Sergio Rizzo, Corriere della Sera 05/04/2012, 5 aprile 2012
FLOP ANNUNCIATO: DATI UE INCOMPARABILI DA SUBITO —
Era scontato, il buco nell’acqua della legge che impone di adeguare stipendi di politici e alti papaveri statali alla media dei sei principali Paesi di Eurolandia. Si può anzi intuire che la commissione coordinata dal presidente dell’Istat Enrico Giovannini con il compito di fare i calcoli l’avesse fiutato fin dall’inizio. Subito evidente era apparsa la difficoltà di trovare i dati delle retribuzioni relative a incarichi pubblici, se non proprio identici quantomeno assimilabili, di sei Paesi europei con organizzazioni, strutture ministeriali, agenzie e impianti istituzionali differenti.
Basta leggere il rapporto conclusivo: dove c’è scritto che «solo in nove casi su 30 è possibile stabilire una buona corrispondenza tra le istituzioni e gli enti italiani e quelli di tutti e sei i Paesi considerati» e che «purtroppo, per nessuno dei nove enti in questione è stato possibile acquisire i dati per tutti e sei i Paesi». Fra le righe, anche una notizia per certi versi imprevedibile. Cioè che quanto a trasparenza c’è in Europa chi sta addirittura peggio di noi. La Francia, per esempio, dove i compensi dei vertici delle autorità indipendenti sono considerati coperti da privacy. Oppure la Spagna, che si limita a comunicare le retribuzioni «base» dei suoi alti burocrati, senza rendere nota la parte variabile dello stipendio.
Ma dopo quello che è successo, una domanda sorge spontanea: perché davanti al rischio immaginabile che sarebbe stato impossibile applicare quella legge non ci hanno pensato prima di scriverla? Forse perché doveva andare esattamente così. Ricordiamo come tutto era cominciato. Giugno 2011: era già piena emergenza e ci si preparava ai sacrifici. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva chiaro che per far digerire una manovra dolorosa serviva un segnale. Ovvero, una sforbiciata agli sprechi e alle buste paga dei politici. Ma come riuscirci evitando rivolte e imboscate? Semplice: imponendo l’adeguamento degli stipendi alla media di Eurolandia.
Operazione inattaccabile, in linea di principio. Chi avrebbe potuto contestare la media degli stipendi dei colleghi europei come parametro di riferimento? Ma non così facile da tradurre in pratica. Tanto più dopo che nelle Camere era serpeggiato un rabbioso interrogativo: «Perché noi sì e loro no?». Dove quel «loro» stava a indicare gli alti dirigenti statali. Così quella norma, partita soprattutto per calmierare gli emolumenti dei politici, si è trasformata in una tagliola per i componenti authority, segretari generali, capi dipartimento, fino ai «dirigenti generali e ai titolari degli uffici a questi equiparati». Mentre i parlamentari, che dovevano essere colpiti per primi, l’hanno scampata. Come hanno fatto?
Intanto dalla media dell’intera Eurolandia, com’era previsto nella prima versione, si è passati con un emendamento furbetto alla media dei «sei principali» Paesi, per giunta corretta per il prodotto interno lordo. Poi è bastato cambiare una parola, scrivendo nella legge che l’adeguamento non riguardava il loro stipendio, bensì il loro «costo» complessivo.
Un gioco da ragazzi, a quel punto, far tornare i conti: dimostrando che il costo di un nostro deputato non è superiore a quello medio europeo, sebbene un cittadino italiano spenda ogni anno per mantenere il suo Parlamento, chissà come, il doppio di un francese e quasi il triplo di un inglese o di un tedesco. E i superburocrati? Niente paura: fin troppo facile prevedere che nell’impossibilità di adeguare al parametro continentale anche uno soltanto dei loro stipendi, tutti gli altri ne avrebbero seguito il destino e si sarebbero salvati. Un classico.
Resta appena una consolazione. Perché adesso si potrà applicare il famoso tetto massimo del primo presidente della Cassazione, reintrodotto a dicembre con il decreto «salva Italia» per le retribuzioni degli alti dirigenti statali, senza che quel limite vada a cozzare con la media europea, a questo punto difficilmente applicabile. Le due leggi, entrambe in vigore senza che sia stata prevista una norma di coordinamento per evitare dubbi interpretativi, sono in aperto conflitto.
C’è da dire che anche rendere operativo quel tetto dei 293.658 euro e 95 centesimi del magistrato di Cassazione sta comportando non pochi problemi. Cominciando dalla difficoltà di avere i veri dati delle retribuzioni di chi cumula più incarichi o emolumenti. Sembra assurdo, ma lo Stato ne è sostanzialmente all’oscuro: quelle informazioni non sono centralizzate (anche se forse si potrebbe ricorrere all’Agenzia delle entrate). Hanno quindi deciso di risolvere la questione con il decreto firmato da Monti il 23 marzo che impone agli interessati di «autodenunciare» entro il 22 aprile il proprio stipendio reale presentando, testualmente, «una dichiarazione ricognitiva di tutti gli incarichi in atto a carico della finanza pubblica, con l’indicazione dei relativi importi». Dichiarazione che, a regime, «è resa entro il 30 novembre di ciascun anno»: una lampante ammissione che quella lacuna informatica, già si sa, difficilmente verrà colmata.
Per il resto, pochi alibi: se lo Stato vuole, può tagliare eccome. La dimostrazione si è avuta ieri quando l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, struttura che dipende dal ministero guidato da Mario Catania, ha rinnovato i suoi rappresentanti nella Sin, la società informatica controllata, riducendo il costo del Consiglio di amministrazione da 600 mila a 160 mila euro l’anno. Risparmio per il mandato triennale, un milione 320 mila euro. Moltiplicatelo un po’ per le centinaia di società pubbliche...
Sergio Rizzo