Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 08 Domenica calendario

PEZZI DEL CORRIERE SULLA LEGA - 8 APRILE 2012


EDITORIALE DI ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA
Dopo Berlusconi, Bossi; dopo la crisi del Pdl, quella della Lega: con gli avvenimenti di questi giorni si sta forse consumando definitivamente nella politica italiana quel ruolo centrale del Nord — lo definirei il Nord «ideologico», quello animato da un antico desiderio di rivincita e di primato, di cui per esempio il Piemonte non ha mai fatto parte — che, tra gli anni Ottanta e i Novanta del secolo scorso, mise alle corde la Prima Repubblica e poi cercò di ereditarne le sorti. È un ruolo che si chiude in modo fallimentare. In venti anni, infatti, quella che si presentava e per molti aspetti era un’iniziativa ambiziosa dal segno fortemente settentrionale — Lega/Forza Italia — non è riuscita ad aprire alcuna fase realmente nuova nella vita del Paese (tanto meno dal punto di vista economico), né a riformarne in meglio le istituzioni (il naufragio del cosiddetto federalismo è ormai sotto gli occhi di tutti) né a dar vita a una nuova età politica.
In un senso profondo, insomma, il Nord, quel Nord, non è riuscito a governare l’Italia. Non c’è riuscito soprattutto perché non è riuscito a unificarla politicamente. Non è stato capace, cioè, di imitare l’esempio della Democrazia cristiana, alla quale per un quarantennio, invece, riuscì di tenere insieme le roccaforti del cattolicesimo lombardo-veneto con il voto popolar-conservatore del Mezzogiorno. In circostanze storiche forse irripetibili, questo è vero. Ma è anche vero che il blocco partitico settentrionale non sembra aver mai compreso davvero che un Paese come il nostro, al proprio interno così vario e contraddittorio, non può essere guidato facendo leva esclusivamente su una sua parte. A meno che questa non s’impegni con successo in un’opera decisa di amalgama e di integrazione. Non ha compreso che da un secolo e mezzo, piaccia o non piaccia, in Italia è come se di continuo ogni governo dovesse ripercorrere l’impresa dell’Unità, dovesse ogni volta, per un certo verso, ricominciare dal 1860-61.
Un’impresa che però, per andare a buon fine, ha bisogno, come si capisce, di un elemento egemonico decisivo: di poggiare su un progetto politico nazionale, di essere animata da un’ispirazione forte e autentica. Il partito settentrionale ha invece creduto che per avere dalla propria il resto del Paese bastasse una pura sommatoria elettorale con la vecchia tradizione missino-corporativa (alleanza, peraltro, entrata quasi subito in fibrillazione) da un lato e dall’altro con nuclei più o meno consistenti di notabilato e/o di politicantismo centro-meridionali. Ma così ancora una volta il Nord, quel Nord che ho definito sopra «ideologico», ha dimostrato la sua antica, direi storica, difficoltà a fare politica, la sua incapacità a rappresentare un soggetto politico all’altezza dei suoi propositi.
Difficoltà e incapacità che hanno una sola origine: l’idea, condivisa tanto dalla Lega che dal berlusconismo, che al dunque la politica possa essere, e di fatto sia, solo rappresentanza di interessi (inclusi quelli di coloro che la fanno...), e nulla più. Non già, come invece è, visione generale, indicazione di traguardi collettivi e di strumenti adeguati, impulso autonomo mosso da valori, e su queste basi, poi, ma solo poi, anche mediazione creativa tra esigenze diverse. Le conseguenze? Nessuna o poca idea di nazione e di Stato, scarsa etica pubblica, noncuranza per le regole; e, come non bastasse, una leadership sempre incerta tra virulenza da capataz e un molto casalingo tirare a campare. I risultati li abbiamo visti.
Ernesto Galli della Loggia

***

L’INCHIESTA
F. SAR.
ROMA — Si divide in tre filoni l’inchiesta che ha travolto la Lega Nord e il suo leader Umberto Bossi. Una riunione tra i magistrati delle tre Procure che indagano, coordinata dalla Direzione nazionale antimafia, dovrebbe svolgersi entro la prossima settimana e sarà l’occasione per fare il punto sugli accertamenti già svolti. Ma anche per l’assegnazione dei nuovi compiti evitando sovrapposizioni nelle verifiche che ormai riguardano svariati capitoli.
Una decisione appare comunque già presa: i prossimi controlli sulle spese della famiglia del Senatur saranno effettuati dai pubblici ministeri di Milano. I colleghi napoletani si concentreranno sugli appalti ottenuti dall’imprenditore Stefano Bonet con un’attenzione particolare alle commesse ottenute dal Vaticano, ma anche alle operazioni estere per le quali è già stata contestata l’accusa di riciclaggio. L’attenzione degli inquirenti di Reggio Calabria resterà invece puntata sui legami con la ’ndrangheta e in particolare sul ruolo di quel Romolo Girardelli ritenuto il procacciatore d’affari della «cosca De Stefano».
Sono tre i personaggi chiave della vicenda e il fulcro è certamente Francesco Belsito, 41 anni, tesoriere della Lega dal 2010 e sottosegretario alla Semplificazione nel governo Berlusconi. A Milano è accusato di truffa aggravata per aver falsificato i dati relativi ai rimborsi elettorali e appropriazione indebita per aver utilizzato a fini personali quei fondi. La legge sul finanziamento ai partiti consente infatti l’uso del denaro pubblico esclusivamente a fini politici e invece Belsito con quei soldi avrebbe pagato le spese della famiglia di Umberto Bossi e ideato spericolate operazioni finanziarie in Italia e all’estero. Il suo referente per questi investimenti risulta essere Stefano Bonet, 46 anni, titolare di numerose aziende e assegnatario di svariati appalti pubblici. Proprio grazie a queste commesse sarebbe riuscito a ottenere crediti d’imposta superiori al dovuto.
A Napoli sono entrambi accusati di ricettazione e riciclaggio con altri imprenditori. Stesse accuse vengono contestate a Reggio Calabria, ma con un tassello ulteriore. Nella lista degli indagati della Procura di Reggio figura infatti Romolo Girardelli, procacciatore d’affari che nel 2002 fu accusato di associazione a delinquere nell’ambito di un’indagine sulla «cosca De Stefano» e tuttora viene ritenuto dai magistrati il referente finanziario del clan. Girardelli e Belsito hanno creato una società di consulenza immobiliare con sede a Genova e Girardelli è stato poi assunto in una delle imprese di Bonet.
È questo l’intreccio di interessi che i magistrati continueranno a esplorare per capire fino a dove si siano spinti gli affari illeciti di Belsito. Ma anche per capire se, oltre a Umberto Bossi, ai suoi familiari (i figli Renzo, Riccardo e Sirio oltre alla moglie Manuela), a Rosi Mauro, altre persone — in particolare politici e parlamentari — abbiano ottenuto soldi dalle casse della Lega. Nessuno tra loro risulta al momento nel registro degli indagati. Le dazioni sono emerse dalle telefonate intercettate tra Belsito e la segretaria amministrativa del Carroccio, Nadia Dagrada. La stessa funzionaria ha poi confermato che effettivamente una parte del denaro è stato usato a fini non politici. E ha fornito clamorosi dettagli sull’elenco della spesa con esborsi da centinaia di migliaia di euro per comprare diplomi, lauree, auto, per pagare ristrutturazioni, vacanze, per saldare i conti di medici e avvocati.
La gestione finanziaria illecita è stata confermata dalla stessa segretaria di Bossi, Daniela Cantamessa che ha aggiunto un dettaglio fondamentale per individuare eventuali responsabilità penali: la consapevolezza del Senatur circa l’utilizzo dei rimborsi elettorali. Da qualche giorno è cominciata l’analisi della documentazione contabile sequestrata durante le perquisizioni effettuate martedì scorso. E del materiale — anche informatico — trovato negli uffici e nelle abitazioni controllate dai carabinieri del Noe e dalla Guardia di finanza.
Se il quadro disegnato dai testimoni troverà conferma, altre persone rischiano di finire nel registro degli indagati per appropriazione indebita. E in cima alla lista ci sono proprio Umberto Bossi, i suoi figli, sua moglie e Rosi Mauro.
F. Sar.

