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 2012  aprile 06 Venerdì calendario

LA CADUTA DI BOSSI. ARTICOLI DEL CORRIERE DELLA SERA


Marco Cremonesi
MILANO — Dopo tanti anni, tante sfide e tensioni, tutto non può sciogliersi che nelle lacrime. Alle 16.30 Umberto Bossi ha rassegnato le proprie «irrevocabili» dimissioni di fronte allo stato maggiore della Lega. E hai voglia ad essere rodato da tanti anni di politica, hai voglia ad avere assunto il cinismo duro di chi ne ha viste tante: quando il «capo» resta silenzioso eruttando fumo mentre tutti gli chiedono di ripensarci, non c’è nessuno dei presenti che resista alle lacrime. L’uomo che ha cambiato le vite di tutti ha deciso. Lo racconta lui stesso: «Mi sono messo a piangere, poi ho smesso perché ho visto che piangevano tutti. Io ero solo d’intralcio, era inutile per me restare. Sono andato al consiglio, nessuno mi ha chiesto le dimissioni ma mi sembrava doveroso farlo».
Certo, in un’intervista che appare sulla Padania di oggi il leader spiega che «il fatto che io abbia dato le dimissioni non vuol dire che io scompaia. Se lo scordino. Resto nella Lega, da ultimo sostenitore o da segretario io resto sempre a disposizione della causa». E dunque, sarà soltanto un «militante. Anzi, no. Semplice simpatizzante». Ma tutto l’accaduto, per Bossi, è una «chiara manovra contro di me e contro la Lega».
La giornata, per Bossi, è straziante. Dopo il confronto nella notte con i familiari, Bossi smentisce via agenzie la sua volontà di dimettersi. Poi, però, pretende che gli siano letti i giornali, per filo e per segno. Non accetta che gli siano, come troppo spesso è accaduto, riassunti. Ed è lì, probabilmente, che matura la sua decisione: le intercettazioni sono devastanti. Nel frattempo Giuseppe Leoni, cofondatore della Lega autonomista lombarda esattamente 28 anni or sono, fa partire una campagna di sms per chiamare alla mobilitazione i militanti. Appuntamento in via Bellerio, per far sentire a Bossi il loro sostegno.
Ma ormai la decisione è presa. Ed è lo stesso Bossi, nominato presidente dal consiglio «federale», a dare la linea: congresso federale il primo weekend di ottobre. Nel frattempo, il Carroccio sarà retto da un triumvirato: Roberto Maroni, Roberto Calderoli e l’ex presidente della Provincia di Vicenza Manuela Dal Lago. Poco più tardi, tuttavia, le agenzie battono la notizia che anche Calderoli sarebbe stato beneficiato dalle casse di partito attraverso Francesco Belsito. Più tardi ancora, forse per rincuorare i militanti affranti, si diffonde la voce che comunque Bossi potrebbe tornare a candidarsi al congresso di ottobre. Le tensioni si sciolgono nella commozione e anche le assemblee degli autoconvocati che avrebbero dovuto chiedere a gran voce il congresso federale si trasformeranno in appuntamenti dell’orgoglio leghista. Il Carroccio decide anche il sostituto di Belsito, l’ex sottosegretario vicentino Stefano Stefani. E i conti del Carroccio dovranno essere subito sottoposti al vaglio di una società di consulenza esterna.
L’uomo del giorno è Roberto Maroni, il candidato naturale alla successione. Bossi lo sa e vuole superare una volta per tutte le lacerazioni del movimento. E ai microfoni del Tgcom lo chiarisce: «Non è vero che sia un traditore». Oggi stesso i due leader torneranno a incontrarsi in via Bellerio. I «barbari sognanti» avrebbero sperato in un congresso più ravvicinato nel tempo. Ma, spiega un amico dell’ex ministro dell’Interno, i prossimi mesi serviranno a «mettere a punto una nuova fisionomia del Carroccio, una Lega dei sindaci e degli amministratori attentissima al territorio e molto meno legata ai vecchi slogan che ormai a tanti appaiono usurati. Inoltre, il congresso a ottobre servirà a definire le alleanze e segnerà l’inizio della campagna elettorale per le politiche 2013».
M. Cre.

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Marco Cremonesi
MILANO — «Mi avete preso per il culo. Ma la cazzata piu grande l’ho fatta io, tutta da solo: non avrei dovuto far entrare i ragazzi in politica». Nel giorno dell’amarezza più straziante, Umberto Bossi racconta a un amico la sua ultima serata da segretario federale della Lega. Un lungo, doloroso redde rationem con la famiglia: «Qualcuno me lo aveva anche detto: "Umberto, devi scegliere tra la Lega e i figli". Lo sapevo anch’io, avrei dovuto scegliere la Lega. I figli potevano fare qualcosa d’altro». Nel pomeriggio di mercoledì, infatti, Bossi ha abbandonato via Bellerio mentre la segreteria politica del movimento era ancora in corso. Le evidenze di quello che non aveva mai voluto vedere gli sono state rivelate in un’epifania progressiva di fatti, circostanze ed eventi che fino a quel momento aveva sempre, letteralmente, ignorato. I macchinoni dei figli Renzo e Riccardo? Dei leasing. Gli appartamenti di Renzo? Normali affitti. D’altronde, un consigliere regionale guadagna mica male. Tutto poteva pensare Umberto Bossi nella sua vita di ventura, tranne che a far tremare dalle fondamenta la sua costruzione sarebbero stati i figli. La famiglia. C’è chi parla di responsabilità oggettive: «Non passa per una volpe? E come mai non si è accorto di nulla?». Ma qui, appunto, a far scricchiolare l’edificio è stato il più insidioso dei cavalli di Troia. I figli. La famiglia. Strozza la gola il pensare che, ancora pochi mesi fa, nell’infuriare dello scontro tra «cerchio magico» e «barbari sognanti», il capo padano preso in contropiede dal conflitto sottovalutato dichiarasse che «Renzo è l’unico di cui mi fido».
Tutto nasce nella notte nevosa tra il 10 e l’11 marzo 2004, quando il cuore di Umberto Bossi impazzisce. Manuela Marrone, la moglie, si ritrova a fare cupe riflessioni sul futuro: il marito è tra la vita e la morte, lei ha tre figli da crescere e la sua naturale diffidenza la porta a non fidarsi di nessuno. A partire da quei colonnelli che vede pronti a impadronirsi del movimento da lei stessa fondato vent’anni prima. Nelle primissime ore, c’è spazio soltanto per l’amica Rosi Mauro e per Luciano Bresciani, il cardiologo convertito da Bossi alla Padania, oggi assessore lombardo alla sanità. La prima decisione è subito presa: bisogna andarsene dall’ospedale di Varese. Nessuno deve parlare a nome suo, nessuno deve nemmeno essere in grado di fare scommesse sulla sua salute. Nella paranoia di quelle ore concitate, si teme addirittura che qualcuno possa approfittare della situazione per togliere Bossi di mezzo. E così il leader semicosciente si volatilizza nella notte in direzione della svizzera Sion con gran rabbia del governatore lombardo Roberto Formigoni.
È più o meno in quei giorni che nasce il «cerchio magico», quel cordone che renda Bossi, paradosso tra i paradossi, sempre più inaccessibile. I suoi ordini vanno filtrati, le informazioni che riceve, selezionate. È lì che nasce il soprannome di Manuela Marrone, il «vero capo». Che trasmette i suoi ordini attraverso «la Nera», la «badante» Rosi Mauro.
