10 aprile 2011 http://www.ilpost.it/2011/04/10/fare-un-film-lumet/, 9 aprile 2012
SIDNEY LUMET
Un estratto da un libro del regista morto ieri.
Ieri è morto Sidney Lumet. L’anno scorso Minimum Fax aveva pubblicato Fare un film, il libro in cui lo stesso Lumet descrive tutte le fasi della creazione e della produzione di un film, raccontando nel frattempo i suoi film e l’intera sua carriera di regista. Nel primo capitolo del libro, Lumet parla di come si comincia e spiega perché ha fatto molti dei film che ha fatto (facendo anche autocritica, in alcuni casi).
La prima decisione, ovviamente, consiste nel fare o meno il film. Non so come decidano gli altri registi. Io decido d’istinto, molto spesso già dopo la prima lettura del copione. In certi casi il risultato è stato positivo, in altri decisamente negativo. Ma è il metodo che ho sempre adottato, e ora sono troppo vecchio per cambiarlo. La prima volta che leggo un copione non lo analizzo. Mi lascio trasportare. A volte capita con un libro. Quando ho letto Il principe della città ho capito che volevo a tutti i costi farne un film. Inoltre, voglio essere sicuro di avere il tempo di leggere il copione tutto d’un fiato. Se la lettura viene interrotta, anche per mezz’ora, la capacità di valutazione di un copione può cambiare. Il film finito verrà visto senza interruzioni, quindi perché la prima lettura del copione dovrebbe essere diversa?
Il materiale arriva da molte fonti. Talvolta è lo studio a mandarlo con un’offerta sostanziosa e una data di inizio. Per me questo è il paradiso, dato che lo studio è pronto a finanziare il film. I copioni arrivano anche dagli scrittori, dagli agenti, dalle star. Talvolta invece si tratta di materiale che io stesso ho ideato, e in questo caso inizia un penoso cammino che consiste nel sottoporlo agli studios e/o alle star per capire se arriveranno dei finanziamenti.
Le ragioni per cui si accetta di fare un film sono molte. Io non sono uno di quelli che aspettano il materiale «meraviglioso» che darà vita al «capolavoro». Quello che è importante è che la storia mi coinvolga personalmente a qualche livello. E i livelli variano. Il lungo viaggio verso la notte è il massimo in cui si possa sperare. Quattro personaggi che interagiscono e non lasciano nessun aspetto della vita inesplorato. Mi ricordo un film che feci molto tempo fa, si chiamava La virtù sdraiata. I dialoghi di James Salter erano belli, ma la storia che gli era stata proposta da un produttore italiano era orribile. Credo che Jim avesse bisogno di soldi. Il film doveva essere girato a Roma. Fino ad allora avevo avuto grandi difficoltà nella sperimentazione dell’uso del colore. Ero cresciuto con i film in bianco e nero, e quasi tutti i film che avevo fatto erano in bianco e nero. I due film a colori che avevo diretto, Fascino del palcoscenico e Il gruppo, mi avevano lasciato insoddisfatto. Il colore sembrava fasullo, era come se rendesse i film ancora più irreali. Perché il bianco e nero sembrava vero e il colore falso? Ovviamente lo stavo usando male, o peggio ancora, non lo stavo usando affatto.
Avevo visto di recente un film di Antonioni, Deserto rosso. La fotografia era di Carlo Di Palma. Qui il colore veniva davvero usato per il dramma, per finalizzare la storia, per approfondire i personaggi. Chiamai Di Palma a Roma, e lui si disse disponibile per La virtù sdraiata. Con gioia accettai il film. Sapevo che Carlo mi avrebbe fatto superare questo «blocco da colore». Era una ragione perfettamente sensata per fare il film.
Ho fatto due film perché avevo bisogno di soldi. Ne ho fatti tre perché adoro lavorare e non potevo più aspettare. E, dato che sono un professionista, ho lavorato sodo a questi film proprio come agli altri. Due di questi si rivelarono buoni ed ebbero successo. La verità è che nessuno conosce la combinazione magica che rende un lavoro qualcosa di prim’ordine. Non sto facendo il modesto. C’è una ragione per cui alcuni registi fanno film di prim’ordine e altri non ci riusciranno mai. Ma tutto quello che possiamo fare è preparare il terreno perché avvengano quegli «incidenti fortunati» che danno vita a un film di prim’ordine. E se questi poi avverranno o meno è qualcosa che non sappiamo. Ci sono troppi fattori inafferrabili, come vedremo nei capitoli successivi.