***

LA TESTIMONIANZA DI HELGA GIORDANO
ROMA — Esiste una documentazione finanziaria della Lega che i responsabili amministrativi avevano chiesto agli impiegati di non inserire nei bilanci. Una contabilità «occulta» che dovrà essere adesso analizzata e quantificata. Una parte di queste carte segrete sono state sequestrate a casa di Helga Giordano, contabile di via Bellerio per circa sette anni. Nel febbraio scorso la donna — che fino a qualche mese fa era assessore al Bilancio del Comune di Sedriano (Milano) — è stata licenziata perché accusata di aver truffato un’imprenditrice spacciandosi come la segretaria particolare di Bossi. Lei sostiene di essere stata in realtà «mobbizzata dal tesoriere Francesco Belsito, che mi costrinse anche a lasciare l’incarico politico». Il 3 aprile, dopo le perquisizioni scattate in tutta Italia nell’ambito dell’inchiesta sulla gestione dei rimborsi elettorali, è stata interrogata dai pubblici ministeri. E si è trasformata in una testimone chiave per ricostruire l’origine di fatture e pagamenti «anomali».
Non solo. L’ex dipendente ha rivelato come i rapporti tra la Lega e il procacciatore d’affari della ’ndrangheta Romolo Girardelli siano iniziati ben prima dell’arrivo di Belsito. «Ho conosciuto Girardelli — ha verbalizzato la donna — perché accompagnava talora in ufficio Maurizio Balocchi» il tesoriere morto nel 2010. «I due sembravano legati da forte amicizia, pur essendo Girardelli del tutto estraneo al partito». In realtà i magistrati sono convinti che proprio Girardelli, attraverso le casse della Lega, riciclasse i soldi della criminalità organizzata. In questo quadro inseriscono il trasferimento dei cinque milioni e 700 mila euro a Cipro e in Tanzania. E infatti nel decreto di perquisizione firmato dal giudice di Reggio Calabria è scritto: «Si tratta di complesse operazioni bancarie di "esterovestizione" e "filtrazione" in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Condotta posta in essere da Girardelli per agevolare l’attività dell’associazione mafiosa e in particolare della "cosca De Stefano"».
I conti di ristoranti
e alberghi
Sono decine i documenti che Helga Giordano nascondeva nel suo appartamento. E lei così ha spiegato il proprio comportamento: «Nadia Dagrada selezionava specie negli ultimi tempi una serie di fatture che, anziché passarmi affinché le contabilizzassi, se le tratteneva lei. Proprio perché mi ero accorta che vi erano delle anomalie in questa attività di contabilizzazione decisi di portarmi a casa copia dei prospetti dei bonifici da me compilati. Si tratta della documentazione che è stata sequestrata in data odierna nel corso della perquisizione. Per ciò che riguarda la cartellina che mi è stata sequestrata, contenente documentazione varia, in particolare fatture e rendiconto di carte di credito, si tratta per quel poco che sono riuscita a fotocopiarmi, di alcune spese che la Dagrada non voleva che annotassi o di spese che mi sembravano anomale».
I sospetti della donna si concentrano fra l’altro su «varie spese alberghiere che venivano sopportate dal partito in base alla scelta discrezionale di Nadia Dagrada. Nella fattura CC Hotels di Vicenza, oltre a Bossi e ad altri militanti a me noti, vi sono nomi totalmente sconosciuti».
E ancora: «Le fatture emesse da Paola Prada, Andrea Calvi e Luigi Pisoni, ad esempio, le avevo sulla scrivania perché recapitatemi direttamente dal postino e mi furono tolte dalla Dagrada dicendomi che non andavano inserite nel prospetto ufficiale delle spese/bonifici. Tra tutte le spese indicate nei prospetti di bonifico non vi sono voci "sospette" nel senso che almeno da una prima visione mi sembrano spese inerenti l’attività di partito. Vi sono significative spese di rappresentanza in ristoranti, che potranno essere discutibili dal punto di vista del contribuente con i cui soldi vengono finanziati i partiti, ma si tratta di prassi consolidata e normale in tutte le formazioni politiche. Dove si vede la voce "asilo" nella colonna "Manifestazioni/Riferimento", si tratta dell’asilo che si trova all’interno della sede della Lega Nord che svolge appunto un’attività di asilo per bambini a pagamento, anche per persone che non appartengono al partito».
Ristrutturazioni
e camioncini
Le dichiarazioni della Giordano confermano l’accusa che numerose spese accreditate alla Lega fossero in realtà spese personali della famiglia di Umberto Bossi o comunque di persone inserite nel «cerchio magico» del leader. Ma anche affari gestiti per proprio interesse da Belsito. Afferma la testimone: «Tra le spese anomale inserisco le fatture della "Cori.cal service" che erano singolari perché, tenuto conto che si tratta di una ditta di pulizie, avevano oggetti anche diversi dalla semplice pulizia e lo stesso importo delle fatture mensili era oscillante mentre invece ragionevolmente poteva ritenersi che dovesse essere più o meno fisso, o comunque non discostarsi troppo da un importo stabile. Indubbiamente sono molte le fatture della "Cori.cal service" con importo variabile e spesso con reiterazione di lavori tinteggiatura. Sembra che sia una ditta che lavori spesso in tandem con la "G&A soluzioni edili". Mi si chiede se questi lavori di rifacimento facciate, pulizia straordinaria, manovalanza, siano stati effettivamente svolti e io rispondo che non sono in grado di stabilirlo. Tutta la questione della manutenzione della sede di via Bellerio veniva seguita da un nostro dipendente, il signor Luca Canavesi».
Ci sono poi altri pagamenti «anomali». Afferma la Giordano: «La fattura della "Italtrade", oltre ad essere indubbiamente assai elevata per la prestazione fornita, richiamò la mia attenzione perché il fornitore mi chiamò per essere rassicurato sul pagamento. Si tratta di 1.000 euro al mese per il parcheggio di un camioncino con la vela pubblicitaria sopra, per complessivi 43.000 euro ed oltre, per sei camion in un semestre. E la fattura della "Boniardi Grafiche" perché non è emessa alla Lega, bensì a Massimiliano Orsatti».
La lista
delle macchine
Tra i fogli inseriti nella cartellina di Helga Giordano ci sono quelli relativi alla macchina di Daniela Cantamessa, la segretaria di Umberto Bossi. Lei spiega di averli presi perché l’auto era nella lista della Dagrada «sulle spese da non annotare». Su questo viene interrogata il giorno dopo la stessa Cantamessa che così spiega il possesso dell’auto: «Circa l’autovettura Focus che uso in via esclusiva, si tratta di vettura presa in leasing o comunque con un finanziamento con riscatto finale da parte della Lega. Le spese di riparazione dell’autovettura sono a carico del partito».
Anche nella sua abitazione sono stati sequestrati documenti contabili, in particolare «una copia del bilancio 2010 e i tabulati relativi alle autovetture del partito». E lei, per giustificare la scelta di portare via le carte dalla sede di via Bellerio, ha dichiarato: «Avevo redatto delle note critiche sulle spese e volevo darle a Roberto Castelli affinché svolgesse un accurato controllo».
Fiorenza Sarzanini