Ma quel che fa precipitare la situazione è l’ingresso sulla scena politica di Renzo. Ancora nel settembre 2009, Umberto Bossi racconta ai giornalisti dei figli, della sua preoccupazione che, per la loro giovinezza e inesperienza, possano essere utilizzati contro di lui e soprattutto contro la Lega: «Renzo deve andare via. Deve studiare all’estero. Voi non lo lascereste in pace». Che cosa poi accada non è dato sapere. Fatto sta che in gennaio, Renzo è candidato in Regione. La stretta su Bossi diventa, se possibile, ancora più severa. La realtà deve essere ancora più filtrata. Perché il perno di tutto è proprio Renzo. Giuste le ipotesi dei magistrati, sono gli «amici» di Renzo, quelli che ogni giorno ne magnificano al padre le doti, a trarre i benefici economici dal sistema. Ma perché il gioco regga, il papà non deve sapere. Meno contatti ha, meglio è. E così la maggior parte dei suoi appuntamenti pubblici scompare dalla Padania e dal web della Lega, i giornalisti vengono tenuti il più lontano possibile e lo stesso vale per i dirigenti del movimento. Bossi ama trascorrere le nottate libere al bar Bellevue di Laveno? Sul posto vengono organizzati turni di guardia. E se arrivano importuni, siano essi giornalisti oppure dirigenti che attendono da settimane di parlare con il «Capo», scatta l’allarme e arrivano i rinforzi per «proteggere» il leader. Il «cerchio» è chiuso.
Marco Cremonesi

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Alessandro Trocino
ROMA — Alla fine, si sono abbracciati. Mentre fuori, sull’asfalto desolato di via Bellerio, un drappello di scalmanati militanti filobossiani urlava «traditore» e «giuda», dentro Roberto Maroni si stringeva in un abbraccio commosso con il suo leader di sempre: «Umberto, lo sai, per me sei come un fratello maggiore. Quello che è successo non cambia nulla». Parole e sentimenti comprensibili, per un rapporto nato nel lontano 1979 e che, con l’unica rottura traumatica del 1994, non si è mai interrotto. Maroni da allora ha imparato che il «Capo» non si discute e che chi è contro di lui è fuori dalla Lega. La regola, sembrerà strano a chi non conosce le dinamiche lumbard, vale anche oggi, nonostante le inchieste, nonostante tutto. Ed è per questo che, in autunno, il candidato della Lega sarà uno solo, votato per acclamazione. E con tutta probabilità quel candidato, Roberto Maroni, avrà una benedizione speciale e indispensabile: quella di Umberto Bossi. Che ieri l’ha anticipata: «Non è un traditore».
Nella sua pagina Facebook, Maroni ha fatto mettere da qualche settimana una vecchia foto, che racconta molte cose: c’è l’Umberto sorridente, in cravatta gialla, che guarda da una parte; dietro c’è lui, Bobo, che sorride in una direzione diversa, ma gli tiene le mani ben salde sulle spalle. Sullo sfondo, una bandiera con la scritta «Barbari sognanti», lo slogan adottato dai maroniani. Simbologia chiara: Maroni ha bisogno di appoggiarsi sulle spalle del Capo per poter spiccare il volo ma lo farà guardando altrove. E soprattutto spezzando per sempre il «cerchio magico», il nucleo di familiari e fedelissimi che dai giorni della malattia circonda il Senatur, un po’ proteggendolo e un po’ soffocandolo.
Maroni non ha più rapporti con loro da tempo. «False», dice, le voci che parlano di un recente faccia a faccia con Manuela Marrone: «Non la vedo dal Natale 2010». Nessun tipo di rapporto neanche con Renzo: «Non lo sento da quando è stato eletto in Regione». Ieri Bossi ha fatto stampare alcune foto, pubblicate dal Corriere.it, che lo riprendevano insieme al figlio Renzo e a Maroni, mentre giocavano a dama: «Mi ha molto commosso questo gesto — dice Maroni — Sono immagini bellissime». La rottura con la famiglia è stata dura. Ma era necessaria per affrancarsi dal giogo e imporsi come leader della minoranza.
Lo ha fatto con cautela, Maroni, che ha imparato dalla Storia. Il rapporto con Bossi data al febbraio 1979, quando fu incaricato di scrivere il foglio «Nord-Ovest», per conto di Bruno Salvadori, mentore di Bossi ed esponente dell’Union Valdôtaine. Nel ’94, la prima e ultima rottura: Maroni si oppose al ribaltone. Era l’epoca in cui Bossi definiva il Cavaliere «Peron della mutua» e «furbastro venditore di fustini». Per la prima volta fu pronunciata la parola «maroniani». Bossi non fu tenero: «Maroni si è innamorato di Berlusconi. A Roberto per anni ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato». Poi ci fu il mea culpa plateale e la riammissione.
Per questo ora la sua strategia sarà improntata alla cautela. Non c’è fretta. Ci sono da celebrare i congressi «nazionali»: il 3 giugno la Lombardia, poi il Veneto e gli altri. Lì ci si conterà. Poi, a ottobre, il Federale, il primo dal 2002: «Al congresso — dice Maroni — sceglieremo il nuovo segretario e la strategia per le eventuali alleanze». Lì si arriverà con un candidato unico perché la Lega resta pur sempre, definizione di Maroni, «l’ultimo partito leninista d’Italia».
Per scrollarsi di dosso l’etichetta ingiusta di «giuda», Maroni ieri ha proposto la ricandidatura di Bossi. Poco dopo lo ha visto da solo: «L’ho trovato triste, sconsolato: Umberto si è sentito raggirato, ancora di più perché chi lo ha fatto fa parte della famiglia. Che abbiano agito a fin di bene, è tutto da stabilire. Ma certo, lui non ne sapeva nulla».
Molti, in realtà, lo avevano avvertito. Ma Bossi non voleva o non era in grado di reagire. Ora questo sistema si è sfaldato. E Maroni sembra l’unico in grado di ricomporlo: «Nella Lega non ci sono diverse visioni politiche: c’è solo chi si è approfittato del movimento e chi ha lavorato onestamente per il suo bene». In serata l’ex ministro commenta su Facebook: «Oggi per noi è il giorno della passione e del dolore, ma da domani si riparte. La Grande Lega è tornata più forte di prima».
Alessandro Trocino

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Anna Gandolfi
Le dimissioni di Bossi sono un «atto d’amore verso la Lega». L’accusa di aver ricevuto denaro dall’ex tesoriere Francesco Belsito? «Non esiste». Roberto Calderoli parla al telefono dalla sede di via Bellerio.
Respinge le accuse?
«Contro di me non esistono accuse. Sono andato a vedere le intercettazioni: niente in cui sia io a parlare. Gli unici soldi che possono essere riferiti a me sono quelli utilizzati per le attività del movimento o a titolo di rimborsi. Tutto alla luce del sole».
Sulla Lega si è abbattuto uno tsunami.
«Onore al merito, quella di Bossi è stata una decisione pesante. Ma, da parte mia, assolutamente condivisa».
Sta accadendo a voi ciò che avete spesso imputato ad altri partiti.
«Le dimissioni di Bossi dimostrano che la Lega è diversa».
Il denaro alla famiglia di Bossi. Aveva sentito voci in merito?
«Di voci se ne sono sentite tante. Però no. Non su una cosa del genere...».
Messaggi ai militanti?