Per chiunque voglia fare il regista ma non abbia ancora fatto un solo film, non c’è nessuna decisione da prendere. Qualunque sia il film, qualsiasi siano gli auspici, qualsiasi siano i problemi, se si presenta un’opportunità di dirigere, la si afferri. Punto. Punto esclamativo! Il primo film si giustifica da sé, perché è il primo film.
Ho spiegato perché decido di fare un certo film. Ma la decisione più importante da prendere è questa: di cosa parla questo film? Non mi riferisco alla trama, benché in certi thriller, anche ottimi, la trama sia tutto. Il che non è male. Una buona storia, eccitante, da brivido, può essere divertentissima. Ma cos’è questo film da un punto di vista emotivo? Qual è il tema del film, il nucleo, il suo raggio di estensione? Che significato ha per me? Personalizzare il film è molto importante. Perché ci metterò tutto me stesso per i prossimi sei, nove, dodici mesi. È giusto, dunque, che abbia un significato per me, altrimenti il lavoro fisico (già molto duro) mi lascerà totalmente esausto. La parola significato ha un’estensione quasi illimitata. La virtù sdraiata significò che ebbi l’opportunità di lavorare con Carlo, e quello che imparai fu essenziale per tutti i film che avrei fatto in seguito.
La domanda «Di cosa parla questo film?» verrà riformulata più volte nel corso del libro. Per il momento, è sufficiente dire che il tema (il cosa del film) determina lo stile (il come del film). È il tema, nei suoi particolari, a stabilire la selezione fatta nei capitoli successivi. Il mio lavoro comincia da dentro. Ciò di cui parla il film determina la scelta del cast, dello stile, del montaggio, della colonna sonora, del missaggio, dei titoli di testa e di coda e, con uno studio cinematografico serio, anche della distribuzione. Ciò di cui parla il film determina la maniera in cui verrà fatto.
Come ho già accennato, il thriller si giustifica da sé. Infatti, la domanda «E ora cosa succede?» è una delle gioie che ci portiamo dietro dall’infanzia. Come era emozionante la prima volta che ci hanno raccontato Cappuccetto Rosso, e come ci emozioniamo ancora quando vediamo Il silenzio degli innocenti! Non voglio dire che Il silenzio degli innocenti è solo una semplice trama. Grazie alla buona scrittura di Ted Tally, alla regia straordinaria di Jonathan Demme e alla magnifica interpretazione di Anthony Hopkins, il film esplora due personaggi affascinanti. Ma è, innanzitutto e soprattutto, una storia brillante che ti tiene inchiodato e sospeso, che ti fa mangiare le unghie.
Il thriller è una delle vette più alte della «teatralità», rende plausibile l’implausibile. Man mano che va avanti, sembra sempre più vero. Assassinio sull’Orient Express è un ottimo whodunit che lascia totalmente disorientati. Mi ricordo che, quando lessi il copione per la prima volta, urlai dalla gioia nel momento in cui si scopriva che tutti erano l’assassino. Quando si dice plausibilità! E dopo averci pensato un po’, riuscii a capire che si trattava di qualcosa di diverso: la nostalgia. Per me, il mondo di Agatha Christie è soprattutto nostalgico. Persino i titoli sono nostalgici: L’assassinio di Roger Ackroyd (che nome!), Assassinio sull’Orient Express (che treno!), Poirot sul Nilo (che fiume!) – tutta la sua opera rappresenta un’epoca e dei luoghi di cui ignoravo l’esistenza, e che ancora mi chiedo se siano mai esistiti per davvero. Nei capitoli che seguono spero di dimostrare quanto il concetto di nostalgia abbia influenzato ogni singola parte di Assassinio sull’Orient Express. E, alla fine, un whodunit di Agatha Christie, vecchio di quarant’anni, conquistò sei candidature all’Oscar.
C’era anche un altro motivo per cui volevo fare il film. Sapevo di avere buttato via due film dirigendoli in maniera troppo pesante. Erano Il gruppo, scritto da Sidney Buchman, dal libro di Mary McCarthy, e un film meno conosciuto, Addio Braverman, un adattamento di Herb Sargent da un romanzo di Wallace Markfield, To an Early Grave. Il gruppo avrebbe sicuramente tratto vantaggio da un tocco più lieve nei primi venticinque minuti, in modo tale da fare affiorare la parte più seria piano piano. Kay, uno dei personaggi principali del libro, prende tutto troppo seriamente nella vita. Per lei, il problema più insignificante si trasforma in una crisi, l’osservazione più casuale riesce a far cambiare il suo rapporto con un’altra persona. Verso la fine del film, Kay si sporge dalla finestra, col binocolo in mano, per vedere gli aerei tedeschi durante la seconda guerra mondiale. È convinta che New York stia per essere attaccata dall’alto. Si sporge troppo, cade e muore. Questo momento avrebbe avuto bisogno di quel certo tipo di pazzia comica che si trasforma in tragedia che è, ad esempio, una specialità di Robert Altman.
