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 2012  aprile 05 Giovedì calendario

Graziano Mesina l’ultimo brigante."i miei sequestri, le mie evasioni..." – ORGOSOLO (Nuoro)

Graziano Mesina l’ultimo brigante."i miei sequestri, le mie evasioni..." – ORGOSOLO (Nuoro). "Il banditismo?", si domanda quello che è stato il bandito più famoso del dopoguerra. "Mah!, non bisogna chiederlo a me, semmai alla gente". Come se non ne sapesse niente. Eppure ne fu il simbolo, quasi il sinonimo, l’espressione matematica: brigante uguale Graziano Mesina. Quel mondo, la balentìa, i silenzi: tutto scolorito con il passare delle stagioni. Altra èra geologica. Oggi il bandito ha compiuto 70 anni: il 4 marzo scorso. "Credo che non sia cambiato proprio nulla", è la prima risposta. Una volta aveva osservato: "Capita che uno vada in galera, innocente, e poi sia assolto. Ma è inutile, perché intanto è rovinato. Così, se quello credeva nella giustizia, non ci crede più, diventa uno contro". Adesso, invece, riprende il discorso: "No, in realtà le cose sono cambiate. In peggio, dappertutto. Non tollero le bugie, ieri non se ne dicevano, o se ne dicevano meno, oggi c’è sempre qualcuno di cui ti fidi pronto a fregarti. E poi, forse le persone non se la sentono più di fare il latitante: una cosa è starsene in una casa al caldo; un’altra, in mezzo ai monti braccato come un cinghiale. Fare il bandito, in Sardegna, equivale a vivere come bestie, ci vuole soprattutto una tempra eccezionale: altrimenti non si sopravvive". "Il banditismo non c’è più: è arrivata la droga, oggi la Sardegna è un container di distribuzione per tutta l’Europa", sostiene l’avvocato Giannino Guiso, da mezzo secolo difensore di Mesina e legato a lui da un "rapporto di affetto e di simpatia, perché ho visto consumarsi grandi ingiustizie nei suoi confronti". Eppure di reati ne ha commessi: ha "rubato" persone, le ha tenute in catene... "Beh!, del sequestro è stato un cassazionista. Ma non si è certo arricchito: spesso i soldi dei riscatti li dava a chi aveva bisogno", dice Guiso che, negli anni 70, fu anche il legale di Renato Curcio e del nucleo storico delle Brigate rosse. Toccati i 70 anni, Mesina non ha molta voglia di ricordare il tempo in cui lo chiamavano Grazianeddu, oppure il re del Supramonte. Ma anche il re delle evasioni: il giornalista e amico Aldo Congiu lo aveva definito "il pendolare dei penitenziari". Allora non era raro che, quando entrava in una galera, lo avvertissero: "Guarda che da qui non puoi scappare"; e lui, di rimando: "Guardate che da qui me ne posso andare quando voglio". Ora recita quel curriculum e, dalla voce, capisci quanto gli pesi. Omicidi: uno. Ergastoli: non sarebbe mai dovuto tornar libero, per il cumulo delle pene, poi ha scontato 40 anni e 8 mesi. Sequestri: otto. Evasioni: sei, "anzi, nove perché mi hanno messo in conto anche le tre volte che mi ripresero appena aldilà del muro del carcere". È un uomo libero dal 2004 (e oraè lui a rivolgersi ai giudici, contro lo Stato, perché gli siano pagati gli arretrati per i lavori svolti in carcere, come è diritto di ogni detenuto). Che cosa lo spingeva a sgattaiolare oltre le sbarre? Mille motivi, certo: una volta ha spiegato che "la più naturale delle ragioni è la voglia di libertà". Nel marzo 1990, se n’era andato per una ragazza. Lo ripresero dopo una settimana, a Vigevano. "È fuggito soltanto per voglia di vivere", fu il commento nel suo paese, Orgosolo. In quel tempo, in carcere gli arrivavano fiumi di lettere: di donne, soprattutto, e alcune gli assicuravano di sognare "inebrianti notti d’amore". Non si è mai sposato, "e non intendo farlo. Ammenoché...". È tornato a vivere a Orgosolo, con una sorella, in una casa vicina alla parrocchia. Oggi che evasioni si concede? Qual è la sua passione più grande? "Ne ho tante, ma me le voglio tenere riservate". Il suo maggior difetto? "Forse dire in faccia le cose". Si occupa di compravendita di case e terreni: "La gente si fida di me". Lo ha sempre fatto, secondo Guiso, perché molti avvertono che Mesina non è mai stato un "delinquente abituale", ma "uno che ha commesso illegalità solo per l’enorme sete di giustizia". Fa pure la guida turistica per "gruppi organizzati". Chi vuole scoprire le bellezze naturali magari s’illude pure di provare un brivido proibito. Del resto, negli anni Settanta, alcune agenzie di