***

BRANCHER VUOLE UN BONIFICO URGENTE
Guastella-Ferrarella
MILANO — C’è anche la storia di uno strano «favore urgente» — un bonifico che il parlamentare pdl Aldo Brancher dovrebbe fare ma che chiede invece all’imprenditore Stefano Bonet di operare al suo posto — nelle intercettazioni realizzate per la Procura di Napoli dai carabinieri del Noe concentratisi sulla figura di Bonet: cioè dell’imprenditore da 50 milioni di fatturato, coinvolto dal tesoriere leghista Francesco Belsito nel controverso investimento milionario in Tanzania, e che ora è indagato sia per concorso con Belsito nell’ipotizzata appropriazione indebita di rimborsi elettorali leghisti, sia per truffa allo Stato in relazione ai crediti d’imposta incassati da grandi gruppi industriali come la Siram.
In alcune telefonate di Bonet, scrivono i carabinieri, «si coglie un legame di interesse da parte di Brancher», ex dirigente Fininvest, storico «pontiere» tra Forza Italia e Lega, arrestato-processato-prescritto in Mani pulite, sottosegretario nel governo Berlusconi, per due sole settimane anche ministro, l’anno scorso condannato in Cassazione a due anni (coperti da indulto) per appropriazione indebita e ricettazione, nel 2003-2005, di denaro della Banca Popolare di Lodi di Giampiero Fiorani, che con ciò puntava a costituire una lobby parlamentare favorevole al mandato a vita dell’allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio.
Nelle intercettazioni, dunque, non compare solo il già noto riferimento «ai 150.000 euro che Belsito dice (alla responsabile contabile leghista Nadia Dagrada) che Bonet ha dato a Brancher per la festa del Garda»: circostanza che sembra inquadrarsi nel contesto già descritto nell’agosto 2011 da l’Espresso, che aveva indicato Bonet come consulente privato di Brancher quando costui dal gennaio 2011 era andato a gestire l’«Organismo di indirizzo» costituito da un decreto Berlusconi-Tremonti per ripartire 160 milioni di euro tra i Comuni veneti e lombardi confinanti con le province di Trento e Bolzano.
C’è anche il fatto che — come i carabinieri interpretano la telefonata del 24 gennaio — «Brancher prega Bonet di fare con urgenza un bonifico a tale Enzo, affermando che ciò gli è stato sollecitato dall’amministrazione e chiedendogli il favore di fargli il pagamento».
Brancher: «Mi ha chiamato di nuovo l’amministratore lì, come si chiama...».
Bonet: «Eh sì, immagino, immagino , diciamo che adesso è solo un problema di cassa a mettere in pagamento appena possibile, credo che già domani mattina arriveranno, insomma dai...».
Brancher: «Eh fammi un favore, dai, così almeno...».
Bonet: «Sì, sì».
Brancher: «...si mette l’anima in pace».
Bonet: «Sì sì, ma non mi mancano i soldi di sicuro per quelle necessità lì, non è quello il problema, so che, dai, tra i tanti casini...».
Brancher: «E vabbe’, se tu gliel’hai detto... Adesso lo chiamo e gli dico di stare tranquillo, domani o dopodomani si realizza questa cosa insomma».
Le informazioni sulla Tanzania
Tra l’altro il 24 gennaio Bonet discute con Brancher anche delle «molte informazioni» che potrebbe dare sull’investimento di Belsito in Tanzania, accennando a «un "intreccio" da svelare».
Bonet: «Io ho verificato il perché e che cosa (Belsito, ndr) andava a fare con queste operazioni, io tra l’altro mi sono reso conto che non poteva chiedermi nulla di più di quello che già gli avevo dato come disponibilità... Per cui lui è tranquillo, in realtà se è necessario io ho molte informazioni che si possono dare».
Brancher: «Uhm sì sì, ho capito».
Bonet: «Ma per un semplice motivo, perché cioè non vorrei farmi la fama di quello che racconta le cose, ma mi son sentito veramente usato male».
Brancher: «Cioè non hai fatto niente e non può essere attribuirti delle responsabilità».
Bonet: «Chiaro chiaro, ecco c’è una cosa che se possibile poter vederti al più presto. Sembra che, in maniera così di chiarimento, l’altra parte, cioè non quelli del "cerchio magico", mi vogliono vedere per il fine settimana, vogliono sapere qualcosa da me».
Brancher: «E allora è meglio che ci parliamo sì, dai».
Ma il bello è che Brancher è cercato anche da Belsito nei giorni (come l’8 febbraio) delle polemiche sui soldi leghisti in Tanzania.
Brancher: «Pronto?»
Belsito: «Eccomi Aldo».
Brancher: «Ciao, come stai Francesco?».
Belsito: «Eh... tutto bene, eh, vedi... andiamo avanti... sotto assedio, ma andiamo avanti. Volevo dirti: ce la facciamo a prendere un caffè adesso in Galleria Sordi?» (vicino al Parlamento).
Brancher: «Sì, dai. Dove sei, giù? Fra cinque minuti».
Luigi Ferrarella
lferrarella@corriere.it
Giuseppe Guastella
gguastella@corriere.it
RIPRODUZIONE RISERVATA MILANO — C’è anche la storia di uno strano «favore urgente» — un bonifico che il parlamentare pdl Aldo Brancher dovrebbe fare ma che chiede invece all’imprenditore Stefano Bonet di operare al suo posto — nelle intercettazioni realizzate per la Procura di Napoli dai carabinieri del Noe concentratisi sulla figura di Bonet: cioè dell’imprenditore da 50 milioni di fatturato, coinvolto dal tesoriere leghista Francesco Belsito nel controverso investimento milionario in Tanzania, e che ora è indagato sia per concorso con Belsito nell’ipotizzata appropriazione indebita di rimborsi elettorali leghisti, sia per truffa allo Stato in relazione ai crediti d’imposta incassati da grandi gruppi industriali come la Siram.
In alcune telefonate di Bonet, scrivono i carabinieri, «si coglie un legame di interesse da parte di Brancher», ex dirigente Fininvest, storico «pontiere» tra Forza Italia e Lega, arrestato-processato-prescritto in Mani pulite, sottosegretario nel governo Berlusconi, per due sole settimane anche ministro, l’anno scorso condannato in Cassazione a due anni (coperti da indulto) per appropriazione indebita e ricettazione, nel 2003-2005, di denaro della Banca Popolare di Lodi di Giampiero Fiorani, che con ciò puntava a costituire una lobby parlamentare favorevole al mandato a vita dell’allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio.
Nelle intercettazioni, dunque, non compare solo il già noto riferimento «ai 150.000 euro che Belsito dice (alla responsabile contabile leghista Nadia Dagrada) che Bonet ha dato a Brancher per la festa del Garda»: circostanza che sembra inquadrarsi nel contesto già descritto nell’agosto 2011 da l’Espresso, che aveva indicato Bonet come consulente privato di Brancher quando costui dal gennaio 2011 era andato a gestire l’«Organismo di indirizzo» costituito da un decreto Berlusconi-Tremonti per ripartire 160 milioni di euro tra i Comuni veneti e lombardi confinanti con le province di Trento e Bolzano.
C’è anche il fatto che — come i carabinieri interpretano la telefonata del 24 gennaio — «Brancher prega Bonet di fare con urgenza un bonifico a tale Enzo, affermando che ciò gli è stato sollecitato dall’amministrazione e chiedendogli il favore di fargli il pagamento».
Brancher: «Mi ha chiamato di nuovo l’amministratore lì, come si chiama...».
Bonet: «Eh sì, immagino, immagino , diciamo che adesso è solo un problema di cassa a mettere in pagamento appena possibile, credo che già domani mattina arriveranno, insomma dai...».
Brancher: «Eh fammi un favore, dai, così almeno...».
Bonet: «Sì, sì».
Brancher: «...si mette l’anima in pace».
Bonet: «Sì sì, ma non mi mancano i soldi di sicuro per quelle necessità lì, non è quello il problema, so che, dai, tra i tanti casini...».
Brancher: «E vabbe’, se tu gliel’hai detto... Adesso lo chiamo e gli dico di stare tranquillo, domani o dopodomani si realizza questa cosa insomma».
Le informazioni sulla Tanzania
Tra l’altro il 24 gennaio Bonet discute con Brancher anche delle «molte informazioni» che potrebbe dare sull’investimento di Belsito in Tanzania, accennando a «un "intreccio" da svelare».
Bonet: «Io ho verificato il perché e che cosa (Belsito, ndr) andava a fare con queste operazioni, io tra l’altro mi sono reso conto che non poteva chiedermi nulla di più di quello che già gli avevo dato come disponibilità... Per cui lui è tranquillo, in realtà se è necessario io ho molte informazioni che si possono dare».
Brancher: «Uhm sì sì, ho capito».
Bonet: «Ma per un semplice motivo, perché cioè non vorrei farmi la fama di quello che racconta le cose, ma mi son sentito veramente usato male».
Brancher: «Cioè non hai fatto niente e non può essere attribuirti delle responsabilità».
Bonet: «Chiaro chiaro, ecco c’è una cosa che se possibile poter vederti al più presto. Sembra che, in maniera così di chiarimento, l’altra parte, cioè non quelli del "cerchio magico", mi vogliono vedere per il fine settimana, vogliono sapere qualcosa da me».
Brancher: «E allora è meglio che ci parliamo sì, dai».
Ma il bello è che Brancher è cercato anche da Belsito nei giorni (come l’8 febbraio) delle polemiche sui soldi leghisti in Tanzania.
Brancher: «Pronto?»
Belsito: «Eccomi Aldo».
Brancher: «Ciao, come stai Francesco?».
Belsito: «Eh... tutto bene, eh, vedi... andiamo avanti... sotto assedio, ma andiamo avanti. Volevo dirti: ce la facciamo a prendere un caffè adesso in Galleria Sordi?» (vicino al Parlamento).
Brancher: «Sì, dai. Dove sei, giù? Fra cinque minuti».

