Giovanni Cerruti, La Stampa 6/4/2012, 6 aprile 2012
Lacrime, lacrime padane e vere, con il magone che li prende tutti. Lo guardano per l’ultima volta da segretario della Lega: l’ha già deciso il Capo, l’ha già annunciato all’agenzia Ansa
Lacrime, lacrime padane e vere, con il magone che li prende tutti. Lo guardano per l’ultima volta da segretario della Lega: l’ha già deciso il Capo, l’ha già annunciato all’agenzia Ansa. Ha il sigaro in mano, gli occhiali storti, uno sguardo fiero che per una volta sembra quello di una volta. «Mi dimetto, chi sbaglia paga, anche se si chiama Bossi». Proprio oggi un paio di invecchiati parlamentari avrebbero festeggiato il 6 aprile di 20 anni fa, la prima calata a Roma di 80 leghisti. Gli 80 leghisti duri e puri, l’esercito della moralizzazione, i nemici della partitocrazia. Vent’anni e sono arrivati qui, tra lacrime magone, a ricordare con affetto, stima, gratitudine, la Lega che c’era e la Lega che c’è. L’ultima sequenza da via Bellerio è l’immagine di Bossi che abbraccia Roberto Maroni. «Se ti candiderai segretario io sarò dalla tua parte», gli dice Bobo. Ma chissà come starà la Lega, e come starà Bossi, quando il congresso verrà. Abbassano le tapparelle, dalle finestre della sede. Come se fosse una giornata di lutto, o come se avessero qualcosa da nascondere. Non solo sentimenti, non solo lo struggente addio di Bossi. I maggiorenti della Lega sono riuniti e le agenzie di stampa, impietose, rilanciano i dettagli delle inchieste. Soldi soldi soldi. Non solo la moglie Manuela e tre figli su quattro, non solo la «famiglia» Rosi Mauro. C’è anche Calderoli. E c’è pure lui, Bossi. Fuori da via Bellerio scivolano parlamentari poco conosciuti e assai preoccupati. Non doveva finire così, Bossi non se lo meritava. Lamenti, quasi. Ci sono un paio di militanti che ancora non hanno capito, e vorrebbero buttarla in rissa. Ci sono le tv che non vedono l’ora. Ma non c’è dirigente della Lega, nemmeno quelli che sono su al Consiglio Federale che non sappia perché è andata così. E che non è vero che nessuno se l’aspettava, non è vero che nessuno sapeva. C’è una data, l’11 marzo 2004, la notte del coccolone del Capo, la mattina del ricovero da moribondo all’Ospedale di Circolo di Varese. E ce n’è un’altra, che si rivelerà decisiva. Il 3 maggio di quell’anno, ore 5,30. Il Bossi che abbandona la segreteria della Lega si sta prendendo responsabilità o colpe non sue, o non tutte sue. Deve difendere la famiglia, quel Cerchio Magico che gli è sempre stato attorno, l’ha isolato, condizionato, da quel che esce dall’inchiesta anche ingannato. È alle 5,30 di quel mattino che un’ambulanza si presenta all’ospedale di Circolo. Franco, il fratello, aveva sbrigato le pratiche. Manuela, la moglie, aspettava con tre leghisti di fiducia. Nessuno sapeva, nessuno doveva sapere. Tranne Rosi Mauro, che i leghisti impareranno a chiamare «la Badante», affatto affettuosamente, e Giancarlo Giorgetti, segretario della Lega Lombarda, ai tempi «il Delfino». L’avevano portato in una clinica svizzera, nascosto di nascosto. E da quel momento Bossi non ha più parlato con nessuno, in via Bellerio arrivavano solo comunicazioni riportate, «Bossi ha detto che...». Oppure, a maggio, quando già la Lega stava organizzando il raduno di Pontida per il mese dopo, un messaggio audio inciso registrato nel telefonino di Giorgetti. Moglie e famigli avevano deciso che a Pontida ci sarebbe stato lo scippo, che Maroni si sarebbe preso la Lega. «Pontida è la mia festa, se non ci sono io non si fa». Maroni era già finito in quel libro dei cattivi. In quell’anno non l’ha mai visto. Tremonti e Berlusconi sì, il vecchio amico no. «Ti vuol portar via la Lega». Da quella mattina, e fino a ieri, attorno a Bossi è cambiato tutto. Via Aurelio, l’autista taciturno, l’unico testimone del coccolone notturno, e dentro un altro bergamasco dal naso schiacciato da anni di scazzottate, detto appunto «Pugilotto». Via gli amici. Via i giornalisti che l’avevano seguito per quindici anni. Daniele Vimercati, «il Biografo», era