Addio Braverman era una sceneggiatura praticamente perfetta. E io l’ho trasformata in un polpettone anziché in un soufflé. Un cast di comici meravigliosi – Jack Warden, Zohra Lampert, Joseph Wiseman, Phyllis Newman, Alan King, Sorrell Brooke, Godfrey Cambridge – lasciati ad annaspare come pesci su una spiaggia da un regista che prende funerali e cimiteri troppo seriamente.
Sapevo che Assassinio sull’Orient Express doveva essere fatto con leggerezza di spirito. Per natura siamo portati per certe cose, mentre altre le dobbiamo imparare. Altre ancora non le possiamo proprio fare. Ma in questo caso ero deciso a fare un film allegro, a costo di uccidere me stesso o chiunque altro per riuscirci. Non si è mai visto nessun altro lavorare tanto intensamente per qualcosa destinato a essere leggero. Ma ci riuscii. (Come già detto, i dettagli verranno discussi nei capitoli successivi.) Non credo che sarei stato capace di destreggiarmi così bene con Quinto potere se non fosse stato per la lezione imparata con Assassinio sull’Orient Express.
Potrei andare avanti con la lista dei miei film e analizzare le ragioni per cui li ho fatti. Le ragioni vanno dal bisogno di soldi al bisogno di essere coinvolto da cima a fondo, come nel caso di Terzo grado. L’intero processo del fare cinema è magico, così magico, infatti, che spesso diventa una ragione sufficiente per mettersi al lavoro. Fare un film è già abbastanza. Tuttavia, vorrei dire un’ultima parola sul perché faccio un film piuttosto che un altro. Nel corso degli anni, sia i critici che il pubblico hanno notato il mio interesse per il sistema giudiziario. È vero. Alcuni hanno detto che le mie radici teatrali sono più che evidenti dal numero di film che ho tratto da commedie. Certo che sono evidenti. Ho fatto un bel po’ di film riguardanti genitori e figli. Ho fatto delle commedie, alcune male, altre meglio, ho fatto dei thriller e un musical. Sono stato anche accusato di essermi mosso in tutti i campi, di non avere un tema predominante che faccia da collante all’insieme del mio lavoro. Non so se sia vero o no. E non lo so perché, quando apro la prima pagina di un copione, divento una vittima consenziente. Non ho il preconcetto secondo cui tutto il mio lavoro deve girare intorno a una certa idea. Nessun copione deve aderire a un tema centrale della mia vita. Non ne ho uno. Di tanto in tanto ripenso al lavoro del passato e dico a me stesso: «Ah, ecco a cosa ero interessato allora».
Qualsiasi cosa io sia, qualsiasi cosa il mio lavoro significhi, deve venir fuori dal mio inconscio. Non posso avvicinarmi a un soggetto in modo cerebrale. Ovviamente, questo è giusto e valido per me. Ognuno deve avvicinarsi ai problemi nella maniera che ritiene più opportuna. Io non so come scegliere il lavoro che fa luce sulla mia vita. Non so cosa sia la mia vita e non la esamino. La mia vita si definisce da sola, mentre la vivo. I film si definiscono da soli, mentre li faccio. Se il tema mi interessa in un dato momento, è già un motivo per mettermi al lavoro. Forse, il lavoro stesso è la mia vita.
Una volta deciso di fare un film, qualunque sia la ragione, per me ricomincia quella difficile analisi che travolge tutto il resto: «Di cosa parla questo film?» Il lavoro non può avere inizio finché questi limiti non vengono definiti, ed è il primo passo dell’intero processo. Diventa il letto del fiume dentro il quale verranno incanalate tutte le decisioni successive.
L’uomo del banco dei pegni: come e perché ci creiamo le nostre prigioni.
Quel pomeriggio di un giorno da cani: i mostri non sono quei mostri che noi crediamo siano. Siamo molto più vicini ai comportamenti più osceni di quanto noi stessi possiamo immaginare o ammettere.
Il principe della città: quando cerchiamo di controllare tutto, tutto finisce per controllare noi. Niente è quello che sembra.
Daniel: chi paga per le passioni e gli impegni dei genitori? I genitori, ma anche i figli, che non hanno mai scelto quelle passioni e quegli impegni.
Pelle di serpente: la lotta per conservare quello che c’è di sensibile e vulnerabile in noi stessi e nel mondo.
Rapina record a New York: le macchine stanno vincendo.
A prova di errore: le macchine stanno vincendo.