***

CHE FANNO BOSSI E MARONI
C. DEL.
MILANO — «Pulizia, pulizia, pulizia!» come «Resistere, resistere, resistere»: Roberto Maroni fa suo il proclama di Vittorio Emanuele Orlando l’indomani del disastro di Caporetto (e ai giorni nostri di Borrelli) e traccia la linea del Piave per la salvezza della Lega. Solo una profonda e rapida epurazione potrà rimettere in carreggiata il Carroccio reduce dalla più dolorosa batosta della sua storia. E i parallelismi tra l’Italia del 1917 e la Padania del 2012 non finiscono qui: allora il segnale della svolta fu la cacciata del generale Cadorna, adesso è l’espulsione di qualche nome altisonante. Magari lo stesso Renzo Bossi, come ormai chiede apertis verbis — ad esempio — la segreteria di Brescia.
Ieri hanno parlato molti dei maggiorenti di via Bellerio ma l’impressione è che ancora una volta la base giocherà un ruolo determinante: dopo l’iniziativa delle circa 100 sezioni che hanno chiesto una commissione d’inchiesta interna sulla gestione finanziaria del partito, un ruolo «rifondativo» sta assumendo l’appuntamento di martedì sera a Bergamo, dove sono attesi non meno di 2 mila militanti per la serata dell’orgoglio padano. I giovani del movimento hanno lanciato a tal proposito un’idea simbolica: si presenteranno a Bergamo impugnando una scopa, simbolo del repulisti che ormai la base invoca a gran voce.
Roberto Maroni non ha esitato un istante a intercettare quel sentimento e ieri è tornato a farsi sentire come è ormai sua consuetudine dalla pagina personale di Facebook: «Pulizia, pulizia, pulizia — ecco il testo del post — senza guardare in faccia a nessuno: rivoglio la Lega che conosco, quella dei militanti onesti che si fanno un culo così sul territorio senza chiedere nulla in cambio se non la soddisfazione di sentirsi leghisti».
Sul web le parole dell’ex ministro scatenano il tripudio, a riprova del fatto che Bobo in questo momento non ha rivali in quanto a stima da parte della base. Ma tanta esuberanza ha trovato quasi subito un argine nelle parole di Umberto Bossi, che anche ieri, a dispetto delle dimissioni annunciate è tornato a dettare la linea e ha trascorso l’intera giornata nell’ufficio di via Bellerio: «L’unica cosa che posso fare adesso è cercare di tenere unito tutto, tenere unita la Lega, evitare scontri tra i dirigenti. Li aiuto un po’... faccio quello che posso». Insomma il primo obiettivo di Bossi è scongiurare che la sua creatura vada in pezzi in seguito a una lotta intestina. Ieri anche i militanti che l’hanno atteso all’esterno del fortino leghista hanno invocato pulizia e lui ha risposto: «Siamo già al lavoro, c’è chi la sta facendo...». Ma è evidente che Bossi non consentirà spargimenti di sangue; continua a proclamare l’intenzione di ritagliarsi un ruolo più marginale («Devo fare un passo indietro, hanno tirato dentro i miei figli...») ma l’ultima parola spetterà sempre a lui.
Sul piano politico, il domani di alcuni personaggi additati come responsabili del Bossi gate è segnato. La stessa Rosi Mauro sta in cima alla «black list» dei militanti. Ma il malcontento ha spinto dirigenti ed esponenti locali del Carroccio a esporsi come mai era accaduto in passato. È quanto accade in due «casseforti» del consenso leghista come Brescia e Bergamo. Nel primo caso il segretario provinciale Fabio Rolfi ha annunciato che chiederà l’espulsione dal movimento niente meno che di Renzo Bossi e di Monica Rizzi, la sua «tutor» in terra bresciana. A Bergamo Daniele Belotti, che è anche assessore regionale, ha dichiarato in un’intervista che «i guai sono cominciati con l’elezione del Trota», ma ne ha anche per Manuela Marrone, la moglie di Bossi: «Prima della malattia del capo è stata una grande donna alle spalle di un grande uomo; poi ha fatto squadra con Rosi Mauro ed è stata la fine».
Insomma, molte reticenze sono saltate, l’unico intoccabile resta il Gran Capo, ma per il resto ogni fazione interna pretenderà la sua riparazione. L’unico in grado di garantire la sintesi sarà ancora Umberto Bossi. Per il quale l’ora del pensionamento, a dispetto degli annunci, appare lontana.
C. Del.

