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 2012  aprile 05 Giovedì calendario

marijuanae nonna rose prese il fucile per difendere i suoi campi – San Francisco. "Tutto mi sarei aspettata dalla vita, ma non questo"

marijuanae nonna rose prese il fucile per difendere i suoi campi – San Francisco. "Tutto mi sarei aspettata dalla vita, ma non questo". Eppure Granma Rose, settantenne, pacifista radicale come può esserlo una ex figlia dei fiori, ora tiene in casa una doppietta. "È per la marijuana, naturalmente. Tutto il business si sta facendo troppo violento; alla fine, la dovranno legalizzare, è la cosa più logica e conveniente. Ma adesso è il momento delle grandi manovre per chi arriva primo sulla torta. E non vorrei essere la prima a essere rapinata del raccolto". Siamo in mezzo alle sequoie della California del nord, nella spopolata contea di Mendocino, l’occhio del ciclone del futuro dell’erba più contestata del Pianeta. Granma Rose, nonna Rosa, apprezzata pittrice di paesaggi, abita in una casetta di legno e sul suo terreno coltiva marijuana da una trentina d’anni. Un po’ se la fuma, in una pipetta, la sera, ma soprattutto la vende e, a seconda del mercato, ci guadagna da venti a trentamila dollari l’anno: un contributo al modesto reddito di un’artista, tranquillo e senza tasse. Ma ora, nella valle ci sono stati tre omicidi in due mesi. Inaudito. Due erano clandestini messicani, freddati a Ukiah, la capitale della contea, nel parcheggio del supermercato Walmart. È il luogo di reclutamento dei narcos messicani. Non solo, nella sua passeggiata quotidiana in mezzo agli alberi, Nonna Rosa è impaurita dalla presenza di due grossi cani, aggressivi e apparentemente senza padrone. E poi c’è un Suv che circola fin troppo, guidato da un messicano con la barba, che tiene ostentatamente un grosso rosario di madreperla appeso allo specchietto retrovisore. Non le piace. Il terzo ammazzato, poi, era un cantante rap locale, piuttosto famoso per il suo Marijuana trimmers blues, freddato in una rissa. I trimmers sono i lavoranti di un’industria agricola che non si è meccanizzata. Prendono le piantine, le potano fino a raggiungere il bocciolo (dove sta il principio attivo, il cannabinoide), controllano che non ci sia muffa. Le foglie invece passano attraverso un complesso trattamento di essiccazione e conservazione sotto ghiaccio, per diventare finalmente hashish. I trimmers sono messicani, naturalmente. E senza documenti. Nonna Rosa si è sempre servita di Jose e di sua moglie, ha visto crescere le loro figlie, che davano una mano già a sette anni e adesso hanno fatto la festa per la maggiore età. Il salario è di venti dollari l’ora, il lavoro è di quelli che sarebbe piaciuto all’Ermanno Olmi dell’Albero degli zoccoli. Tutti seduti intorno al tavolone, a sminuzzare i boccioli, ad ascoltare la radio o a raccontarsi storie, guardando crescere nei secchi il prodotto finito. È tutta gente pratica. Una pianta di marijuana in media produce mezzo chilo di boccioli vendibili a 1500 dollari. I conti sono presto fatti: cento piante, che si possono discretamente occultare in mezzo agli alberi da frutta, dietro il fienile o far crescere nel fienile stesso a colpi di luce artificiale, rendono 150 mila dollari l’anno. I piccoli produttori come Nonna Rosa conferiscono il prodotto a una specie di cantina sociale che tratta con i broker. Questi arrivano con i camion da Los Angeles, assaggiano, e pagano in blocchi da ventimila dollari in confezioni sottovuoto e sigillate con il timbro della banca. Se le domandi "e quanti sono i coltivatori, qui a Mendocino?", nonna Rosa sorride: "Una volta eravamo solo noi vecchi hippies, adesso direi che lo fanno proprio tutti. Hanno aperto due empori che ti vendono tutti gli attrezzi occorrenti; in 1500 si sono iscritti al sindacato degli agricoltori, e purtroppo molti usano pesticidi e inquinano. Altri poi coltivano con le lampade a raggi ultravioletti, e ogni tanto va a fuoco tutta la casa. Poi sono arrivati i cartelli messicani della droga, sono