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 2012  aprile 08 Domenica calendario

ROMA —

La sentenza di morte non è stata mai ufficialmente pronunciata. Ma che il federalismo sia in attesa della pietosa sepoltura ci sono ormai pochi dubbi. Un mese fa, a Belluno, anche il leghista Roberto Maroni ha allargato le braccia commemorando il caro estinto. «Mi sembra che il federalismo fiscale sia defunto», ha ammesso. Indicando anche il responsabile: il governo di Mario Monti. «Sta facendo tutto in direzione opposta», ha detto senza peli sulla lingua l’ex ministro dell’Interno.
E sebbene il presidente della commissione bicamerale Enrico La Loggia si ostini a sostenere che «è vero il contrario, il federalismo sta procedendo speditamente grazie al contributo positivo offerto soprattutto dal Pdl e dal Pd, oltre che dalla Lega Nord», i fatti sono incontrovertibili.
Il presidente dell’Anci Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia, racconta come il federalismo demaniale, vale a dire il processo di trasferimento di proprietà statali agli enti locali, sia completamente arenato. Al punto che i decreti con i quali il processo si sarebbe dovuto mettere in moto, oggetto di una lunga trattativa già a luglio dello scorso anno, non sono mai stati pubblicati sulla Gazzetta ufficiale. Quasi un mese fa Delrio ha scritto una lettera al presidente del Consiglio Mario Monti, ricordando come il provvedimento che dispone il passaggio dei beni dal centro alla periferia fosse stato approvato addirittura due anni fa e chiedendo di sbloccare i decreti attuativi. Ma lo stallo continua. I 12 mila immobili, per un valore non inferiore a 2 miliardi, già individuati per il trasferimento ai Comuni, restano dunque nella pancia dello Stato. E non è un dettaglio da poco: per i Comuni, che hanno le casse sempre più vuote, sarebbe oro.
Perché tutto si è bloccato con l’arrivo di Mario Monti a Palazzo Chigi? Nessuno lo dice: si possono soltanto fare supposizioni. Però è del tutto evidente che con il governo tecnico il boccino è tornato nelle mani della burocrazia statale, chiaramente restìa a mollare le proprie prerogative.
Sono così riaffiorate le resistenze mostruose che certi poteri oppongono al cambiamento. Prendiamo le caserme. Da decenni si parla di venderle, o comunque di valorizzarle: magari impiegandole per trasformarle in sedi di uffici pubblici, il che farebbe spesso risparmiare canoni astronomici. Il federalismo demaniale poteva essere un’occasione decisiva per rompere quel circuito perverso ben descritto dall’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco nel libro intervista con Orazio Carabini «Il fisco giusto», pubblicato una dozzina d’anni fa dal Sole 24ore: «I militari non mollano le caserme, anche se sono vuote. C’è una procedura che prevede che se non vengono utilizzate bisogna restituirle al demanio. Ma basta mettere un piantone di guardia per fare vedere che è utilizzata e nessuno gliela può togliere».
Anche stavolta, invece, il risultato è stato un buco nell’acqua. Difficile aspettarsi da un ministero della Difesa retto oggi da un militare come l’ammiraglio Giampaolo Di Paola un radicale mutamento di rotta. Così il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, non può mandare avanti il progetto di valorizzazione di ben cinque caserme che contava di acquisire al patrimonio comunale. Problemi simili hanno i suoi colleghi di Venezia, Giorgio Orsoni, e di Bologna, Virginio Merola.
E che dire delle spiagge? Pure il provvedimento che dovrebbe dare alle Regioni la competenza sugli arenili è fermo. Non da adesso: si era già fermato quando c’era il precedente governo, con tanto di ministro delle Riforme nella persona di Umberto Bossi, e di ministro della Semplificazione in quella di Roberto Calderoli. Eppure il passaggio delle spiagge alle Regioni avrebbe inevitabilmente portato a una revisione dei canoni, talvolta assolutamente ridicoli, che i concessionari pagano. Ma non hanno sortito alcun effetto nemmeno le sollecitazioni piovute sui tavoli dei ministri leghisti. Forse più impegnati, durante il tramonto del governo Berlusconi, in operazioni di facciata come la surreale apertura delle sedi distaccate dei ministeri a Monza, prontamente sbarrate da Monti.