viaggio organizzavano escursioni "con la possibilità di incontrare il celebre bandito". Che, oggi, non ha rimpianti perché "non serve a nulla rimpiangere. Certo, sono quarant’anni buttati via. È come se fossi stato congelato, rimasto al Polo Nord. Non è solo la galera in se stessa: è come te la fanno fare! Perché ti accorgi che non sei soltanto tu prigioniero, lo sono anche i parenti, quelli che ti vogliono bene". Alcuni lampioni accecati a fucilate, erano stati l’esordio di Grazianeddu. Uno "sport" certo non civile, ma diffuso, quello di sparacchiare. E in Barbagia, ancora oggi parecchi segnali stradali appaiono sforacchiati dai proiettili. Penultimo di undici figli, forse avrebbe avuto una vita incolore. Aveva 19 anni quando sparò a un braccio di Luigi Mereu: quel pastore, spiegò, "sparlava" della sua famiglia. Quando lo arrestarono, mesi dopo, lui scappò con le manette ai polsi dal treno che lo portava a Sassari; lo presero subito. Nel settembre 1962 era piantonato in ospedale e se ne andò dalla stanza al quarto piano calandosi da una grondaia: due giorni e due notti nelle fogne, poi la corsa verso il Supramonte. Il primo novembre suo fratello Giovanni fu assassinato. Sangue chiama sangue e "l’offesa deve essere vendicata", stabilisce la regola di quel codice morale chiamato "vendetta barbaricina", raccolto in 23 articoli dal professor Antonio Pigliaru. Il giorno di Sant’Omobono, 13 novembre, Mesina uccise in un bar di Orgosolo il pastore Andrea Muscau, della famiglia dell’assassino del fratello. Spiegò: "Non era un innocente, era stato lui a portare Giovanni al macello". Ora mormora: "Storia chiusa, meglio tacere". Quella volta, da giustiziere, non ebbe fortuna: qualcuno lo tramortì con una bottigliata. Era il 13 settembre 1966 quando fuggì dal carcere di Sassari, insieme con Miguel Atienza, uno spagnolo che era stato nella Legione straniera. Braccati per nove mesi da carabinieri e polizia, il 17 giugno furono circondati sul Monte Osposidda dai Baschi blu del Reparto Celere di Padova. Scoppiò il finimondo: rimasero uccisi gli agenti Antonio Grassia e Pietro Ceravola, un’altro fu ferito. Anche Atienza fu colpito a morte. Mesina, invece, sgusciò dalla rete. Lo catturarono solo nel marzo 1968. Intanto, gli avevano attribuito anche la morte dei due poliziotti. Un’accusa sempre respinta: alla fine sarà assolto.. Un giorno ha affermato: "Non ho mai ucciso un tutore dell’ordine, neppure per coprirmi la fuga. Io non sparo addosso alla gente. E anche i poliziotti e i carabinieri sono figli di mamma. Non ho mai potuto sopportare quelli che sparano a freddo, da una parte e dall’altra. È una dimostrazione di mancanza di coraggio e di coscienza. Quando si spara per primi è solo perché si ha paura". La paura ce l’hanno tutti, ma lui sapeva nasconderla. Con insistenza in quei giorni si parlò di incontri con l’editore-guerrigliero Giangiacomo Feltrinelli che voleva farlo diventare il Che Guevara della Sardegna trasformata in una Cuba del Mediterraneo. Non se ne fece nulla. "Feltrinelli non l’ho mai incontrato, me l’hanno affibbiato" replica adesso Mesina. Ma il re del Supramonte, lo ha spiegato tante volte, non condivideva comunque "certe scelte: mi ero reso conto che erano negative per la gente". Una volta, nel 1975, a Ozieri, con la sua banda aveva sequestrato l’imprenditore Giovanni Campus. Il prigioniero "si sentiva solo, continuava a piangere, gli chiesi chi fossero i suoi amici e gli portai un certo Antonio Petretto. Così, per compagnia". Mesina fu preso mentre il duplice sequestro era in corso. Ordinò il rilascio, non parlò. Il riscatto, si disse, fu di 100 milioni. Poi altri rapimenti, altri braccio di ferro con la giustizia, altre fughe. La leggenda era diventata mito. Misero anche una taglia, con la sua foto sul manifesto: "Cinque milioni a chiunque ne agevolerà la cattura". E i milioni salirono a dieci. "In Sardegna non comandano né il governo di Roma né quello, semiautonomo, di Cagliari: comandano Mesina e l’Aga Khan", scrisse il giornale francese L’Aurore. Nel 1992 comparve anche nella trattativa per il rilascio del piccolo Farouk Kassam: l’inizio di un’altra vicenda contorta, conclusasi nel 2004 con la grazia concessa a Mesina dal presidente Carlo Azeglio Ciampi. Al bimbo, "rubato" in Costa Smeralda, tagliarono un orecchio. Forse era già un’altra maniera d’interpretare il banditismo.