***

CHI È IL PM DI REGGIO CALABRIA GIUSEPPE LOMBARDO
CARLO MACRI’
REGGIO CALABRIA — Che avesse il fiuto da «setter» finanziario lo si era già intuito
dai tempi del suo uditorato giudiziario a Roma. Giuseppe Lombardo (foto), 41 anni appena compiuti, di Monasterace (Reggio Calabria), magistrato di punta della Dda reggina, è uno
dei pubblici ministeri che assieme ai colleghi milanesi e napoletani
ha scardinato il «sistema» Lega. Figlio d’arte — suo padre Rocco è stato procuratore a Locri ai tempi dei sequestri di persona —, sposato, due bambini, uno di due anni l’altro di 4 mesi, Lombardo ha iniziato a capire il meccanismo dell’illecito arricchimento e delle attività di riciclaggio sbirciando tra i faldoni dei suoi due «maestri» Giuseppe De Falco
e Andrea Padalino. Era il 1997. Dopo il periodo di uditorato, a 27 anni, è stato destinato alla Procura di Vibo Valentia. E qui
si trova a indagare sul sistema
di tangenti per la costruzione dell’ospedale locale.
Tra gli inquisiti, per illecito finanziamento, i vertici del tempo dell’Udc. Il pm reggino individua
i faccendieri che per conto
del partito hanno trattato
una tangente di 2 milioni di euro. Lombardo arriva anche
a identificare personaggi dell’Opus Dei interessati all’affaire ospedale. Ma è a Reggio Calabria alla Dda, che Giuseppe Lombardo, nel 2006, ha iniziato una serie di indagini che
per la prima volta si riveleranno determinanti per stabilire i legami tra la ’ndrangheta, il livello politico e la pubblica amministrazione. È Meta, però, l’inchiesta che impegna Giuseppe Lombardo in un’attività d’indagine delicatissima
sui patrimoni e le finanziarie della famiglia Condello, che insieme ai De Stefano «governano» Reggio Calabria. Sono quei risultati
di indagine che consentono
di avviare l’attività che porta alla Lega Nord. Lombardo racconta un aneddoto: «Ricordo l’incredulità della polizia giudiziaria nelle fasi iniziali dell’investigazione. Analizzando i primi risultati investigativi, era difficile credere al fatto che le casse della Lega fossero amministrate da soggetti potenzialmente collegati alla ’ndrangheta calabrese». Poi un’ammissione: «L’inchiesta
non è chiusa e credo che
se l’intuizione è giusta, l’attività svolta dalla Dia — in relazione ai capitali di provenienza mafiosa — riguarda flussi di denaro enormi, in grado di superare il miliardo
di euro».
Carlo Macrì

***

IL MISTERO DEL SINDACATO SIN.PA
ANDREA GALLI
MILANO — Ma quanti siete per l’esattezza? «Duecentocinquantamila». Tutti tesserati? Cioè, è dimostrabile, ci sono riscontri ufficiali, giusto? «Certo». E avete anche stranieri? «Sì». Quanti? «Mah, ora non le so dire la cifra esatta». Più o meno? «Di sicuro tra l’uno e il due per cento». Il momento è duro, le certezze vacillano, eppure al SinPa, il sindacato padano del quale Rosi Mauro dopo esser stata fra i fondatori è oggi segretario generale, mica navigano a vista. Eh no. Già han delineato percorso e programma dell’annuale «battellata», momento di festa il 29 aprile prossimo, sul Lago Maggiore. Un evento che genera una certa fibrillazione. «Manca poco ormai» dicono dalla sede, persa nello sperduto quartiere Cantalupa, che per vicino di casa ha il traffico e le code dell’autostrada Milano-Genova.
Ora, Emiliano Tremolada, che del SinPa è il numero due, manifesta sincera curiosità nell’esser bersagliato di domande sul sindacato medesimo. E però, ci scusi, Tremolada: siete davvero così rappresentativi? Qua s’infuria. «Lo sa», dice lui, «che abbiamo avuto delegati sindacali licenziati, perseguitati perché della Lega?».
Una delle aziende dove il SinPa debuttò da subito, dalla nascita negli anni Novanta, è l’Amsa di Milano, l’azienda dei rifiuti. Ecco, lì gli altri sindacalisti, Cgil o Cisl è uguale, scoppiano a ridere. E ricordano due cose. La prima è che in tutto questo tempo il SinPa, in Amsa, non ha mai convocato un’assemblea, tanto per fare un esempio; la seconda è che dei suoi sindacalisti Rosi Mauro si è piuttosto servita per sfuriate «politiche» contro quel direttore generale o quell’altro amministratore delegato. Naturalmente saranno voci nate per invidia, ma tornando da Tremolada, e riprovando a frugare, in risposta v’è stupore misto a fastidio. Del resto, se uno stesse attento, e magari s’informasse, si ricorderebbe che nell’agosto d’un anno fa, al Tavolo contro la crisi a Palazzo Chigi, insieme alle parti sociali partecipò anche una rappresentante del sindacato padano. O ancora, senza andar lontano, giusto due mesetti fa quelli del SinPa manifestarono sotto la Regione Lombardia sul delicato tema del trasporto pubblico. Erano in undici contati, però non importa.
Famoso per la sua aria (e aurea) di mistero, orgoglioso di spaziare dall’assistenza fiscale a quella previdenziale, il sindacato da dove prende il denaro? Quanti soldi entrano ed escono? Nei puntuali bollettini mensili dal pragmatico titolo «SinPa informa» tengono banco altri argomenti. E crescente è l’analisi dell’operato del premier Mario Monti, sul quale il giornalino ha titolato la prima pagina di novembre: «Fine della democrazia».
Se nel 1997 Bossi scommetteva sul sindacato, destinato a far tramontare la «triplice», Cgil-Cisl-Uil, in questi mesi le presenze del SinPa a Roma sono per lo più diventate semplici audizioni parlamentari su richiesta della Lega. Il passato glorioso era peraltro già stato archiviato, e in fretta. Nel 2006 il sindacato padano era perfino riuscito a entrare nel Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, salvo venir allontanato poco dopo per decisione di un giudice con la seguente motivazione: «Non è rappresentativo a livello nazionale».
Andrea Galli