La parola ai giurati: ascolta.
Quinto potere: le macchine stanno vincendo. Oppure, parafrasando la NRA: la tv non corrompe le persone; le persone corrompono le persone.
Serpico: il ritratto di un ribelle vero per un buon motivo.
I’m magic: la casa, come conoscenza di noi stessi, è dentro di noi. (Il che era vero per il grande film della Garland e per il romanzo di L. Frank Baum).
Vivere in fuga: chi paga per le passioni e gli impegni dei genitori?
Il gabbiano: perché ci si innamora sempre della persona sbagliata? (Non è un caso che, nella scena finale, i personaggi principali giocano a carte, come se volessero rifarsi della propria sfortuna)
Il lungo viaggio verso la notte: qui mi devo fermare. Non so quale sia il tema, se non un’idea qualsiasi inerente al titolo. Talvolta arriva un soggetto che è, come in questo caso, scritto in maniera così straordinaria, così assoluta, così onnicomprensiva, che nessun tema lo può definire. Cercare di fissarlo limiterebbe qualcosa che non dovrebbe avere limiti. Sono stato molto fortunato a trattare un testo di tale grandezza nella mia carriera. Ho scoperto che la maniera migliore per avvicinarmi al testo era chiedere, investigare, lasciare che lo stesso testo mi parlasse.
Buona parte di questo succede con qualsiasi lavoro valido, naturalmente. Nel caso del Principe della città non sapevo che posizione prendere nei confronti del personaggio principale, Danny Ciello, finché non ho visto il film finito. Con Serpico avevo un atteggiamento ambivalente verso il personaggio. In certi momenti era un tale rompiballe! Sempre a lagnarsi. Al Pacino me lo fece amare, non il modo in cui era scritto. Il gabbiano è ambivalente nei comportamenti dall’inizio alla fine. Tutti amano la persona sbagliata. Il professor Medvedenko ama Masha che ama Konstantin che ama Nina che ama Trigorin che appartiene ad Arkadina che è amata per davvero dal dottor Dorn che è amato da Paulina. Ma malgrado la loro follia apparente, tutti conservano la propria dignità, il proprio pathos. L’ambivalenza è una risorsa che permette di esplorare ogni personaggio in profondità. Ognuno di loro è come tutti noi.
Ma nel Lungo viaggio verso la notte nessuno è come noi. I personaggi vengono travolti da una spirale di proporzioni epiche, tragiche. Secondo me, Il lungo viaggio sfugge alle definizioni. Una delle cose più belle che mi siano mai successe, mi è successa con quel film: l’ultima inquadratura. Nell’ultima inquadratura Katharine Hepburn, Ralph Richardson, Jason Robards e Dean Stockwell sono seduti intorno a un tavolo. Ognuno è perso nella sua fantasia drogata: gli uomini nell’alcol, Mary Tyrone nella morfina. Un faro lontano illumina la stanza ogni quarantacinque secondi. La macchina da presa si allontana lentamente, e le pareti della stanza poco a poco spariscono. D’improvviso i personaggi sono seduti in un limbo nero, la luce li sfiora e loro diventano sempre più sottili. Dissolvenza. Dopo aver visto il film, Jason mi raccontò di aver letto una lettera di Eugene O’Neill nella quale l’autore descriveva la sua immagine di questa famiglia «seduta nell’oscurità, intorno a un tavolo in cima al mondo».
Io non avevo letto quella lettera. Il mio cuore fece salti di gioia. Ecco cosa succede quando lasci che sia il testo a darti dei suggerimenti. Ma il testo deve essere grande. Si può non essere d’accordo sul significato di un certo testo, non è importante. Chiunque ne stia facendo un film ha diritto alla propria interpretazione. Ho amato, ho ammirato tutti quei film che sentivo essere qualcosa in più di quello che stavo guardando. Con Un posto al sole, George Stevens riuscì a fare una storia d’amore meravigliosa, molto romantica. Ma la risonanza del libro di Dreiser, da cui il film era tratto, per me diventò centrale, benché allora non l’avessi ancora letto. Era davvero «una tragedia americana»: il prezzo spaventoso che un uomo deve pagare per aver creduto nel mito americano. La cosa importante è che l’interpretazione del regista venga fuori in maniera tale che le sue intenzioni, il suo punto di vista, siano chiari. A quel punto, ognuno è libero di essere d’accordo, di rifiutare o di scoprire nuove letture del testo. Qui nessuno cerca il consenso. Cerchiamo la comunicazione. Qualche volta riusciamo a ottenere anche il consenso, ed è magnifico. Giusta o sbagliata che sia, ho fatto la mia scelta di un tema.