«Faremo chiarezza, senza sconti. La frase più bella è di Maroni: ha detto che se Bossi deciderà di ricandidarsi, lo sosterrà. Noi tutti lo sosterremo».
Però la Lega è spaccata. Ne uscirete?
«Abbiamo avuto un problema gravissimo quando Bossi è stato male. Ne siamo usciti allora, ne usciremo anche adesso».
Anna Gandolfi

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Ernesto Menicucci
ROMA — Quelli del «Futurista» sono i più perfidi: «Si è dimesso Bossi? Fuori due», titolano sul web. E, sotto, la foto dell’ex leader leghista e di Silvio Berlusconi. La più «fredda» è Lucia Massarotto, la «lady Tricolore» che esponeva la bandiera italiana in riva degli Schiavoni, a Venezia, e che nel ’97 si beccò da Bossi il famoso «lo metta al cesso»: «La mia lotta non era contro una persona, ma contro idee che non condividevo», dice la Massarotto.
Ma il più addolorato è sicuramente lui, il Cavaliere, l’amico di mille battaglie, l’alleato più stretto: «È un colpo al cuore, una botta», la reazione a caldo. Berlusconi è scosso, teso, «profondamente amareggiato». Con la mente, ripercorre i venti anni passati insieme al Senatur, dalla coalizione del ’94 al ribaltone, fino al legame sempre più stretto degli ultimi anni. Ora, secondo Berlusconi, «niente sarà più come prima, tutto cambierà». Una riflessione «amara» che sfocia nel dubbio, espresso dall’ex premier, che «contro Umberto e la Lega sia stata messa in atto un’operazione politico-giudiziaria: è una vicenda con molte zone d’ombra».
Nel ragionamento del Cavaliere «anche Bossi è finito nel tritacarne della giustizia a orologeria: dietro potrebbe esserci un disegno politico. È un film che conosco bene: dopo di me, ora tocca a lui. Guarda caso a un mese dalle elezioni amministrative».
Da più parti ricorre un’idea, esplicitata dal governatore della Lombardia Roberto Formigoni: «Una notizia destinata a segnare un’epoca. Già da tempo la Lega aveva imboccato il cammino del rinnovamento interno: queste vicende danno un’accelerazione. Il partito continuerà a esistere, seppure nel dramma. Ma ora serve fare chiarezza e portare alla luce la verità». Enzo Carra, Udc, è ancora più netto: «È la fine della Seconda Repubblica».
Il Pdl si stringe attorno all’ex alleato: «Seguiamo il travaglio del Carroccio con grandissima attenzione», dice Fabrizio Cicchitto. Maurizio Gasparri rilancia: «Siamo sorpresi e amareggiati. Ma ci sono altre vicende misteriosamente rimosse, come i presunti finanziatori nella sede udc o le case nella disponibilità di Di Pietro e di altri politici». L’ex ministro Mariastella Gelmini difende Bossi: «Le dimissioni dimostrano la sua buona fede. Questo gesto merita il rispetto, anche da parte degli avversari politici». Secondo l’altro ex ministro Altero Matteoli «senza Bossi la Lega non sarà più la stessa».
Emilio Fede, ex direttore del Tg4 appena rimosso, si chiama fuori: «Troppo facile. Quando un albero cade, tutti fanno legna. Non è la mia filosofia. Per Bossi provo affetto e solidarietà, sono suo amico da una vita, mai come adesso mi sento vicino a lui». L’onore delle armi arriva anche da Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc: «Umanamente mi dispiace per lui: so che è una persona leale, ha la mia stima».
Più gelido il commento dei «nemici». A cominciare da Italo Bocchino, vicepresidente di Fli: «Se si è dimesso, avrà le sue buone ragioni. È un atto, comunque, che va apprezzato». Flavia Perina, deputata finiana, rimarca: «È la fine di un altro partito ad personam». Per Antonio Di Pietro, leader idv «le dimissioni sono un atto dovuto. Il problema è il finanziamento pubblico ai partiti, abbiamo depositato un quesito referendario per abolire la legge». Ma il leader di Sel, Nichi Vendola, spiega: «Capisco il dolore dei militanti. Bisogna avere rispetto per il loro dolore».
C’è anche chi si toglie qualche sassolino dalle scarpe. Come Riccardo Nencini, segretario del Psi: «La recente storia italiana è scandita più dalle inchieste giudiziarie che dalle elezioni. Serve una riforma dei partiti, oppure la nuova stagione nascerà ancora una volta sul fango, segnata dallo stesso populismo che fece le fortune della Lega e di Berlusconi». Ancora più caustico Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista: «Ladroni a casa nostra. Questo dovrebbe essere il nuovo slogan della Lega Nord».
Va all’attacco anche il Pd, con Marco Follini: «Atto dovuto anche se tardivo: mi riesce difficile considerarlo generoso e spontaneo. I tribuni dell’antipolitica altrui si rivelano il più delle volte di gran lunga peggiori dei bersagli contro cui scagliano le loro frecce». Mentre per l’europarlamentare dei democratici Debora Serracchiani «nella faida interna tra leghisti, Maroni non è meglio di Bossi». E Famiglia Cristiana chiosa: «Quasi inconcepibile pensare a una Lega senza Bossi».
Ernesto Menicucci

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Francesco Verderami
ROMA — «Tutti sanno che Umberto ha un’autonomia limitata». È così che Berlusconi difende Bossi. È evocando con umana pietas l’offesa inferta dalla malattia al Senatur, che il Cavaliere si scaglia contro «avvoltoi e benpensanti», contro chi «non vedeva l’ora» di vederlo nella polvere. Ma ricordando le difficoltà fisiche del fondatore della Lega, Berlusconi punta l’indice anche contro «quanti l’hanno circondato in questi anni», e lo hanno «raggirato». Certo, un leader è sempre e in ogni caso responsabile, «ma la prova provata della sua onestà — secondo l’ex presidente del Consiglio — sta nel gesto repentino delle sue dimissioni».
Tuttavia è l’amico, non il politico, che vuole proteggere e difendere, siccome della politica il Cavaliere ormai quasi non si cura, da quando ha lasciato Palazzo Chigi: gli danno noia le riunioni, le folle di postulanti, le telefonate dei dirigenti di partito. E mentre tutti intorno a Berlusconi fremono e si interrogano preoccupati sul futuro, lui — ricordando Bossi — dice che «io e Umberto siamo uomini del passato».
È difficile capire se sia la verità o se invece sia solo una posa per sfuggire alle domande e rendersi sfuggente con le risposte. Di certo Berlusconi sapeva già da tempo che l’«asse del Nord» era finito. «Con Bossi è finita», continuavano a ripetergli in questi giorni molti autorevoli esponenti del Pdl. E il Cavaliere, di rimando: «È finita con la Lega, non con Bossi». È finita l’alleanza, non l’amicizia. Non è un caso se tre giorni fa ha voluto far sentire la sua vicinanza al Senatur, proprio mentre gli dava l’addio: perché quell’elogio del nuovo sistema di voto — fatto al vertice del partito — non era altro che l’epitaffio del sodalizio con il Carroccio.
È vero, di recente si erano sentiti e anche visti in modo riservato, come due amanti che cercano di fare un ultimo tentativo. Ma Berlusconi si era reso conto che non c’era più nulla da fare, «solo parole, qualche promessa, nient’altro». Così il Cavaliere ha deciso di inoltrarsi nella trattativa per la riforma elettorale, una mossa impregnata del cinismo che marca ogni scelta politica, e che a Berlusconi è servita anche per allontanare da sé il ricordo delle cene del lunedì ad Arcore, dove i due — quasi fosse un presentimento — concludevano spesso l’incontro ripetendosi: «Quando cadrai tu, cadrò anch’io». Non sapevano quando né come sarebbe successo, ma erano consapevoli che quel momento sarebbe arrivato.