morto da due anni. Erano rimasti il «Decano», l’«Ammiraglio», il «Folletto». Si rivedranno solo sei anni dopo, al funerale del «Decano». «Vediamoci, ho bisogno di parlarvi». Ma il divieto è continuato. Magari gli avrebbero raccontato quel che non sapeva, o che non volevano sapesse, come minimo che dal 2004 la Lega non era più la sua Lega. È da otto anni che è così. E un’altra data da ricordare è il 7 marzo del 2005, quando medici e famiglia avevano deciso di accompagnarlo alla sua prima uscita pubblica, dalla finestra della casa di Carlo Cattaneo, a Lugano. Accanto, a gridare «Padania Libera», c’era Renzo, allora ragazzino, sedicenne. L’«Ammiraglio» l’aveva capita al volo, e subito scritta su «L’Unità»: «Ha scelto il suo “Delfino”, vuol lasciare la Lega a Renzo». I leghisti, e non solo, l’avevano sfottuto. E invece, quattro giorni dopo, primo anniversario del coccolone, ecco la prima e unica intervista da allora, sul «Corriere della Sera», sensale e organizzatore Giulio Tremonti. «Bossi: dopo di me mio figlio Renzo». Eccola, la Lega di famiglia. A un anno dal coccolone era già ben avviata. E proprio in quei giorni, battezzata da un leghista ai tavoli della trattoria milanese «Al Matarel», ispirata al «Signore degli Anelli» di J.R.R. Tolkien, nasce la definizione di «Cerchio Magico». «Ormai a Bossi raccontano quello che vogliono loro, si è perso le puntate, non conosce la gente». Il vecchio senatore Erminio Boso cercava di incontrarlo: «Ma c’è sempre qualcuno di quelli lì che si mette vicino per sentire quello che gli dico». Ora, quando si elencano i troppi silenzi sulle sciagure di quel consesso, tornano in mente nomi e facce e carriere di chi c’era, di chi ci è stato, di chi c’è ancora. È a Gemonio, con il malandato Bossi in poltrona, che si decidono carriere fulminanti e imprevedibili. Da Rosi Mauro che diventa vicepresidente del Senato al giovane Marco Reguzzoni, che abbandona la presidenza della Provincia di Varese, si candida alle politiche e poi diventa capogruppo alla Camera. Da Roberto Cota, che da capogruppo diventa presidente della Regione Piemonte, e fosse andata male sarebbe diventato ministro al posto di Luca Zaia, sicuro governatore del Veneto, al veronese Federico Bricolo che s’improvvisa capogruppo al Senato. Un posticino anche per il giornalista Gianluigi Paragone, che si scopre leghista da sempre, va a dirigere il quotidiano «La Padania» e poi svolta in Rai. Gente che va e gente che viene, da questo Cerchio Magico sempre più sospettoso. E chi è rimasto, o chi non se n’è mai andato del tutto, come Calderoli, ora si è conquistato la citazione nelle 211 pagine firmate dai carabinieri del «Capitano Ultimo», l’ufficiale dell’arresto di Totò Riina. Non possono non sapere, loro. E forse chi ne ha saputo meno di tutti è proprio Bossi, malato e a volte depresso, spesso svogliato, con poco tempo da dedicare ai maneggi di casa e bottega, a questa Lega che si è trasformata in Ditta di famiglia. «Ormai mi stufo subito, sono sempre lì a chiedermi di fare così e cosà», si era quasi sfogato a fine aprile di un anno fa, incontrando un vecchio amico dopo un comizio a Domodossola. Uno come Francesco Belsito, non gli fosse capitato l’accidente del 2004, non l’avessero rinchiuso nel Cerchio e nei magheggi, Bossi l’avrebbe messo alla porta in un amen, magari gli avrebbe pure dato del «terùn». Certo è che con bilanci, soldi e debiti è sempre stato una catastrofe. Quando di Belsito diceva «è uno bravo, uno che ci capisce», usava le stesse parole che avevano accompagnato la travolgente (di debiti) avventura della Banca CredieuroNord. «È bravo, ci capisce». Era un manager cacciato dalla Barclays Bank. Si sa come è finita, e ancora ieri, a «Radio Padania», arrivavano telefonate furibonde: «Non ci avete ridato i nostri soldi e i milioni che avete li spendete per voi???». Ma questa non è solo la triste storia di un leader e di una Lega travolti da vil danaro. È stata, in questi otto anni, anche una storia politica. E la stessa distrazione del Bossi ammalato, stanco, svogliato, vale