arrivate le grandi compagnie del tabacco a comprare terra. E buoni ultimi sono arrivati i Federali e la loro impresa è finita su tutti i giornali". Sembrava la guerra, in effetti. Con elicotteri, addirittura droni, mezzi blindati, migliaia di agenti e tutta l’attrezzatura resa celebre dalla guerra in Iraq, l’Fbi è calata dal cielo e ha annunciato in televisione di aver sradicato con i lanciafiamme grandi piantagioni clandestine per un totale di mezzo milione di piante. Tom Allman, l’anziano sceriffo della contea con 28 anni di esperienza, non si è lasciato impressionare. Secondo la sua stima, sul suo territorio ci sono almeno cinque milioni di piantine, sparse in distese boschive sterminate. Ma non sono quelle il pericolo. Il pericolo viene dai laboratori delle metamfetamine, "dai messicani, dai russi, dai bulgari" che sono arrivati qui con i kalashnikov. Uno dice la California e intende l’ottava economia del Pianeta, un miracolo compiuto con appena 37 milioni di abitanti. Ed elenca le fonti della ricchezza: la Silicon Valley con la sua tecnologia, la più grande produzione mondiale di frutta e verdura, il vino della Napa Valley, l’industria dello spettacolo, del turismo e della televisione. Ma dimentica quella nonna con il fucile nei boschi millenari, la famiglia dei messicani clandestini, le migliaia di piccoli coltivatori e i grandi latifondisti che partecipano all’economia della marijuana, che si colloca sicuramente al primo posto tra le produzioni agricole dello Stato e sicuramente impiega più persone della Apple di Steve Jobs. Secondo stime prudenti, il volume d’affari della marijuana in California è di dieci miliardi di dollari l’anno; e se i produttori sono almeno diecimila, i consumatori fedeli sono almeno un milione. Se tutto ciò fosse tassato, lo Stato otterrebbe un enorme sollievo, dato che ora è in deficit di 19 miliardi di dollari. Altro dato (suggestivo, o allarmante a seconda della coscienza ecologica): l’irrigazione delle piantagioni a Mendocino consuma quindici milioni di litri di acqua al giorno. Che fare? Reprimere, bruciare, confiscare, incarcerare? Lasciare che i narcos messicani dilaghino oltre il confine? O legalizzare e fare pagare le tasse? Tutti i giochi sono aperti, tutti i colpi di scena sono possibili. E gli Stati Uniti hanno una storia oltremodo bizzarra a questo proposito. Pensate all’alcol, per esempio. Se c’era una sostanza che era connaturata con l’America, questa era l’alcol. I Padri Fondatori portarono casse di birra sul Mayflower, George Washington e Thomas Jefferson erano birrai, il whisky ha dominato la storia sociale della giovane nazione. Eppure l’alcol venne messo al bando da uno dei più straordinari movimenti sociali del XX secolo - il movimento, praticamente tutto femminile, per il proibizionismo. All’inizio del XX secolo, gli Stati Uniti furono attraversati da una formidabile mobilitazione di donne, per la salvezza del concetto di famiglia dai disastri dell’alcolismo. La protesta delle donne fu alla base della richiesta di voto (le donne volevano il voto per votare la proibizione dell’alcol, e l’ottennero). I birrai, in grande maggioranza di etnia tedesca, furono identificati con il nemico della Prima guerra mondiale; il saloon come il luogo di perdizione. Le chiese furono in prima fila, ma anche i sindacati operai. E così successe che negli Stati Uniti, Paese simbolo della libertà individuale, nel 1919 venne - incredibilmente - approvato un emendamento della Costituzione che dichiarò illegale "produrre, trasportare e consumare qualsiasi tipo di bevanda alcolica". Il popolo più libero del mondo, due cose solamente vietava: possedere schiavi e farsi un goccetto al bar. La proibizione durò tredici anni, con due tremendi risultati: la perdita da parte dell’erario degli introiti portati dall’industria degli alcolici, all’epoca la quinta per importanza; e l’enorme ricchezza esentasse accumulata dal mondo del crimine che approvvigionava gli americani assetati. Finalmente, nel 1933, per la gioia di tutti (ministero del