Ed è anche su questo punto che le strade del Cavaliere e del Senatur si sono divise, perché Bossi non ha saputo fare ciò che invece Berlusconi ha fatto, affidando per tempo la guida del partito ad Alfano. Il leader della Lega, invece, è parso prigioniero anche di se stesso, e alla fine il cambiamento lo ha subito. L’ex premier osserva rattristato l’epilogo del «più fedele alleato», l’oltraggiosa fortuna che accompagna le sue dimissioni dal movimento che ha fondato e di cui incarna oggi il bene e il male.
La preoccupazione diffusa è che il crollo della Lega si possa trascinare appresso l’intero sistema, «c’è il rischio che venga giù la repubblica dei partiti», spiegano nel Pdl. Un timore diffuso in tutto il Palazzo, altrimenti non si spiega come mai ieri l’ABC della politica abbia attuato una manovra difensiva, preannunciando un’intesa bipartisan per una legge che dia trasparenza all’azione e alla vita (e ai bilanci) dei partiti.
Nel centrodestra c’è poi una preoccupazione ulteriore: capire quali saranno le sorti del Carroccio, quale sarà la linea del partito, se e come saprà reggere al ciclone giudiziario, se saprà evitare una spaccatura che sarebbe drammatica, se saprà tenere il consenso, e quali strade prenderanno i voti di chi non vorrà più votare per il Carroccio. Domande in attesa di risposta, mentre tutti si attrezzano per intercettare i leghisti delusi, mentre il Pdl spera almeno di raccogliere i voti di quella «borghesia del Nord» che metteva la croce su Alberto da Giussano.
Ufficialmente confidano che sia evitata una scelta isolazionista, «ci auguriamo — dice il capogruppo Gasparri — che la futura leadership leghista sappia gestire con saggezza questa fase, e che si possano riannodare tra noi e loro i fili di un rapporto». È ovvio il riferimento a Maroni, che potrebbe rappresentare un punto di caduta positivo, visti i suoi legami con Alfano. Il rapporto tra i due non si è mai interrotto, persino in questi mesi hanno trovato il modo di parlarsi e di incontrarsi, sapendo che una loro intesa darebbe corpo alla linea successoria.
Sarà un’impresa complicata, perché dovranno battersi anche contro le profezie dei loro vecchi leader. «Dopo di me sarà il diluvio», disse una volta Bossi. «Dopo di noi non sarà più la stessa cosa», dice Berlusconi. Eppure entrambi, formalmente, fanno ancora mostra di difendere le loro creature politiche, nonostante il Cavaliere in questi giorni abbia voluto difendere l’amico più che il politico. Perché lui sa, e lo dice, che «io e Umberto siamo uomini del passato». Sono i protagonisti di quella Seconda Repubblica che non c’è più.
Francesco Verderami

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Marco Imarisio
MILANO — Adesso che è finita, salgono inevitabili i ricordi. «Tu sei il solito democristiano che non capisce niente».
Seduta inaugurale della tredicesima legislatura, primo governo Prodi, parte finale della frase precedente sottoposta a edulcorazione. Umberto Bossi la accompagnò con un ganascino alla guancia di Bepi Covre, che aveva appena finito di dirgli dove si andava con quella storia della secessione: da nessuna parte.
Alla scena assisteva Giorgio Lago, giornalista, studioso di Nord Est scomparso troppo presto, che coniò per l’imprenditore veneto, allora parlamentare, due volte sindaco di Oderzo, una etichetta destinata ad avere successo, quella di leghista eretico. Con la sua storia, Covre rappresenta quella connessione tra imprenditoria e amministrazione locale che nel Veneto ha creato una specie di laboratorio politico-sociale. Negli anni ha continuato a domandarsi se un’altra Lega fosse possibile. Ma oggi neppure la distanza può scacciare la malinconia. «Povero Umberto. Ricordatevi che in Italia l’istituto delle dimissioni non risulta molto frequentato. È uscito di scena con dignità».
Detto questo, Covre?
«I tempi erano maturi. Non tanto per l’intervento della magistratura. Anche la Lega rientra ormai nella lista infinita dei partiti italiani nei quali gli elettori non hanno più alcuna fiducia».
Addio a Bossi, addio alla presunta diversità leghista?
«Quel suo "presunta" mi fa un male cane. Lo spartiacque è la malattia. Dopo, Umberto si è circondato di persone non all’altezza, proprio a essere buoni che siamo in Settimana Santa».
E prima dello spartiacque?
«La Lega aveva tre capisaldi indiscutibili: trasparenza, onestà, spirito di servizio. Piaccia o no, la nostra diversità era e doveva restare soltanto questa».
L’ha visto arrivare, il crollo?
«Un mese fa, insieme al sindaco di Montebelluna abbiamo scritto un documento per dire che bisognava cambiare, e subito».
La fretta era giustificata?
«Secessione: zero. Devolution: zero. Federalismo fiscale: zero. Vent’anni di lavoro e nessun risultato. La parte migliore della Lega, quella che sta sul territorio, la piccola e media impresa, le partite Iva, gli artigiani, il nostro localismo, i sindaci, non hanno avuto niente. Solo slogan».
Un problema di linguaggio?
«Non solo. Abbiamo perso la nostra cultura per strada. Era poca cosa, giusto quei tre principi elencati prima, ma erano nostri, erano veri. E servivano, eccome».
Dice Lega ma pensa Liga. Il disastro lumbard mette a rischio l’esperimento veneto?
«Noi veneti ci siamo sempre tenuti distanti dall’estremismo lumbard. Siamo di un’altra pasta. Ma è dal territorio che bisogna ripartire. Da questa generazione di sindaci che costituisce la migliore espressione del leghismo».
Insisto: teme il crollo definitivo?
«Il rischio è palpabile, anche per le nostre piccole realtà virtuose del Nord Est. Sarebbe una beffa atroce, perché noi non c’entriamo nulla con gente come questo Belsito».
Soluzioni?
«Tolga pure il plurale. Ce ne resta solo una. Tornare sul territorio. Tornare a essere quel che eravamo. Questa volta non si tratta di una scelta ma di un obbligo. In fondo è una grande sfida. Tanti pericoli, e qualche opportunità. Possiamo ripartire. Con meno obbedienza cieca, e più autocritica».
Marco Imarisio

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Luigi Ferrarella - Giuseppe Guastella (intercettazioni)
MILANO — Le prime conferme al fiume di parole intercettate nel gennaio e febbraio scorsi tra il tesoriere leghista Francesco Belsito e la responsabile contabile Nadia Dagrada arrivano dall’interrogatorio della testimone e dal contenuto della cassaforte dell’indagato sequestrata dalla Guardia di Finanza milanese: compreso un fascicoletto intestato «The Family», spese sanitarie e scolastiche, multe pagate, l’assicurazione per la casa di Gemonio, un carnet di assegni con sopra la scritta «Umberto Bossi», 20.000 euro di spese per il tutor del figlio Renzo. E così, dopo il via libera della Camera ai pm milanesi del secondo dipartimento Robledo-Pellicano-Filippini, prende corpo quella che i carabinieri del Noe, nel rapporto per i pm napoletani Woodcock-Piscitelli-Curcio, definiscono «la serie di confessioni reciproche» di Belsito e Dagrada nei giorni in cui il tesoriere temeva di essere allontanato dopo i primi scoop sugli investimenti di 7 milioni di rimborsi elettorali in Tanzania: confidenze che «elencano i benefit che da tempo, e tutt’ora, vengono elargiti dalla cassa del partito a favore di interessi privati di Bossi e dei suoi familiari, di Rosy Mauro e di altri soggetti del partito e non». In più i militari valorizzano anche un riferimento della donna al «"nero" che Bossi dava tempo fa al partito», e che ritengono di interpretare come «contante» che «sottende» una «area dell’illecito su cui si sviluppano tematiche corruttive».