Certo, almeno allora se ne parlava: mentre invece adesso il federalismo è completamente sparito dal dibattito pubblico. Sarà pure perché la Lega Nord ora è all’opposizione. E di sicuro i suoi dirigenti, alle prese con il caso del tesoriere Francesco Belsito e con il terremoto che ha investito la famiglia di Bossi, hanno altre gatte da pelare. Ma il disinteresse che ha improvvisamente avvolto questo argomento è la dimostrazione di quanto il progetto federalista, pure approvato dal Parlamento quasi all’unanimità, poggiasse su fragili fondamenta.
Nelle parole di Maroni si intravede il sospetto che esista una manovra precisa per affossarlo: «C’è un attacco ai Comuni, e poi le rapine ai fondi di tesorerie…». Certamente la reintroduzione della tassa sulla casa e la nascita dell’Imu, a dispetto dell’acronimo che sta per Imposta municipale unica, tutto è tranne un’operazione federalista. Basta dire che per metà il prelievo sulle seconde case finirà direttamente all’Erario e i Comuni incasseranno addirittura meno che dalla vecchia imposta sugli immobili. Dei 21,8 miliardi di gettito previsto per l’Imu, ai municipi ne andranno a malapena 9, contro i 9 e mezzo dell’Ici.
Per non parlare dell’obbligo, imposto agli stessi Comuni, di riversare tutto nella Tesoreria unica. Per i sindaci quella è stata un’autentica mazzata. Ben 11 miliardi e mezzo di liquidità sono finiti sul conto corrente dello Stato centrale, che ha stabilito per legge un tasso d’interesse dell’1,5%, contro il 3,5% che i Comuni spuntavano in precedenza: una perdita secca di 200 milioni l’anno. Ma soprattutto è un salto indietro «culturale» di trent’anni, visto che si ritorna a una situazione identica a quella del 1984. Vero è che si tratta di una soluzione transitoria, fino al 2014, per consentire allo Stato di utilizzare i soldi degli enti locali senza dover emettere Bot o Btp. Ma sappiamo pure che in Italia non c’è nulla di più permanente del transitorio.
Altro segnale in direzione contraria al federalismo è quindi il decreto che avrebbe dovuto imporre agli amministratori uscenti la redazione di un inventario di fine mandato. Cioè una fotografia precisa della situazione finanziaria dell’ente, da scattare prima delle elezioni: innanzitutto per dare modo ai cittadini elettori di esprimere nell’urna un giudizio sul sindaco o sul governatore uscente, ma anche per evitare quelle penose verifiche successive al voto che rivelano spesso sgradevoli sorprese.
Alla lista dei «Chi l’ha visto?» va aggiunta la conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica fra Stato ed enti locali. Istituita per decreto legislativo nel 2011, doveva tenere la sua prima riunione entro settembre dello scorso anno. Ma non è mai stata convocata: né dal governo Berlusconi, né dal governo Monti.
Ricordate infine la commissione tecnica paritetica sul federalismo fiscale? È la struttura presieduta da Luca Antonini, composta da 15 rappresentanti dei ministeri e 15 esponenti degli enti locali, incaricata di affrontare una delle questioni più spinose, quella dei cosiddetti «fabbisogni standard». Per capirci deve fissare i paletti per impedire che una siringa acquistata da una Asl meridionale costi cinque volte più di una comprata da un ospedale del Nord. Che fine ha fatto? Ebbene, per quasi cinque mesi quella commissione non ha potuto fare altro che gestire l’ordinaria amministrazione: il governo Monti ha proceduto alla nomina dei suoi elementi, in sostituzione dei rappresentanti dei precedenti ministri, soltanto da qualche giorno.
Inutile dire che in questo contesto anche il calcolo dei famosi «fabbisogni standard» procede con estrema difficoltà. Pare che l’ultimo questionario partorito dalla commissione Antonini sia considerato da molti enti locali particolarmente indigesto. Ma che coincidenza…