***

ROSI MAURO NON VUOLE DIMETTERSI
ELSA MUSCHELLA
MILANO — Deve restare dov’è o è giusto che lasci? Il bivio, nella testa di Rosi Mauro, non compare su nessuna cartina: «Perché dovrei dimettermi? Per quale motivo? Io ho la coscienza a posto, non ho nulla a che fare con queste vicende. Quelle che girano su di me sono solo porcherie». Per i partiti però, lo svincolo da imboccare sembrerebbe obbligatorio: Palazzo Madama non merita l’onta di intercettazioni imbarazzanti né l’accostamento a un’inchiesta che aggredisce quotidianamente la credibilità delle istituzioni.
Se la creatrice del sindacato padano SinPa — l’ombra di Umberto Bossi dal 2004 — avesse soltanto un ruolo circoscritto all’interno della Lega, il destino dei suoi incarichi non scomoderebbe commenti né preoccupazioni. Però Rosa Angela Mauro, per tutti la Rosi, dal 6 maggio del 2008 è il vicepresidente del Senato e l’appello a «un gesto atteso» — le dimissioni di chi «briga col potere tra soldi e interessi privati», di chi «si fa pagare dal partito diplomi e lauree in Svizzera e agevola l’assunzione di un amico personale a Palazzo Madama» e poi «resta lì senza fare una piega, senza avvertire qualsivoglia imbarazzo o disagio» — come ha scritto ieri sul Corriere Giangiacomo Schiavi, adesso è stato accolto anche in Parlamento.
Il Terzo polo è il più determinato nel muovere la richiesta di un passo indietro necessario: «È inaccettabile che una carica così prestigiosa sia infangata anche solo dal sospetto di comportamenti incompatibili con il decoro e la dignità politica — dice il senatore Giuseppe Valditara —. Il vicepresidente del Senato Rosi Mauro deve rassegnare al più presto le sue dimissioni. E se volesse restare al suo posto il Terzo polo dovrebbe boicottare i lavori d’Aula presieduti da lei».
Anche per l’Italia dei valori la Lega non ha altra scelta: «Le dimissioni di Rosi Mauro sono quantomeno auspicabili per salvare le istituzioni — sostiene il presidente dei senatori Felice Belisario —. Le cariche istituzionali, specialmente le più alte dello Stato, devono apparire oltre che essere al di sopra di ogni sospetto. Difendersi accampando una persecuzione da parte di tre procure mi sembra davvero incredibile. La magistratura farà il suo corso ma noi dobbiamo sperare che la senatrice Mauro si dimetta».
Luigi Zanda, del Pd, prova a mettersi nei panni dell’avversaria: «Se fossi al posto di Rosi Mauro non resterei un minuto di più seduto sulla quella poltrona. Lasciare quel ruolo consentirebbe a lei di difendersi meglio e bene. Ma sarebbe anche un segnale per dimostrare che chi presiede un’aula parlamentare deve avere l’autorevolezza necessaria per farlo. Al di là della vicenda che ha coinvolto i vertici del Carroccio, esiste una questione più generale che riguarda l’omissione nell’attuare la Costituzione e in particolare l’articolo 49 che sancisce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti per concorrere democraticamente a determinare la politica nazionale: e in questo c’è una responsabilità generale dell’intera politica e del Parlamento».
L’affaire Mauro genera opinioni diverse, invece, all’interno del Popolo della libertà. Per Maurizio Gasparri «non bisogna arrivare a conclusioni affrettate», Gaetano Quagliariello è convinto che «le dimissioni non si chiedono» perché «sono scelte di opportunità personali che uno fa tenendo conto della propria coscienza e della propria personalità», Domenico Gramazio ricorda che «il presidente della Camera Gianfranco Fini non si dimise quando scoppiò lo scandalo della casa di Montecarlo».
Il controcanto al garantismo azzurro è dell’onorevole magistrato Alfredo Mantovano: «Se Rosi Mauro deve dimettersi o meno non è un problema di carattere giudiziario: il problema è tutto politico e prescinde dalla presunzione di innocenza. Mi sembra che gli elementi dell’inchiesta finiti sui giornali non siano stati smentiti in modo specifico: al di là del rifiuto della signora a lasciare l’incarico, sono assolutamente imbarazzanti per chi ricopre un incarico pubblico così prestigioso».
Elsa Muschella

***

CHI È L’AMANTE DI ROSI MAURO
MILANO — «Sogno un amore che come un bodyguard sta sempre insieme a me...»: sotto il gessato vistoso, sotto la chioma fluente e la barba non rasata che danno un aspetto sauvage, batte un cuore tenero. Sì, perché Pier Mosca, che ha messo in musica quella lirica d’amore, il suo sogno l’ha realizzato. Era il bodyguard di Rosi Mauro, ne è divenuto il compagno. E lei, come un Pigmalione al femminile, lo ha ripagato strappandolo al suo umile destino: da semplice poliziotto che era lo ha fatto assumere dal Senato in qualità di consulente, gli ha pagato l’università all’estero con i soldi del Carroccio ma soprattutto ne ha assecondato gli estri musicali mettendo in vendita il cd di Pier Mosca alle feste della Lega e garantendo al cantante ospitate a Radio Padania.
Che peccato che adesso quella parabola rosa sia finita banalizzata e triturata dai verbali dell’inchiesta sulla Lega Nord, accostata a storie di fondi pubblici usati per fini privati e per privilegi da «casta». Ieri una delle hit di Pier Mosca intitolata «Kooly Noody» (parole senza significato in inglese, ma basta afferrarne il suono in italiano) è stata molto cliccata su YouTube, ma la favola del bodyguard cantante è la perfetta sintesi della situazione in cui si è cacciata la Lega. Innanzitutto una precisazione anagrafica. Pier Mosca si chiama in realtà Pierangelo Moscogiuri, è nato 37 anni fa a Varese e per anni è stato un agente in servizio alla questura della sua città.
Ignari del talento che avevano in casa, i perfidi colleghi di Moscogiuri gli avevano affibbiato il nomignolo di «Bellicapelli», per l’abitudine del giovanotto di sfoggiare una chioma leonina. E «Bellicapelli» era rimasto tale anche dopo essere stato assegnato alla scorta del segretario lumbard Umberto Bossi.
Si sa com’è il capo leghista: un tiratardi, uno senza orari, uno con cui finisci per condividere giornate e nottate. E dove c’è Bossi, immancabile c’è anche Rosi Mauro, la «badante» o «la pasionaria» che non si stacca mai un attimo dal leader al punto di aver preso un appartamento a Gemonio a pochi metri dalla «real casa» bossiana. E insomma, son cose che accadono e non si possono mai spiegare bene, sta di fatto che la Rosi e il poliziotto cominciano a prendersi in simpatia, cominciano a frequentarsi e piacersi. Alla fine tutti sapevano tutto ma nessuno parlava. Ma nel 2009 Pierangelo si è messo in aspettativa dalla polizia di Stato ed è stato assunto poco dopo da Palazzo Madama; anzi «dalla vicepresidenza del Senato», come ha messo a verbale l’impiegata di via Bellerio Nadia Dagrada interrogata dai pm.
In che cosa consistesse questa consulenza nessuno ha voluto chiederlo, resta che la situazione era praticamente immutata: dove c’era Bossi c’era Rosi Mauro e dove c’era la Rosi ecco apparire anche l’ex agente. Il quale però comincia a lasciar trasparire la sua passione per le sette note: intrattiene Bossi e Tremonti nelle serate a Ponte di Legno cantando «Oh mia bela Madunina», riesce anche a incidere un brano — l’ormai mitico «Kooly Noody» — in tandem con Enzo Iacchetti e a presentarlo alla Notte Bianca di Varese.
Il gran debutto davanti alla platea leghista arriva però in occasione della gita in battello sul lago di Como che il SinPa (il sindacato padano guidato da Rosi Mauro) organizza ogni anno per il primo maggio: lì l’ex agente, presentandosi come Pier Mosca, intrattiene i gitanti con le sue canzoni contenute nel cd che è riuscito a incidere dall’enigmatico titolo, «Tra dire e tradire». Un successone, giura chi c’era, tanto che due giorni dopo Pier Mosca è ospite della trasmissione di Radio Padania «Con l’aria che tira». Lì, con voce velata di modestia, il cantante confessa di avere come modelli Elvis Presley e Johnny Cash ma di non disdegnare il genere melodico come testimonia il brano che dà il titolo al cd e che contiene l’immagine del bodyguard appassionato: in pratica una dichiarazione d’amore. Con gli amici si definisce un crooner, vale a dire quel genere di cantante e intrattenitore i cui connotati sono stati fissati per sempre nella storia della musica da Frank Sinatra.
Anche il conduttore dell’emittente leghista si lascia prendere dall’entusiasmo in occasione dell’ospitata (la registrazione è reperibile sempre su YouTube) e proclama: «Ma se non li aiutiamo noi questi giovani talenti, chi potrà dare loro una mano?». Detto e fatto: «Tra dire e tradire» comincia a circolare sulle bancarelle dei gadget alle feste del Carroccio e c’è chi giura che qualche scatolone pieno di copie intonse del cd sia ancora oggi depositato in qualche ripostiglio di via Bellerio.
Claudio Del Frate