«Tutte cose per la famiglia»
Nadia: «Lui (Bossi, ndr) non ha idea del cumulo di spese, fidati, tu gli devi far capire che se questi vanno a vedere quelle che sono le spese, lui e la sua famiglia sono finiti. E poiché si tratta di cose della famiglia, non sono cose che compri tu, perché sono tutte per loro, perché le auto sono per loro, i ragazzi sono per loro, il figlio le spese sono loro, il diploma è loro, i lavori di casa sono loro».
«Sai quanto ho dato a Rosy Mauro?»
Traspare l’irritazione per la vicepresidente del Senato, segretaria del sindacato padano Sinpa e protagonista del "cerchio magico" bossiano, che a loro avviso non avrebbe titolo per fare la morale.
Belsito: «Eh lo so io... Quello che non capisco di lei, che fa ancora la spiritosa».
Nadia: «È convinta non parlerai mai...».
Belsito: «Sai quanto gli ho fatto l’altro giorno alla nera? (soprannome di Rosy secondo i militari, ndr) Quasi 29.000, 29.142 in franchi, eh...Vuoi che ti dica tutti gli altri di prima?».
Nadia: «(...) Perché non porta i conti del Sinpa? Voglio vedere cosa succede».
Belsito: «Per me gli viene un infarto».
Nadia: «Ah beh per forza, non sono usati per il sindacato, quindi...».
Belsito sarcastico: «C’avevamo quei 7.000 iscritti, no?».
Nadia: «Secondo me saranno...».
Belsito: «...pochi».
Il tesoriere si rammarica di non aver tenuto prova delle dazioni di contanti «alla signora», che per i carabinieri è la vice del Senato.
Belsito: «Stavo pensando, i soldi cash che gli ho dato li ho scritti da qualche parte, però quelli come faccio a dimostrare che li ho dati? Non è molto, eh...».
Nadia: «Ma parli della signora?».
«Sì. Eh mi sono fregato io, molte cose son cose riconducibili ma molte cose come faccio a dire che ho pagato?».
Nadia: «Tu non mi ascolti mai, gli assegni devono essere intestati alle fatture da pagare, non con prelievi cash! (...) E l’acquisto, quando hai fatto l’assegno a lei per l’auto e sul certificato di proprietà è scritto "ceduta a zero", era un assegno a lei personale?».
Belsito: «Sì, sì».
Nadia: «Ma di quello c’è copia?».
Belsito: «Eh, quello non ricordo».
L’«operazione urgente» per Rosy
Pochi giorni prima, il 22 gennaio quando è già scoppiato lo scandalo della Tanzania, Belsito al telefono proprio con la vicepresidente del Senato appare però molto più remissivo, e anzi si premura di esaudirne una richiesta a voce e urgente.
Mauro: «Comunque France’, se adesso puoi, ricordati di fare quella cosa che ti ho detto l’altro giorno a voce».
Belsito: «Sì sì, sì sì, certo».
Mauro: «Succinta, così da fare in questo momento, perché dopo non potrai più, perché se no addio».
Belsito: «La faccio adesso diversamente».
Mauro: «Purtroppo è urgente, eh... perché bisogna organizzare tante cose».
Belsito: «Sì sì, tranquilla».
E l’8 febbraio, riassumono i carabinieri, il tesoriere comunica a Rosy Mauro che le ha fatto l’operazione «dalla filiale della Camera dei deputati del Banco di Napoli dove la Lega ha un conto, perché con la Banca Aletti a Genova (quella utilizzata per l’operazione Tanzania) era pericoloso. Mauro si mostra un po’ perplessa, dicendo che forse non era il momento di farla».
Belsito: «Vedi che io non mollo mai».
Mauro: «E secondo te quando si conclude tutto, col rientro (degli investimenti dalla Tanzania, ndr) e tutto?».
Belsito: «Secondo me martedì».
Mauro: «Meno male».
Belsito: «L’operazione, quella tua, l’ho fatta dal Napoli eh...» (Banco di Napoli).
Mauro: «Uhm».
Belsito: «...perché quello lì non viene neanche visto».
Mauro: «Ma non era meglio se lasciavi perdere, visto il momento, prima che dopo...?».
Belsito: «No, ma lì non vanno a vedere su Napoli, figurati. Tutta la malattia ce l’hanno sull’Aletti, cosa pensano di trovare non so».
Le richieste e le somme
I carabinieri ascoltano inoltre Belsito e Dagrada discutere di «altre somme che avrebbe preso "Cald" (diminutivo di Calderoli) e che il tesoriere non sa come giustificare, mentre la segretaria sul punto dice che in un anno si riesce a giustificare quelle somme»: il discorso emerge quando il tesoriere rievoca una richiesta per la scuola della moglie di Bossi.
Belsito: «La richiesta ricordo benissimo era uno (1 milione di euro, ndr)...Gli ho detto "no, 1 non ce la faccio adesso, dovete darmi almeno tre anni"... E invece quelli di Cald, come faccio? Come li giustifico quelli?».
Nadia: «Ma quello non è un grosso problema! Nell’arco dell’anno non è un problema quello, è un problema tutto il resto!».
«Capo, noi manteniamo i tuoi figli»
Belsito e Dagrada indugiano sulle spese per i figli del senatur, a cominciare da Renzo.
Nadia: «Quella cifra che tu gli hai dato era la cifra dei titoli di studio, ma c’è tutto il restante, e se ci mettono le mani i Castelli e Stiffoni di turno, tu non puoi garantire che le cose restino segrete». Si passa a un altro punto.
Belsito: «E’ possibile avere l’elenco degli scontrini? Renzo (dice, ndr) "voglio confrontarmi con il mio calendario per vedere se era vero che erano con me"» (la scorta).
Nadia: «Giuro che non ho parole».
Belsito: «Ma io non posso reggere così, dai, questi sono una gabbia di pazzi. Questo (Renzo, ndr) ha paura che (quelli della scorta, ndr) erano in albergo per cavoli loro».
Nadia: «Ma sono lì segnati, c’è tutta benzina, ristoranti, è quasi tutta benzina».
Belsito: «A me (Renzo, ndr) ha detto che paga di tasca sua, ti giuro».
Nadia: «Ma che non dica cavolate, neanche il caffè in Regione, non paga neanche il caffè» (Renzo è consigliere regionale lombardo
«Renzo portò via le carte da via Bellerio»
I carabinieri accennano forse a un problema di ristrutturazioni in base a questo passaggio.
Nadia: «Per la storia della casa (...) Renzo e la fidanzata sono venuti a prendere tutti i faldoni da via Bellerio (sede della Lega a Milano, ndr) e li hanno portati tutti via».
Negozi, dentista, bollette
La contabile è ricca di richiami a «fatture del dentista di Sirio», altro figlio di Bossi, e alle «bollette del telefono di Renzo».
