Nicoletta Picchio – Carlo Dell’Aringa – Giovanni Negri, Il Sole 24 ore 5/4/2012, 5 aprile 2012
3 articoli ART. 18, ALLARME DELLE IMPRESE- L’altolà del mondo delle imprese era arrivato nella tarda mattinata di ieri, dopo il vertice notturno di martedì tra il presidente del Consiglio, Mario Monti, e i leader dei partiti che sostengono il Governo, Pdl, Pd e Udc
3 articoli ART. 18, ALLARME DELLE IMPRESE- L’altolà del mondo delle imprese era arrivato nella tarda mattinata di ieri, dopo il vertice notturno di martedì tra il presidente del Consiglio, Mario Monti, e i leader dei partiti che sostengono il Governo, Pdl, Pd e Udc. Già ieri mattina, prima ancora della conferenza stampa di Monti e del ministro del Welfare, Elsa Fornero, era emerso che la prima versione della riforma, quella presentata nel Consiglio dei ministri del 23 marzo (e cioè il giorno dopo l’incontro con le parti sociali a Palazzo Chigi), sarebbe stata modificata. E proprio sulla parte cruciale dei licenziamenti, in particolare quelli economici. «Siamo molto preoccupati per le notizie che stanno trapelando», hanno scritto in un comunicato congiunto le imprese, Confindustria, Abi, Ania, Alleanza delle coop e le altre organizzazioni che avevano sottoscritto il verbale proposto dal presidente del Consiglio, che concludeva il confronto tra le parti. In particolare proprio per la diversa disciplina per i licenziamenti di natura economica (è stata inserita un’ipotesi di reintegro anche per i licenziamenti economici mascherati, vedi articolo a pag. 13, ndr), scrive il comunicato congiunto, e quella che si sta prefigurando sui contratti a termine, specie per quelli stagionali. «Modifiche inaccettabili», ha messo nero su bianco, in totale sintonia, il mondo delle imprese. Al punto da concludere la nota con un’affermazione dura: se le modifiche dovessero essere confermate, allora si ribadisce come «al Paese serva una buona riforma e che, piuttosto che una cattiva, meglio non fare alcuna riforma». L’altolà, insomma, che aveva mandato in questi giorni la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. Di questi argomenti ha discusso ieri pomeriggio il comitato di presidenza di Confindustria, proprio mentre Monti e Fornero tenevano la conferenza stampa per presentare il disegno di legge. Certo, è stato intaccato il tabù dell’articolo 18. Ma le imprese avrebbero voluto una soluzione più netta, con il reintegro per i licenziamenti discriminatori e nulli e l’indennizzo sul resto. Accettando, per senso di responsabilità, che sui disciplinari venisse introdotta la possibilità di reintegrare il lavoratore. Il Governo, per bilanciare questa retromarcia, ha ridotto le mensilità che le aziende devono pagare come indennizzo, passando dalla forchetta di 15 e 27 mensilità tra minimo e massimo alle 12 e 24 mensilità. Un passo avanti, ma siamo ancora troppo distanti dalle 18 del sistema tedesco, che tra l’altro è il più generoso in Europa. C’è quindi una forte preoccupazione da parte delle imprese: «L’impianto complessivo della riforma già irrigidisce il mercato del lavoro riducendo la flessibilità in entrata ed abolendo seppur gradualmente l’indennità di mobilità, strumento importante per le ristrutturazioni aziendali». Rigidità che trovavano un loro bilanciamento nelle nuove regole della flessibilità in uscita. Le novità di ieri, però «vanificano il difficile equilibrio» e rischiano di provocare un «arretramento» piuttosto che un miglioramento del mercato del lavoro, «rendendo più difficili le assunzioni». A suscitare rabbia e delusione non sono solo i nuovi contenuti della riforma sui licenziamenti, ma anche il fatto che il Governo abbia modificato il verbale di Palazzo Chigi, su cui avevano concordato le parti sociali (e su cui aveva già sondato Pdl, Pd e Udc,), con l’eccezione della Cgil, con un ulteriore vertice politico tra i partiti, e non in Parlamento, la cui sovranità non sarebbe stata messa in discussione. Ora si tratterà di fare un’analisi approfondita del testo, per valutare le modifiche e verificarne l’impatto. E Rete Imprese Italia che ha chiesto al Governo di riconvocare le parti per illustrare la nuova versione. Nicoletta Picchio GUIDA RAGIONATA ALLA RIFORMA– La riforma del lavoro si può dividere in tre blocchi: 1. Flessibilità in entrata; 