Tesoro soprattutto), riaprirono i bar, e tutti - produttori e consumatori - ripresero a ubriacarsi e a pagare le tasse. La storia della marijuana è diversa da quella dell’alcol, ma il suo finale potrebbe essere simile. È provato che fosse coltivata in California prima che questa fosse scoperta dai bianchi. Le sue foglie erano usate per fabbricare cordame, ma era nota come un efficace antidolorifico. Fumarla però divenne illegale già negli anni Trenta, mentre divennero legali, come analgesici, prima l’eroina, che si vendeva in compresse in farmacia, e poi l’aspirina, ambedue prodotte dalla tedesca Bayer. Negli anni Cinquanta la marijuana divenne popolare nella cultura beat, come droga rilassante, socializzante e pacifica. (Don’t bogart that joint, my friend. Pass it over to me, era la canzone inno di Easy Rider). Negli anni Sessanta dilagò, con i figli dei fiori. Negli anni Ottanta era già diventata un delizioso simbolo dell’ipocrisia americana. Ogni uomo politico doveva scagliarsi contro l’erba, ma poi trovava qualche ex compagno di scuola che scopriva i suoi altarini. Bill Clinton risolse così la situazione: "Sì, l’ho fumata al college, ma non l’aspiravo". Tutti capirono e venne eletto presidente. La vera svolta avvenne nel 1996, quando la California votò in grande maggioranza un referendum - la Proposition 215, detta anche Compassionate Act - che ammetteva l’uso della marijuana a scopo terapeutico (venne chiamata medical marijuana), per una gamma non piccola di malattie (praticamente tutte, in realtà: dal mal di schiena all’asma, al glaucoma, alla depressione, alla gastrite, all’ansia, all’artrite). Se si poteva consumarla, bisognava poterla comprare o coltivare. E così il referendum, affinatosi in una legge dello Stato, ha generato un’industria "quasi legale", dalle dimensioni oramai troppo grandi per essere repressa. A dodici anni di distanza da quel primo referendum, la medical marijuana è ammessa in sedici Stati americani su 50 e il suo volume d’affari sta diventando quello di una grande industria farmaceutica. Funziona così: un cittadino si rivolge a un medico (volgarmente chiamato pot doctor, pot essendo l’erba), il quale, per una cifra variabile tra i 50 e i 200 dollari, gli rilascia una ricetta medica, valevole un anno. Con questa, il cittadino ottiene un certificato (una tessera plastica simile a una carta di credito, con fotografia) con la quale può comprare l’erba in negozi convenzionati. Non solo, ma la può trasportare, in discrete quantità. Non solo, ma la può coltivare. E qui la regola è diversa a seconda delle contee, e dà luogo a continui contenziosi legali. A Mendocino, per esempio, sono permesse 25 piante a persona ed è lo stesso sceriffo a fornire i vasetti con le piante neonate, ognuna con la sua etichetta. Ad Alameda, invece, è permesso solo un metro e mezzo quadrato. Divieti specifici riguardano la coltivazione vicino alle scuole e alle chiese. È possibile che diversi consumatori possano formare una cooperativa di produzione; per esempio, cento membri di una cooperativa per 25 piante ognuno, fanno 2500 piante. A Los Angeles, invece, la polizia se ne frega proprio e ti arrestano se hai un grammo in macchina. La situazione è fluida, anche perché Washington è contraria a queste forme di ufficiosa legalizzazione e proclama il primato della legge federale (che vieta l’erba) su quelle statali. Di qui i raid come quello - una vera simulazione di guerra - dell’autunno scorso a Mendocino e la guerriglia fiscale contro i luoghi di vendita. Il trend dei consumatori legali negli Stati Uniti, però, cresce di mese in mese. Con l’approvazione della medical marijuana in Arizona è stato aperto un mega store a Phoenix da parte della catena weGrow, in cui si vendono duemila prodotti. Oltre alle sementi e alle piantine, lampade a raggi ultravioletti, fertilizzanti, stimolatori, irrigatori, attrezzi da giardinaggio, gli utili cesti porta ghiaccio fondamentali per la migliore riuscita dell’hashish, il bat guano, il concime organico più ecologico, prodotto