***

IL VENETO VUOL CONTARE
MARCO CREMONESI
MILANO — La variabile Veneto. Nel giorno del dolore, quello delle dimissioni di Bossi, la deputata vicentina Paola Goisis lo aveva sibilato rabbiosa: «I veneti non accetteranno un altro segretario federale lombardo». E, giusto sul Corriere del Veneto di oggi, il segretario Gian Paolo Gobbo osserva che «l’uomo giusto per il dopo Bossi è Luca Zaia». Anche se l’interessato continua a ripetere di non essere in partita e di preferire l’attuale mestiere di governatore.
Al momento, anche nelle terre della Serenissima, soltanto i meno realisti ritengono che ci possa essere un futuro segretario più ampiamente rappresentativo di Roberto Maroni. Al di là delle divisioni interne al movimento, anche i non fan ritengono che l’ex ministro rappresenti, come dice un dirigente importante, «la sintesi migliore tra la storia della Lega e il suo possibile futuro. Senza i fatti emersi negli ultimi giorni, la questione sarebbe stata apertissima. Ma in queste condizioni, c’è poco da fare gli schizzinosi: una figura come quella di Maroni diventa davvero un salvagente».
E pazienza per le pulsioni venetiste. Lo dice un sostenitore di prestigio come il sindaco di Verona Flavio Tosi: «Il segretario federale non è territoriale. Il requisito è che sia bravo. Se venisse fuori un fenomeno dall’Emilia Romagna, andrebbe benissimo». Eppure, è certamente vero che in Veneto sono in parecchi a manifestare insofferenza nei confronti dell’«egemonia varesin-bergamasca» sul movimento. E un sondaggio effettuato tra i lettori del Corriere del Veneto, sia pure via web e dunque senza valore scientifico, ieri sera vedeva i favorevoli al ritorno della Liga veneta all’82,2%.
Il dato dei congressi provinciali fin qui svolti (tutti, tranne Padova) dovrebbe far dormire Maroni tra due guanciali in vista del congresso federale fissato per ottobre: i candidati riconducibili all’ex ministro dell’Interno o all’area di Flavio Tosi hanno spopolato ovunque, anche se in Veneto — a differenza della Lombardia — i congressi non eleggono delegati e dunque i rapporti di forza sono meno nitidamente definiti. Ma ci sono segnali comunque importanti. Primo fra tutti, il rovesciamento che si è verificato nel trevisano. Da sempre bastione inespugnabile dell’area bossiana, presidiato dal sindaco-segretario «nazionale» (regionale) Gian Paolo Gobbo, oggi la Marca ha cambiato segno in modo significativo. Simpatizzano infatti per Maroni il presidente della Provincia Leonardo Muraro e il neoeletto segretario provinciale Giorgio Granello. Resta però da capire, qui come nel resto del Veneto, come sarebbe presa un’eventuale ricandidatura in ottobre del fondatore del Carroccio, ipotesi che ieri in via Bellerio veniva giudicata in ascesa.
In Veneto, però, l’idea non convince. Il prosindaco di Treviso, il tuttora popolarissimo Giancarlo Gentilini ritiene che Bossi abbia «fatto bene ad andarsene, ogni politico deve sapere quando è il momento giusto in cui abbandonare». Affondando il coltello: «Purtroppo con la malattia fisica non era più in grado di controllare tutto e tutti. E quando non c’è il gatto, i topi ballano». Più in generale, l’uomo nuovo Giorgio Granello — famoso per le sue dichiarazioni di apprezzamento del Tricolore — osserva che con l’identità in Veneto non si scherza affatto: «Noi ci crediamo davvero, sicuramente nelle futura segreteria vorremo contare». Tuttavia, anche per Granello «non è indispensabile che il nuovo segretario sia veneto. Ma certo con le nostre terre dovrà avere un rapporto vero».
Non sono pochi a ritenere che, in ogni caso, il futuro segretario non potrà guidare il movimento con l’imperio monocratico di Umberto Bossi: l’idea è quella di un segretario che sia primus inter pares. Lo dice, per esempio, Leonardo Muraro: «La Lega è composta da nazioni. E io credo che nella Lega di domani questo aspetto debba essere valorizzato, sia pure con il coordinamento di una segreteria unica». Le recenti vicende suggeriscono a Muraro anche una «maggiore autonomia amministrativa. Per i soldi, proprio loro. Nel senso che devono essere divisi tra le nazioni sulla base dei rispettivi voti». Quanto a Bossi, «ha dato la vita per il movimento, ma ora credo debba avere un ruolo super partes più che la guida diretta». Ancora più franco: «Una sua ricandidatura non sarebbe capita».
Considerazioni simili anche da Flavio Tosi: «Le dimissioni di Bossi dimostrano quanto siamo diversi dagli altri partiti. E dunque, troverei improbabile che lui si candidi, dal momento che, come presidente, resta il padre del partito». Ma il sindaco di Verona è più padano che veneto: «Per quanto riguarda le scelte strategiche e le candidature, il Veneto ha sempre avuto una buona autonomia, sbaglia chi sostiene che decide tutto Milano».
Marco Cremonesi