Belsito: «Riccardo (il primogenito, ndr) mi dà 250.000».
Nadia: «Eh no ragazzo, molti di più, molti di più, tu non hai i vecchi che ho io».
Belsito: «No no, io parlo di quello che ho fatto io, ho fatto solo 2010 e 2011».
Nadia: «Eh...126 uno...».
Belsito: «American Express era, giusto?».
Nadia: «No no, è nei soliti negozi...e poi ce ne sono anche altri ma quelli ce li ho tutti».
Belsito: «Ma cosa gli posso dire?» (a Bossi).
Nadia: «(...) Digli "capo, io ti rammento solo una cosa, che in questi anni io ho dovuto tirare fuori su vostra richiesta, per tua moglie, per Riccardo, per Renzo, delle cifre che se qualcuno va a metterci mano...lui è nei guai". O tuo figlio lo mandavano in galera o c’era da pagare».
Belsito: «Ah, Riccardo (...) Le macchine che ha affittato Riccardo, le Porsche, le cose...».
Nadia: «Esatto. Ma ti diranno "chi ti ha detto di farlo?"».
Belsito: «Lui, eh».
Nadia: «Ho capito, ma ci devono essere le fatture dell’avvocato di Riccardo, tutti i pagamenti!». I carabinieri aggiungono che «Belsito dice che lui sa quali sono i negozi dove sono stati spesi, ma non ha fatture, ha solo i decreti ingiuntivi c0n il timbro dell’avvocato, e ha pagato in contanti perché così gli è stato ordinato, aggiungendo che non le ha pagate tramite bonifico bancario perché Riccardo non fa parte del partito». E Nadia: «Gli affitti glieli paghiamo tutti cash!».
Le elezioni del fanciullo e del trota
Nadia: «Hai le carte di quanto hai pagato?».
Belsito: «Soldi della campagna elettorale del fanciullo e del trota? E no, perché gli davo a lui alla Rizzi e a lei...portavo cash!» (Monica Rizzi è assessore regionale lombarda). E lo stesso per «la casa presa là da Brescia, pagato cash...mi sembra 10.000 euro, 6.000 euro...eh tesoro mio ma come faccio a trovare della Monica Rizzi i giustificativi!».
La moglie e Pontidafin
Gli aiuti alla scuola privata paritaria Bosina di ispirazione padana fondata a Varese da Manuela Marrone, evocano guai.
Nadia: «Digli (a Bossi, ndr): "Poi tua moglie cosa faccio, gli dico di no? Tu mi dicevi di sì" (...) La paura non è quanto speso, ma quanto per i figli e per la moglie, che se lo sanno i militanti...».
Belsito: «Solo la scuola allora te lo ricordi 1 milione e mezzo di mutuo, la Pontidafin? (finanziaria della Lega, ndr) Vogliamo parlare di quel contributo che gli diamo tutti gli anni? Tra i 150.000 e i 200.000?».
Nadia: «Ma difatti tu gli devi dire (a Bossi, ndr) "tua moglie e i tuoi figli ti rovineranno con i costi che hanno". Punto. E che se da te esce fuori qualcosa della famiglia, lui è rovinato, non può dire che non sa (...) Da far capire al capo, "guarda che tu non hai la possibilità di rimediare a tutto quello che è stato dato a tua moglie sia per lei sia per la scuola sia per i tuoi figli", perché sono troppi, troppi soldi».
Ma quali revisori dei bilanci...
In effetti la parola "bilanci" pare un optional.
Nadia: «Ti sto dicendo che io del 2011 ho 670.000 euro non giustificati... toglierò quelli di cassa e però ho già inserito quel discorso... diciamo che io ne ho, toh, fai 400.000 da giustificare (...) Castelli vuole sapere chi sono i revisori, e allora gli ho detto "ma tu sai come funziona?" Lui fa: "No, fammi una nota"».
Belsito: «Ah! Questo qui è scemo. E chi sono i revisori, che non abbiam mai visto manco noi?».
Nadia: «Io. Gli preparo tutto io. Glielo mando e loro firmano, perché i bilanci sono certificati da tre revisori esterni e da tre interni».
Belsito: «Eh, ma pensa te!».
Nadia: «(...) Io gli preparavo tutta la relazione, gliela inviavo e loro non facevano altro che firmarmela, non guardavano un cavolo».

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ALTRE INTERCETTAZIONI (SOLDI A CALDEROLI ECC.)
Fiorenza Sarzanini
ROMA — Nella ragnatela di rapporti che aveva tessuto negli ultimi anni, Francesco Belsito si muoveva con disinvoltura grazie alla gestione dei soldi. E nella sua lista di beneficiari il tesoriere della Lega aveva inserito anche Roberto Calderoli. Le telefonate intercettate e i riscontri effettuati dai carabinieri del Noe per conto dei pubblici ministeri di Napoli — Vincenzo Piscitelli, Henry John Woodcock e Francesco Curcio — svelano quanto fitta fosse questa rete. E consentono di scoprire che Stefano Bonet, l’imprenditore in affari con Belsito e adesso finito sotto inchiesta con lui per riciclaggio, aveva ottenuto commesse anche dal Vaticano mentre il tesoriere trattava un affare con Selex, società controllata da Finmeccanica. Nella lista dei politici in contatto con i due ci sono il parlamentare del Pdl Aldo Brancher che avrebbe ricevuto un contributo di 150 mila euro «per la festa del Garda» e il suo collega di partito Filippo Ascierto, «referente per i problemi con le forze dell’ordine», il leghista Francesco Speroni «che ha fatto il fondo che hai fatto tu con la Tanzania» e Gianpiero Stiffoni, componente del comitato amministrativo del Carroccio indicato dagli investigatori come uno dei destinatari «di rilevanti somme di denaro». Sono le carte processuali a rivelare che cosa sia accaduto all’interno della Lega dopo la scoperta degli investimenti all’estero decisi da Belsito e agevolati da Bonet, la preoccupazione dello stesso Belsito che precisa di poter giustificare «soltanto il 70 per cento delle spese», il ruolo di Roberto Castelli che prima chiede di poter visionare l’intera documentazione contabile e poi avvia un’indagine privata per scoprire come sia stata gestita la cassa.
«Pronto a restituire
4,5 milioni»
Annotano i carabinieri: «Dopo le polemiche sui media per l’investimento in Tanzania s’è creato fermento nel partito e tutti vogliono avere contezza dell’operazione e più in generale della gestione delle risorse del partito, tra questi proprio gli altri due componenti del comitato amministrativo, Castelli e Stiffoni. Proprio Castelli, di fatto, si è fatto portavoce di iniziative volte a "verificare" la regolarità degli investimenti e più in generale dei conti e del bilancio del partito. In questo senso ha avuto diversi contatti — anche riservati — e incontri proprio con Bonet per adottare strategie e acquisire informazioni sull’operazione. In questo Castelli, si è avvalso anche di Lubiana Restaini, già impiegata al ministero dello Sviluppo, e attualmente all’Ufficio legislativo della Pcm. È "vicina" al deputato Pdl Filippo Ascierto, ma soprattutto importanti sono i suoi rapporti con alcuni leghisti (Calderoli, Castelli, Galli, Rivolta) con cui ha un’assidua frequentazione. Ed è proprio la Lusiana che ha creato una serie di incontri, a Como, Milano, Roma, tra Bonet e Castelli per carpire informazioni sull’operato di Belsito e acquisire documentazione e dossier al riguardo dell’operato di Belsito».