dalla defecazione di pipistrello del Texas. Per accorgersi che il mercato è vasto, basta leggere gli annunci pubblicitari delle free press di San Francisco. Qui si offrono ricette a 30 dollari, consegna a domicilio, catering su richiesta, offerte d’acquisto, rinnovo praticamente gratuito della ricetta in cambio di acquisto. I "dispensari", strano nome che a noi ricorda la lotta alla tubercolosi, sono i più diversi. Riservati, sospettosi alcuni, proletari la maggior parte, ma trionfali altri. Per esempio, The Apothekarium, nel centro di San Francisco, ti accoglie - presentando la tessera - come in un ristorante di lusso, tra boiseries di legno pregiato, con un raffinato menu di cannabis sativa, cannabis indica, cannabis sinsemilla (prezzo medio di 50 dollari per 4 grammi di roba pura; se si calcola che venti Marlboro costano ormai dieci dollari...), dolci, infusi, vaporizzatori, certificati che attestano la produzione senza fertilizzanti, impiegati che si atteggiano a sommeliers. Granma Rose mi ha portato a spasso nella sua zona. Insieme alla contea di Humbold e Trinity, quella di Mendocino forma "il triangolo di smeraldo" per la coltivazione intensiva della marijuana. Sono in totale 30 mila chilometri quadrati (più o meno la superficie della Sicilia), una sconfinata distesa di boschi millenari e silenziosi di fronte all’Oceano Pacifico, abitata da poco più di trentamila persone. Qui una volta c’era il legname, poi la pesca, poi le mele, poi i vigneti. Adesso è tutto pot growing. Non si vede, ma i suoi segni sono dappertutto. Piccoli tubi di plastica attraversano un sentiero. Vanno a una grande cisterna e un impianto di irrigazione. Quattro automobili messe a circolo con una rudimentale tenda in un prato: sono narcos messicani clandestini che supervisionano un investimento del cartello di Sinaloa. "Li pagano dieci dollari l’ora, stanno qui cinque mesi, accampati, difesi da cani feroci. I messicani hanno in genere piantagioni di diecimila piante, usano fertilizzanti a manetta, inquinano, portano violenza. Oltre all’erba, mettono su laboratori per la produzione della metamfetamina. Adesso, poi, con la crisi fiscale, lo Stato della California ha licenziato i ranger dei parchi pubblici, per cui si insediano lì". A informare la comunità, ogni settimana, è probabilmente il più bel giornale cartaceo che esista negli Stati Uniti, l’Anderson Valley Advertiser, dodici pagine formato grande, niente foto, impaginazione da fine Ottocento e due motti, "Teniamo alta la fiamma della ribellione" e il detto di Joseph Pulitzer: "Un giornale non dovrebbe avere amici". L’Advertiser pubblica reportage e analisi di politica estera dei columnist più radicali, memorie di lotte operaie e di martiri del socialismo e la più strepitosa cronaca nera della contea e tutto quello che riguarda la marijuana: prezzi di mercato, avvocati, delitti, andamento dei raccolti; il futuro della contea sta tutto lì. Come finirà? Il raid dei federali di settembre ha colpito grosse piantagioni, ma ha lasciato indenne la stragrande maggioranza dei coltivatori (e ha regalato loro anche un temporaneo aumento del prezzo di mercato). Per il resto, la situazione è fluida. Secondo l’ultimo sondaggio Gallup, il 50 per cento degli americani ormai è favorevole alla legalizzazione e si moltiplicano le attestazioni mediche in favore della marijuana: fumarla non danneggia i polmoni (al contrario delle sigarette!); riduce i danni della chemioterapia; è dimostrata addirittura una qualche attività anti cancro. Lo stesso Obama, nella precedente campagna, si era detto contrario alla repressione dei piccoli produttori. Qualcosa dovrà succedere, il business è diventato troppo grande, la percezione del vizio è cambiata, il gioco si è fatto duro, ci sono potenziali milioni di consumatori da soddisfare. Granma Rose, benché armata della sua doppietta nuova di zecca, vecchietta sola in mezzo ai boschi, ce la farà a restare sul mercato? Be’, qualsiasi cosa le succeda, potrà sempre dire, a buona ragione: "Com’era verde la mia valle".