Paola Setti, il Giornale 4/4/2012, 4 aprile 2012
Il buttafuori che finì al governo: ascesa e dimissioni del tesoriere - Il buttafuori che divenne autista, l’autista che divenne spicciafaccende, lo spicciafaccende che divenne tesoriere, seduto ai banchi del governo e nei Cda del sottogoverno
Il buttafuori che finì al governo: ascesa e dimissioni del tesoriere - Il buttafuori che divenne autista, l’autista che divenne spicciafaccende, lo spicciafaccende che divenne tesoriere, seduto ai banchi del governo e nei Cda del sottogoverno. È stata una carriera fulminante e spregiudicata quella di Francesco Belsito, classe 1971, figlio di quella Genova che alla Lega non ha mai dato grandi soddisfazioni elettorali, ma neppure gravi problemi. Fino a qui e fino a ieri, quando «Goodsite», come lo chiamano qui, convocato d’urgenza in via Bellerio, si è dimesso. Da tesoriere e da quella ascesa spericolata. Un percorso seminato di un’aneddotica imbarazzante, da quel bigliettino che gli investigatori trovarono perquisendo la casa di Ruby Rubacuori, «Francesco B., presidenza del consiglio dei ministri », al suo Porsche Cayenne nero spesso parcheggiato nei posti riservati alla Questura di Genova, passando per una denuncia per guida senza patente e un paio di fallimenti di società dalla mission oscura. Imbarazzante per tutti, l’aneddotica, ma non per lui. Quando, un paio di mesi fa, i cronisti gli chiesero conto di quella storiaccia dei suoi falsi diplomi di laurea, lui rizzò il pelo sullo stomaco: «Ancora con la storia delle mie lauree? Chiedetemi di cose serie». Adesso che sulle cose serie indagano tre procure, lui parla di accuse tutte da verificare e si dice tranquillo. Eppure non era cosa da poco, anche quella dei titoli di studio. Il Secolo XIX ci fece un’inchiesta di tre giorni pochi mesi fa, non fosse altro che Belsito senza quegli attestati non sarebbe potuto diventare, nell’ordine: sottosegretario alle Semplificazioni, consigliere di amministrazione della Filse, la Finanziaria per lo sviluppo della Regione Liguria, persino vicepresidente della Fincantieri. Lui l’aveva messa pure sul sito del governo, quella laurea in Scienze politiche rimediata a Londra. E sosteneva di averne un’altra, proveniente da Malta, in Scienze della Comunicazione. Peccato che l’Ateneo di Genova non solo gli abbia annullato il percorso accademico, ma abbia anche girato alla magistratura il diploma di perito vantato da Belsito. A destare i sospetti, dell’Ateneo e subito dopo della Finanza, la scuola che glielo avrebbe rilasciato nel 1993, l’istituto privato napoletano Pianma Fejevi di Frattamaggiore. Non solo, scrissero i finanzieri, il suo nome «non risultanell’elenco esaminandi» e «la firma del preside non corrisponde ». Ma la scuola chiuse i battenti, sotto la scure di un’inchiesta su diplomi venduti che portò alla sbarra 160 persone. Non è che i leghisti non ce li avessero, i sospetti. Il fatto è che nella Lega comanda il capo, e se il capo si fida nessuno può controbattere. E Umberto Bossi sul suo tesoriere non fece una piega nemmeno sugli ormai famigerati soldi del partito finiti fra la Norvegia, Cipro e la Tanzania: «È un buon amministratore » chiuse subito la vicenda il Senatùr. I militanti protestarono, «la Tanzania non è un Bel Sito» si leggeva sugli striscioni della manifestazione in piazza Duomo a Milano il 22 gennaio scorso. Ma finì lì. Come dieci anni fa, quando Belsito fece il suo ingresso nel partito. Decimo piano del palazzone grigio in via Fieschi a Genova, ufficio della presidenza del consiglio regionale. Erano i tempi del centrodestra al governo della Liguria, presidente dell’assemblea era Francesco Bruzzone, segretario «nazionale » in Liguria, persona specchiata ma a volte malaccorta. Belsito, che fino ad allora era stato l’autista dell’azzurro Alfredo Biondi, ai tempi in cui l’ex Guardasigilli dalla sua Genova venne catapultato a candidarsi alla Camera in Lombardia, indossò la camicia verde e iniziò a dirigere iltraffico di questuanti in cerca di lavoro o ascolto. Alcuni collaboratori domandarono a Bruzzone se non gli paresse esagerato affidarglisi così tanto, ma la risposta fu: «Lo controllo io». In effetti, chi gli si affidò in toto fu se mai un altro «padre» leghista, l’allora tesoriere e sottosegretario, nonché plenipotenziario a Chiavari, Maurizio Balocchi. Vista da qui, si potrebbe anche annotare che è stata una carriera costruita sulle malattie dei big, quella di Belsito. La gotta che si portò via pezzo per pezzo Balocchi, del quale Belsito, che ne era il portaborse, ereditò gli incarichi di governo e di partito, divenendo sottosegretario e segretario del Carroccio nel Tigullio. E poi l’ictus che colpì Bossi:fu solo dopo l’accidente occorso al capo che Belsito, che deteneva già la cassa del partito, iniziò a seguire da vicino anche gli affari di famiglia. Ricorda di lui Biondi che «Belsito bazzicava Forza Italia e si offrì di farmi da autista ai tempi della campagna elettorale in Lombardia, nel 2001. Era molto gentile e mi divertiva, perché era sempre aggiornato sul gossip del sottobosco della politica. Di sicuro è uno capace di introdursi. Quando passò alla Lega mi chiese se secondo me stesse commettendo uno sbaglio. Gli dissi no, se ti danno uno stipendio vai. Ora lo incontro solo alle partite del Genoa: lui è sampdoriano, viene per gufare».