004. La realtà è diversa. Il partito è una creatura di Bossi tanto quanto della moglie. Un ruolo che lo stesso leader non ha mai nascosto, né minimizzato: «Se non ci fosse stata Manuela, la Lega non ci sarebbe stata. Lei ci ha messo i soldi, lei il lavoro, lei ci ha messo persino casa sua. Meno male che c’è».
Un amministratore varesino di lunghissima data, sia pure non simpatizzante, lo riconosce: «È una tostissima. Ha mantenuto Bossi quando lui non guadagnava una lira, giorno e notte in giro a far comizi». Il monolocale in cui abitava in via Crispi, a Varese, è la prima sede della Lega, lo «studio grafico» in cui vengono concepiti i primi, storici volantini padani, nonché la redazione del Federalista, uno dei giornali fondati dal marito. Gli anni duri non sono pochi: «Quando rimase incinta di Renzo, dovette nasconderlo sul posto di lavoro, visto che insegnava dalle suore».
Nata a Milano da madre milanese e padre siciliano — cosa, questa, che i leghisti più «etnici» non hanno mai perdonato — Manuela Marrone è sempre stata allergica alla notorietà. Di lei si ricorda una sola intervista, quella rilasciata ad Oggi nel 1993. A fianco del marito compare soltanto a Pontida e a Venezia, oltre che durante le vacanze a Ponte di Legno. Eppure, la sua influenza è enorme. Già negli anni Novanta chiunque aspiri a un ruolo diverso nel partito sa di doverla incontrare. Dal 1998 diventa più facile, il quartier generale della signora Bossi — «l’ufficio di Manuela» secondo il modo di dire corrente — diventa la scuola Bosina, sua creatura prediletta. A due passi dallo stadio di Varese, l’istituto che ai programmi statali affianca lo studio di dialetto e tradizioni locali diventa il crocevia di quello che più tardi sarà chiamato il «cerchio magico»: qui i fedelissimi della signora Bossi iscrivono i figli, qui si discute di ciò che è bene e ciò che è male nel movimento. Più tardi, nei giardini della scuola, ogni lunedì si riunirà quella che i maroniani con fastidio chiamano «la direzione strategica del cerchio magico», l’appuntamento con Marco Reguzzoni e l’altro fedelissimo Giangiacomo Longoni.
Ma è la malattia di Bossi a cambiare tutto. È qui che Manuela Marrone si rende conto che, non volesse il cielo, l’Umberto fosse rimasto offeso in modo grave, per i Bossi i tempi si sarebbero fatti duri. Sarebbe dunque stata lei la stratega della prima uscita pubblica del marito a Montagnola, quella in cui un Renzo ancora quindicenne si affaccia alla finestra con il padre, e come lui solleva il pugno gridando un «libertà» un po’ stentato. Ed è nelle prime settimane della malattia del marito che decide che dei «due Roberti», Maroni e Calderoli, non c’è da fidarsi. In assenza del segretario, immobilizzato prima a Sion e poi a Brissago, i due litigano di brutto: sull’opportunità di candidare il Capo malato alle elezioni europee, sul far svolgere o meno il raduno di Pontida, su tutto. Manuela Marrone si fida, invece, di Rosy Mauro, la pasionaria padana «adottata» dal marito («La Rosy è un po’ terrona ma è brava. Grande impegno», Bossi dixit) resa celebre dai comizi dai toni accesi e dalle foto del 1993 in cui scherza in piscina con Bossi. Con la futura vicepresidente del Senato, Manuela Marrone condivide una religiosità («terrona» dicono i nemici) che non disdegna affatto astrologia, esoterismo e fede convinta nei santuari. Nel movimento non si sa a chi delle due si possa attribuire il presunto arrivo di «un mago» al capezzale di un Umberto Bossi in riabilitazione. Di certo, nel Carroccio varesino si diffonde il panico quando si apprende la diceria, anche qui non confermata, che il letto di Bossi sarebbe stato pieno di pietre: «Stone therapy», pare. Sassi vulcanici per curare il Capo malato.
Con la candidatura di Renzo e la contestuale ascesa di Marco Reguzzoni a capogruppo a Montecitorio, il gioco si fa duro. La candidatura di Renzo è mal digerita da gran parte della base, mentre l’incarico all’ex presidente della Provincia insubrica porta lo scontro sul piano politico e a superare i confini della provincia di Varese. La leggenda narra di lunghe serate nella cucina-tinello di Gemonio, con lei e Rosy Mauro a fare e disfare organigrammi, promuovere o escludere dirigenti, preparare il canovaccio delle cose da dire all’Umberto. A sorvegliare e punire. Il rapporto diventa strettissimo, «la Rosy» prende casa a Gemonio, in una villetta a schiera in cui — dicono — abitino anche le sorelle dell’amica. Bossi, qualche volta, dà segni d’insofferenza. A chi, nelle sue interminabili notti, gli ricorda che è tardi ed è ora di andare lui sbuffa: «Tanto, a casa ci sarà la Rosy con mia moglie». L’apoteosi di Maroni all’ultimo raduno di Pontida fa saltare i nervi. Si parla di un piano per sostituire il segretario «nazionale» lombardo Giancarlo Giorgetti con la fondatrice del Sinpa. La guerra è ormai dichiarata. Memorabile l’episodio raccontato dal Giornale con la moglie del Capo che, rotti gli argini, esorta il marito a cacciare Roberto Maroni. La bolla di «traditore», ossessivamente ripetuta dai «cerchisti» nei confronti dell’ex ministro dell’Interno nasce allora. L’episodio ringalluzzisce i «cerchisti», sempre in affanno di fronte al dato di fatto incancellabile: il Carroccio nella sua forma dinastica ai militanti piace zero. Solo i fondamentalisti spiegano che «Bossi ci ha creato, e il minimo che possiamo riconoscergli è il diritto a scegliersi il successore. Guardate Marine Le Pen... ». Insomma, bene anche il figlio. A cui, ora, però, tutti consigliano di farsi vedere il meno possibile.
Marco Cremonesi