È un’attività che il tesoriere del Carroccio cerca di fermare. Al telefono con la segretaria amministrativa Nadia Dagrada li definisce «i due scemi», ma poi è proprio la donna a esortarlo «a parlare con il "capo" Bossi per far allontanare Castelli dal comitato amministrativo ed evitare così controlli sui conti e sulle uscite fatte a favore della famiglia». Belsito non immagina che a tradirlo è stato proprio Bonet. Lo scopre l’8 febbraio scorso quando viene contattato da Dagrada.
Dagrada: Ti sto continuando a chiamare perché è arrivata una raccomandata di Bonet alla Lega Nord Consiglio federale, alla tua attenzione. È stata inviata anche a Castelli e Stiffoni
Belsito: Aprila
Dagrada: iio sottoscritto Stefano Bonet, codice, riferimento all’operazione finanziaria che ha portato al trasferimento di fondi appartenenti al partito Lega Nord sul mio conto corrente personale per la somma di 4 milioni e mezzo, nonché sul conto della società di consulenza cipriota Kris Enterprise per la somma di 1.200.000, con la presente dichiaro, la piena volontà e disponibilità nel collaborare a far rientrare i soldi nei conti del partito e in tal senso mi faccio portavoce della medesima volontà dell’avvocato Scala, amministratore della Krispa. Dichiaro inoltre la sospensione del predetto importo pari a euro 4 milioni e mezzo, non accreditato sul mio conto, ma appunto in sospeso presso la banca di Nicosia».
«Come giustifico
Calderoli?»
Belsito capisce che la situazione sta precipitando e cerca di correre ai ripari. Ma pianifica anche una serie di richieste e ricatti per assicurarsi il futuro: «Mi posso far mandare in Eni, però meglio alla Rai, alle Poste». In realtà è preoccupato di non riuscire a ricostruire ogni spesa e il 26 febbraio si sfoga con Dagrada.
Belsito: Quelli di Cald (Calderoli), come faccio? Come li giustifico quelli?
Dagrada: Ma quello è un... nella cosa che c’hai, quello non è un grosso problema! Nell’arco dell’anno non è un problema quello, è un problema quello di tutto il resto! Però t’ho detto, bisogna fare i conti precisi!
Già da settimane Bonet ha accettato di incontrare alcuni esponenti della Lega, in particolare Castelli. Il primo appuntamento risale al 3 febbraio scorso quando i carabinieri registrano una telefonata tra i due.
Castelli: Signor Bonet, buongiorno è Castelli.
Bonet: Onorevole buongiorno.
Castelli: Senta per l’appuntamento di oggi io le proponevo la sala vip della Sea, potrebbe andarle bene?
Bonet: La Sea, cioè aeroporti
Castelli: Lì a Linate?
Bonet: Linate va bene.
A Bonet viene proposto di incontrare anche Roberto Maroni, ma non se ne fa nulla e lui continua a dialogare con Castelli. E il 22 marzo scorso, parlando con Romolo Girardelli (il procacciatore d’affari indicato come referente della cosca De Stefano che era socio di Belsito), gli racconta l’esito dei colloqui. Annotano i carabinieri: «Bonet riferisce che il partito dopo aver ricevuto la restituzione dei residui dei fondi Tanzania e gli altri soldi da Bonet, vuole coprire Belsito. Bonet poi precisa che farà una denuncia contro Belsito per le tangenti prese da Fincantieri». Effettivamente per anni i tre hanno avuto contatti con numerose aziende per ottenere commesse. Nella lista degli intermediari era stato indicato anche il geometra Marcello Ferraina, candidato per la Lega all’europarlamento, che però precisa «di non aver mai incontrato, né conosciuto Belsito».
Affari in Vaticano
e con Fincantieri
Tra i filoni che saranno approfonditi c’è quello che porta direttamente alla Santa Sede. Nell’informativa i carabinieri svelano che «Bonet e la Restaini collaborano con Andromeda, l’associazione per la sicurezza di Filippo Ascierto, sede anche dell’unità locale di "Polare" (una delle società di Bonet) a Roma. Insieme stanno costituendo a Roma un osservatorio per la pubblica amministrazione da affiancare a "Polare". Dopo vari incontri, insieme a don Pino Esposito, l’arcivescovo Zygmunt Zimoswki e altri soggetti, hanno in atto trattative per vari progetti con le strutture sanitarie del Vaticano e per alcuni investimenti in Paesi dell’Est Europa da realizzare con "Polare". In una telefonata intercettata Bonet dice: "Quello che stiamo facendo sul Vaticano, centoventitremila cliniche nel mondo sotto il controllo del Vaticano che oggi non controlla niente" e dice "facci l’Osservatorio sull’innovazione" e da domani parte"».
Un altro affare trattato dal gruppo fa emergere «il ruolo strategico di Belsito in Fincantieri, il quale per agevolare la società "Santarossa Spa" che produce arredamenti per la casa ed anche per il settore navale veniva pagato regolarmente da questi con la copertura di un contratto di lavoro (ieri con una nota Fincantieri ha smentito di aver mai pagato commesse o tangenti, ndr). Infatti qualche giorno prima Belsito aveva ricevuto altri 15.000 euro da questi. E Santarossa ha riferito di aver tirato fuori più di 1.500.000, di euro nell’ultimo anno per Belsito e per l’amministratore di Fincantieri Giuseppe Bono».
Fiorenza Sarzanini

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PARLA BELSITO
Andrea Pasqualetto
DAL NOSTRO INVIATO
PADOVA — «Mi sono trovato un bonifico di 4,5 milioni di euro sul mio conto di Cipro che ho respinto perché l’ordinante era una novità assoluta, per la cifra e per chi l’aveva disposto, la Lega e non Belsito, mentre io avevo rapporti solo con lui». E si sarebbe pure risentito Stefano Bonet, l’imprenditore veneziano al centro nello scandalo della Lega, perché quel genere di bonifico, con tutti quei soldi, non se l’aspettava proprio. Lo ribadisce al Corriere della Sera dopo averlo raccontato in due interrogatori fiume agli uomini della Dia di Reggio Calabria che lo hanno interrogato lunedì e martedì scorsi a Padova, alla presenza del suo avvocato Franco Giomo. E così, il tesoro della Lega, dopo aver viaggiato per l’Europa, se ne sarebbe tornato mestamente da dove era partito, cioè nel conto corrente della Banca Aletti di Genova intestato alla Lega Nord.
Singolare signor Bonet, le accreditano 4,5 milioni sul suo conto, lei dice no e s’indispone pure, alla Scajola, perché non era stato avvisato...
«Belsito mi ha trascinato in questa cosa senza concordare con me alcuna motivazione, alcuna modalità. Mi sono sentito proprio preso in giro. In quel periodo ero in vacanza in India con la mia fidanzata. Poi, appena rientrato, il 9 gennaio ho detto a Cipro di bloccare tutto e respingere al mittente».
Il motivo?
«Gli accordi erano diversi. Non doveva esserci dietro il partito, ma un soggetto privato perché le eventuali operazioni immobiliari a Cipro e in Tanzania si dovevano fare con lui, Belsito».
Lei è indagato da tre procure. Reggio Calabria le contesta i suoi affari con Romolo Girardelli, ritenuto il referente finanziario della cosca calabrese De Stefano
«Era un mio consulente per la sede di Genova, non sapevo dei suoi legami con la ’ndrangheta. Io faccio sempre un’indagine prima di assumere qualcuno ma sul suo conto non era emerso nulla. Per me Girardelli era l’Ammiraglio. Le ricordo che da me lavorano 80 ingegneri che fanno ricerca».