per la politica e i suoi percorsi. È sempre a Gemonio, e non in via Bellerio, che si prendevano le decisioni, si dettava la linea. E se in via Bellerio decidono di votare a favore dell’arresto di Francesco Cosentino, il deputato Pdl, è da Gemonio che parte il contrordine. Quali siano le partite di scambio non è dato sapere. Uno degli incubi di queste ore è che qualche risposta possa arrivare dalle intercettazioni telefoniche, visto che le segretarie di via Bellerio sono così loquaci. Insomma, otto anni che hanno portato a questo disastro. E fa quasi tenerezza il vecchio Umberto Bossi che ora ammette che sì, ho sbagliato. Ma bisogna immaginarselo nel villino di Gemonio, i famigli attorno, lui sul divano, il camino che prende una parete, e chissà se ha ancora quella scultura di Antonio Ligabue, una pantera in bronzo regalata dall’ex ministro del ‘94 Vito Gnutti. A volte gli vien voglia di scappare e chiama la scorta. Non della Lega, della Polizia. «Portatemi a mangiare qualcosa, in casa mi danno solo la minestrina. E poi fa freddo». Altre volte va a Laveno, un quarto d’ora da casa, a vedere il Lago. Si mette ai tavolini del Bar Bellevue, solo, e gli piace raccontare quanto è stata bella la sua vita nella Lega. Fino a quel marzo 2004. È finita lì, la sua Lega, quella Lega. Mai uno come Bossi avrebbe candidato il figlio Renzo, mai avrebbe creduto alle balle che gli hanno raccontato i Belsito, i famigli e tanti altri furbetti. Mai avrebbe detto, e l’ha ripetuto pure qualche giorno fa, «mio figlio Renzo è bravo, tra un anno si laurea». E mai, a vedere le facce che lasciano via Bellerio, si sarebbero immaginati questa fine i leghisti che hanno finto che tutto andasse bene, che Bossi sta benissimo, che Renzo è bravissimo, la Lega è fortissima e i giornali sono cattivissimi. Otto anni allo sbando. Con una Lega che ora si sveglia malata grave, con una credibilità a meno di zero. E Bossi, che forse si sta ancora domandando perché. Farà il militante, dice. Anche se in otto anni su Maroni gliene hanno dette di tutte, se pure lui, appena un mese fa, borbottava nei corridoi di via Bellerio «mi vuol portar via la Lega», ora deve affidarsi al vecchio amico. Ma sarà difficile la navigazione da qui al congresso. Con Bossi militante, da oggi come si comporteranno gli altri leghisti che in questi otto anni si sono approfittati delle distrazioni di Bossi e delle complicità del Cerchio Magico, chi ha distribuito posti e candidature ad amici e parenti, chi si è fatto strada dicendo «Bossi mi ha detto che...». Lo diceva anche Belsito. Fino a quando Gianpaolo Dozzo, il nuovo capogruppo, ha chiamato Bossi: «Io non gli ho detto niente». Quando torna a Gemonio il vecchio leone non può sapere che sta per andare in onda «Striscia la Notizia», che si vedrà Renzo nella parte del ridanciano, e proprio in queste ore, con il «Tapiro d’Oro» in mano e in primo piano e il Suv Bmw sullo sfondo. Pessima immagine per chiudere la serata, altra dimostrazione che Bossi non controlla l’esuberante figliolo, che alla Lega continua a procurar danni. E si può solo immaginare quante non gliene hanno dette, in questi anni, sui figli e le loro scorribande. O quanto sono costate. Ancora una volta: non ci fosse stato il coccolone, non si fosse fermato al 2004, la Lega avrebbe avuto un altro destino. E non sarebbero arrivati i carabinieri, in via Bellerio. Delle telefonate, della solidarietà di Silvio Berlusconi, a questo punto non sa che farsene. Sa di essere arrivato al punto più basso, e accompagnato da quell’odore dei soldi che in politica, e ad un partito come la Lega, possono costare una condanna a vita, gli ideali che restano e i voti che spariscono. Ha sempre avuto un timore, il Bossi che non era ancora stato fermato dal coccolone. «Se non riusciamo a portare a casa niente, se deludiamo i nostri, va a finire che vengono a prenderci sotto casa e ci tirano i cachi». L’inverno è appena finito, non ce ne sono più sugli alberi, quel rischio è passato. Ma è primavera, e nella Pianura Padana è il tempo del letame...