***

CHE DICONO A ADRO
MARCO IMARISIO
DAL NOSTRO INVIATO
ADRO (Brescia) — Come a Castel Mella. «Hai presente? La stessa cosa. Una prova generale di quello che viviamo oggi. Gli italioti sanno fare solo fotocopie». Oscar Danilo Lancini è tornato, anzi è rimasto. Con le sue granitiche certezze, insensibili alle scosse del tempo e degli eventi di questi giorni grami, persino a quelli che lo riguardano da vicino. Anche nella sua Adro svuotata dalla festività incombente si percepiscono i segni dell’inquietudine, di qualcosa che cambia.
«Noi e Lancini? Diversi e divisi». Nella notte qualcuno ha imbrattato la bacheca del circolo leghista cittadino con scritte neppure troppo insultanti nei suoi confronti. Un inedito assoluto, cancellato al mattino presto da alcuni volontari non proprio entusiasti della levataccia per una questione di lesa maestà. «C’è una logica italiota anche in questo. I comunisti leggono i giornali, pensano che siamo deboli, e allora attaccano». Nel settembre di due anni fa gli italiani conobbero questo paese lindo e benestante, 7.000 abitanti all’ingresso della Franciacorta, grazie alle gesta di Lancini, sindaco al secondo mandato, rieletto nel 2008 con il 65 per cento dei voti, venti punti percentuali in più della prima volta. Cominciò con una delibera che toglieva il baby bonus agli immigrati, proseguì negando il cibo della mensa scolastica ai bambini di famiglie insolventi. Raggiunse il tripudio con l’inaugurazione del nuovo polo didattico, l’elementare «Gianfranco Miglio» istoriata per 700 volte con il Sole delle Alpi, settecento simboli del suo partito messi ovunque. Dal tetto, otto metri di diametro, alle manine stilizzate dei bimbi disegnati sui vetri, passando per le porte della toilette e i sanitari. Anche Bossi dovette ammettere che forse si era in presenza di un leggerissimo eccesso di zelo.
Ci vollero quattro sentenze di condanna e altrettante parcelle a spese dei suoi contribuenti per togliere quei simboli privati da un istituto pubblico. «Io non mi rassegno neppure oggi, quella storia non è finita. Siamo stati condannati da un giudice del lavoro, che non aveva neppure diritto a decidere sul valore di quel simbolo, che è una questione storico-politica. Ci penso sempre. Passa questa bufera e mi invento qualcosa». Il sindaco che ha reso celebre Adro nel mondo era pronto ad affrontare l’intemperie che sta scuotendo il partito. La vista sulle magnifiche vigne che adornano le colline non è l’unico vantaggio offerto dalla sua cittadina, meno abitanti del più piccolo quartiere di Milano, ma un simbolo nel mercato della comunicazione. Nell’elenco c’è anche la vicinanza con la fatale Castel Mella. «È il posto dove nell’aprile scorso, poco prima delle amministrative, i magistrati indagarono arrestarono un assessore dei nostri. Poi, dopo le elezioni, che abbiamo perso, lo hanno rimesso fuori, innocente. Capito il senso di Castel Mella? Da allora mi preparo al peggio, che puntualmente è arrivato. Vogliono dimostrare che la Lega è ladrona come Roma, ma non ci riusciranno. Noi abbiamo la fede».
Sulla bacheca ripulita della sede di via Umberto I è stato appeso un rosario, proprio all’altezza della scritta che cita il giuramento solenne del leghista per il raggiungimento dell’indipendenza della Padania. «Momento difficile e complesso» ammette Stefano Raccagni, giovane e neoeletto segretario della Lega Nord Franciacorta, metà di quel Carroccio bresciano che negli ultimi anni ha fatto parlare di sé in quanto bacino elettorale di Renzo Bossi e per una notevole mole di ordinanze e provvedimenti contro gli extracomunitari. «Acqua passata: dobbiamo stare insieme, noi leghisti intendo». Lancini invece non conosce il dubbio, rappresenta una ortodossia forse rozza ma utile per affrontare questa fase senza troppi timori per il futuro. In tempi incerti, il suo fanatismo funziona da bussola. «Queste inchieste, lo dimostra Castel Mella, fanno parte di un vecchio modo di fare politica. Siamo in campagna elettorale per le amministrative, e "loro" usano le vie giudiziarie». Accanto a lui due giovani militanti annuiscono convinti. Sono i ragazzi che hanno cancellato le scritte profane, uno di loro indossa una felpa verde e padana. «Chi dice che siamo come gli altri? I giornalisti. Ma voi non siete degli evangelisti, non avete la verità in tasca. L’odio dell’Italia nei nostri confronti è una conferma: ce ne dobbiamo andare. Meglio da soli».
Noi, dicono contro un «loro» indistinto. C’è una Lega di pancia, alla quale sta parlando Bossi in questi giorni, che non rivendica le capacità amministrative acquisite sul territorio come una via d’uscita da questa paralisi, ma vuole aggrapparsi alla propria mitologia, Roma ladrona il complotto, l’isolamento come scelta di vita. O meglio, di sopravvivenza. «Chi sbaglia deve pagare» dice Lancini. «Ma i veri leghisti non abboccano alle bugie dei giornali romani e italiani. E si arrabbiano per il tentativo di sporcare l’immagine della Lega». Le parole di Lancini, ormai esperto tribuno mediatico, sono meno viscerali di quanto possa sembrare. Quando i due ragazzi si allontanano, assume una espressione soddisfatta. «Adesso si torna ai fondamentali». Il grande collasso della Lega «romana» è vissuto come la conferma delle proprie ragioni. «Non ci si mischia con quelli, perché è inevitabile sporcarsi. Io non vado in giro, e così rimango un leghista che lavora onestamente».
Al netto di delibere in odor di razzismo, il sindaco potrebbe anche tirare fuori la buona amministrazione, esibendo un attivo di bilancio destinato a pagare il mutuo per la scuola della discordia. Lancini non sa che farsene di questo argomento. Preferisce la strada dell’identità, netta e marcata. Guarda a distanza ravvicinata, delimita gli interessi al proprio distretto. Lui e quelli come lui non hanno mai sopportato la Lega diffusa e di governo. Piccolo è più bello, sempre e comunque. «Dobbiamo prendere questa tempesta in un bicchiere d’acqua per ricordarci chi siamo. Noi stiamo bene, siamo buoni e anche ricchi», dice ridendo. Gli altri, quelli fuori, no. L’ultima tappa della visita guidata è al campo accanto alla palestra comunale, dove sta per essere inaugurato un parcheggio e sopratutto il nuovo campo da calcio a 7 in erba naturale. «I nostri cittadini hanno fatto volontariato al cantiere, e guardi cosa abbiamo adesso. Un’altra opera tutta per noi, per la nostra Adro». Certo, manca il Sole delle Alpi disegnato nel cerchio di centrocampo... Lancini si volta con uno sguardo estasiato. «Ma sa che...». Sindaco, accidenti, era solo una battuta, guardi che non le darebbero l’omologazione. «Invece è un’idea bellissima».
Marco Imarisio