A proposito di ricerca: la Procura di Milano la indaga per varie operazioni «fantasma» finalizzate a sfruttare la Legge finanziaria del 2007 che prevedeva incentivi fiscali sulle attività di Ricerca e sviluppo
«Le mie non sono attività fantasma. Ripeto: ho ottanta ingegneri alle dipendenze. Dal 2008 a oggi abbiamo lavorato molto allo studio di un modello di innovazione sistemica, che va dal marketing alla Ricerca e sviluppo, per realizzare l’ospedale ideale e la rete d’innovazione collegata. Gli inquirenti se ne renderanno presto conto, avendo fotocopiato 7.500 fogli che lo provano. Mi hanno anche consumato due fotocopiatrici».
L’ex ministro Brancher?
«Lo conoscevo, l’ho incontrato ma non abbiamo mai fatto business insieme. L’ho conosciuto solo lo scorso anno, presentato da Belsito».
Bossi?
«Mai visto».
E la Porsche regalata al tesoriere Belsito?
«Nessun regalo, solo un prestito per alcuni mesi».
In cambio di cosa?
«Di una bella amicizia e, chiaro, di una proficua collaborazione».
Andrea Pasqualetto

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I CONTI DEI FIGLI
Claudio Del Frate
DAL NOSTRO INVIATO
VARESE — Lasciando la sede di via Bellerio e tornando verso casa dopo aver dato le dimissioni, forse Umberto Bossi ieri sera avrà pensato al tempo in cui abitava nel bilocale di Manuela Marrone — che non era ancora sua moglie — alla periferia di Varese con vista sul concessionario della Fiat. Forse avrà rimpianto quella sistemazione modesta visto che nella sua caduta molta sfortuna gli hanno portato questioni legate a case e comodità per i figli. La villa liberty di Gemonio, ad esempio, fu un affare non certo nato sotto una buona stella: la segnalò a Bossi il fidato Giuseppe Leoni. L’immobile proveniva da un fallimento davanti al tribunale di Roma, ma sorsero presto controversie sul prezzo da pagare, circa 400 milioni di lire dell’epoca.
Le vere grane vennero dopo, come ricorda Giuseppe Franzetti, ex sindaco di Gemonio: «Segnalai per due volte Bossi alla magistratura perché aveva fatto lavori senza chiedere la licenza. In entrambi i casi intervenne il prefetto di Varese dicendo che le opere servivano a tutelare la sicurezza dell’illustre personaggio». E le ultime ristrutturazione che sarebbero state pagate con soldi di via Bellerio? «Ho visto che è stato acquistato un terreno adiacente ed è stato realizzato un piccolo parcheggio, poi mi risulta sia stato costruito un ascensore interno. Di altri lavori non sono a conoscenza».
La villa di Gemonio, nel periodo della malattia del Senatur divenne una sorta di sede istituzionale decentrata. Finché non fu affittata una villa a Comerio, a pochi chilometri da Gemonio. Poi c’è la misteriosa casa di Brescia di Renzo, che stando alle intercettazioni telefoniche sarebbe stata pagata sempre con i fondi del partito. Qual è? Di residenze a Brescia il «Trota» ne ha avute almeno tre: molto spesso era ospite di una villa di Monica Rizzi, sua «ombra» nelle trasferte bresciane a Roè Volciano, ma è difficile sia quella a cui si parla nelle telefonate compromettenti. Fonti vicine alla Lega dicono invece che il giovane Bossi inizialmente aveva trovato un appartamento nel centro storico di Brescia, in via delle Grazie; ma essendo in zona pedonale erano sorti problemi di parcheggio per gli amici che lo andavano a trovare e così il neoconsigliere del Pirellone si era spostato nel moderno quartiere di Brescia 2.
Capitolo scuola: l’istituto pagato sempre per Renzo dovrebbe essere il «Bentivoglio» di Tradate; qui il ragazzo ha sostenuto due volte senza successo l’esame di maturità. «La tesina su Carlo Cattaneo poteva anche andare, ma nelle altre materie era stato un disastro» ricordò ai tempi don Salvatore Sciortino, rettore della scuola. Complesso è il capitolo delle auto: Renzo si faceva vedere spesso al volante di un Suv Mercedes con rimorchio per il quad; da almeno un anno era accompagnato da un bodyguard (e anche le intercettazioni fanno riferimento a generiche spese per i «ragazzi», di Renzo). Con un Porsche è stato più volte visto invece Riccardo, il figlio primogenito del Senatur; quanto alle spese legali sostenute dalle casse di via Bellerio a suo favore, potrebbe trattarsi della causa di separazione dalla moglie, con la quale si è lasciato poco più di un anno fa.
Claudio Del Frate

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LA BOSINA
DAL NOSTRO INVIATO ANDREA GALLI
VARESE — Per mangiare, qua mangiano. Menù variegato, ricca è l’alternanza di carne e pesce con bis settimanali rigorosamente dedicati a prodotti locali come polenta e bruscitt, bruscolini di manzo. Si trattano bene, alla scuola della Lega, sognata, fondata nel 1998 e cullata da Manuela Marrone, maestra e moglie di Bossi. D’altronde, per la scuola, le uscite sono contenute (una trentina di insegnanti, totale annuo di stipendi sui 900 mila euro) e le entrate assai generose.
Quando non ci sono le botte di stanziamenti governativi — di due anni fa la pioggia di 800 mila euro nell’ambito della «legge mancia» — , ecco i dirottamenti di altri soldi, tanti tanti altri soldi.
Così raccontano le intercettazioni. Naturalmente tutte falsità, sostengono sdegnate le mamme in attesa di pargoli e ragazzi, fuori da scuola, primo pomeriggio, Varese, nella zona di stadio e ippodromo. La Bosina conta materna, elementare, media e un liceo linguistico. Trecento euro, questo il tariffario pubblicato sul sito internet, di retta mensile. Quattrocento gli studenti. Volessimo fare un gioco, soltanto di rette l’introito complessivo, sempre all’anno, si aggira sul milione e duecentomila euro. C’era bisogno di ulteriori regalini? E se invece il denaro prendesse altre vie?
Classe 1957, presidente della Provincia di Varese, Dario Galli è, anche se precisa di non ricoprire più ruoli effettivi, una delle anime della scuola. «Guardi, non cerchino proprio niente, alla Bosina, non troveranno nulla. È pulita». Un tempo, nell’antica originaria sede, fuori Varese, la scuola era sorretta e sostenuta da un’omonima cooperativa, poi accantonata con il crescere, anzi l’esplodere, della Bosina. Ci sono genitori sicuri che il successo dei figli all’università sarà garantito, «la qualità dei docenti è alta, gli studenti sono seguiti, l’offerta di attività extra è di livello, fra iniziative sportive, corsi di chitarra, doposcuola».
Nell’ultimo bilancio disponibile consultato dal Corriere, quello del 31 dicembre 2010, alla voce «totale attivo» è riportata la cifra di 729.678 euro. Alla domanda, perdonateci ma ci sta, se magari, ecco, con la copertura di questa scuola la famiglia Bossi abbia rubato qualcosa al popolo leghista — come altrimenti dimostrare i trasferimenti di denaro verso la Bosina dei quali parlano Belsito e Dagrada? —, una mamma prende la rincorsa tale è la foga di lanciare un vaffa.
Andrea Galli

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