2. Flessibilità in uscita; 3. Ammortizzatori e politiche attive. In estrema sintesi gli interventi sono diretti a diminuire la flessibilità in entrata e aumentare la flessibilità in uscita (per avvicinare le garanzie di protezione del posto di lavoro nelle varie tipologie contrattuali) ed estendere l’utilizzo degli ammortizzatori sociali a categorie che ne sono attualmente prive. Gli obiettivi finali sono essenzialmente quello di superare la segmentazione del mercato del lavoro che colpisce soprattutto i giovani e quello di realizzare ammortizzatori sociali di carattere non solo universalistico, ma anche "condizionato", cioè condizionato all’impegno dei lavoratori disoccupati di cercare attivamente un posto di lavoro alternativo. Vale comunque la pena ricordare da dove ci muoviamo, ricordare cioè quali sono i nostri punti di partenza e di come essi si sono evoluti nel corso del tempo e di come essi si collocano in un confronto internazionale. Questo è utile per capire quanta strada rimane da fare e le sfide che la Riforma dovrà affrontare. I tre blocchi di tavole, grafici e commenti di questa pagina, servono allo scopo. Viene aumentata la rigidità dei contratti di lavoro che appartengono a quella che in gergo viene ormai definita "la cattiva flessibilità". Si tratta di quei contratti di lavoro autonomo che di fatto non lo sono. Le imprese li usano per pagare più bassi contributi, spesso anche compensi più bassi dei minimi contrattuali nazionali e per avere estrema libertà nella interruzione del rapporto di lavoro. Sono questi i veri precari e la Riforma li individua come quei rapporti che durano oltre un certo periodo di tempo (sei mesi in un anno), si svolgono nei locali dei committenti e godono di un compenso sotto una certa soglia. Se ricorrono queste condizioni, vale la presunzione che si tratta di rapporti di lavoro para-subordinato. Questo è un bel cambiamento perché darà ai giovani che hanno questi rapporti di lavoro di fare riconoscere i loro diritti davanti al giudice. Analoghe norme prevedono una minore flessibilità a favore delle imprese nell’utilizzo dei contratti a progetto. Questi, in caso di un loro utilizzo improprio, vengono trasformati in contratti di lavoro subordinato. Vengono toccati anche alcuni istituti della cosiddetta "flessibilità buona", cioè i contratti di lavoro temporaneo che erano stati introdotti e riformati dal "Pacchetto Treu" e dalla "legge Biagi". Per certi aspetti questa flessibilità viene aumentata dalla Riforma, laddove prevede che il primo contratto a tempo determinato di cui usufruisce il lavoratore assunto, non ha bisogno di essere giustificato da "causali". È completamente libero e questo è un buon passo in avanti. Altri aspetti del contratto a termine vengono però irrigiditi (come l’intervallo di tempo tra un contratto e l’altro) e si prevede anche una penalità pecuniaria in caso di mancata trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Si può capire la buona intenzione di queste norme: quella di favorire i passaggi al lavoro stabile. Ma attenzione all’effetto completamente opposto e cioè quello di indurre le imprese a rifugiarsi nella "flessibilità cattiva". Ricordiamo che tutte le riforme fatte in questi ultimi 15 anni erano proprio dirette a combattere abusi e lavoro nero. Attenzione a non tornare indietro. L’aumento della flessibilità in uscita va nella giusta direzione di correggere le eccessive diversità di protezione del posto di lavoro e di incentivare le imprese ad assumere più giovani a tempo indeterminato. Per quanto non ci si possa aspettare miracoli da cambiamenti dell’art.18 nel caso si dovesse applicare il modello tedesco (come si dimostra nella scheda), va comunque ricordato che un altro aspetto della flessibilità in uscita andrebbe meglio discusso. Si tratta dell’indennizzo, che appare eccessivamente alto. Sono soprattutto alte le 15 mensilità che sono fissate come minimo. In quasi tutti i Paesi l’indennizzo è commisurato all’anzianità di servizio. Un indennizzo corrispondente ad una mensilità per anno di servizio ci avvicinerebbe alle migliori esperienze degli altri Paesi e avrebbe il merito di abbassare di molto il costo del licenziamento dei giovani, una condizione questa fondamentale per incentivare le imprese a trasformare i contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Il grafico a fianco, ad esempio, cerca di rispondere alla domanda: una maggiore flessibilità dei contratti a tempo indeterminato può favorire un minore utilizzo dei contratti di natura temporanea? Il grafico mette a confronto le situazioni nei vari Paesi. La relazione esiste ed è positiva: più protezione è associata a maggiore diffusione dei contratti temporanei. Però il grado di correlazione è modesto e trattandosi di un confronto tra paesi, il risultato va accolto con grande "beneficio di inventario". La riforma degli ammortizzatori rappresenta una utile riorganizzazione che si ispira ai collaudati modelli dei Paesi più sviluppati e anche ad alcuni progetti di riforma che sono stati pensati (e mai attuati) in passato. Il perdurare della crisi e il conseguente fabbisogno di ulteriori risorse ha giustamente consigliato una applicazione molto graduale della riforma. Ciò che manca è una politica attiva degna di questo nome. La Riforma prova a disegnare un modello di Agenzia Nazionale per il Lavoro. Sarebbe l’ideale, ma per farla, occorre mettere d’accordo lo Stato con le Regioni. E il risultato non è scontato. (hanno collaborato Fedele De Novellis, Valentina Ferraris, Marina Barbini - REF-RICERCHE) © RIPRODUZIONE RISERVATA 1 POLITICHE ATTIVE E PASSIVE Predominante la spesa per i sussidi Spendiamo relativamente poco per le politiche per il mercato del lavoro, sia per quelle di carattere passivo (leggi ammortizzatori sociali), sia per quelle di carattere attivo (soprattutto per gli incentivi all’occupazione). Spendiamo molto per i vari tipi di cassa integrazione e meno per i sussidi di disoccupazione. I nostri sussidi di disoccupazione hanno soprattutto una durata limitata. Il grafico mette bene a confronto la nostra situazione con quella di alcuni dei nostri partners dell’area Euro. Sorprende soprattutto il fatto che dopo il primo anno di disoccupazione, il sussidio praticamente scompare. Negli altri paesi il "decalage" è più morbido e anche i disoccupati di lunga durata possono contare in qualche forma di sostegno del reddito. Il fatto è particolarmente grave per il nostro paese che è caratterizzato dalla presenza di una percentuale di disoccupazione di lunga durata che è tra le più elevate nel mondo. La riforma cerca di rimediare parzialmente a queste mancanze. Il sussidio di disoccupazione che viene previsto, durerà per un periodo massimo che sarà superiore all’anno. La durata massima varierà in relazione all’età e alla regione di residenza del disoccupato. La carenza più grave del nostro Paese è in tema di politiche di attivazione. Per quanto si continui a ripetere nei vari provvedimenti legislativi che si sono succeduti in questi anni, che il disoccupato perde il sussidio se rinuncia ad una occasione di lavoro offerta dai centri per l’Impiego, in pratica questo non succede mai. Anche perché i Centri per l’impiego hanno raramente dei posti di lavoro da offrire. Questi Servizi, tranne alcune lodevoli eccezioni, sono completamente estranei al funzionamento del mercato del lavoro. Questo è forse il terreno più importante per fare una seria riforma. © RIPRODUZIONE RISERVATA 2 FLESSIBILITÀ IN ENTRATA Fare luce sulle false collaborazioni Nessuno sa quante siano le partite IVA "fasulle" e le false collaborazioni. La tavola presenta una stima approssimativa delle partite IVA che presentano alcune delle caratteristiche previste dalla Riforma e che dovrebbero comportare una presunzione che si tratti non di lavoro autonomo ma di collaborazioni coordinate e continuative. Ad esempio sono state presi quei lavoratori che, lavorano presso la sede dell’unico committente che hanno. Non è possibile - coi dati Istat - avere informazioni ulteriori e rilevanti ai fini della applicazione della legge. Siamo nell’ordine dei 250 mila circa. È probabilmente una stima per difetto. Si tratta comunque di una consistenza di un certo rilievo e se tutti questi rapporti si trasformassero in lavoro parasubordinato, assisteremmo ad un cambiamento importante della struttura della nostra occupazione. Vi sono poi i lavoratori a progetto che potrebbero esser trasformati in rapporti di lavoro subordinato, quando i lavoratori effettuano una prestazione che sia analoga a quella svolta, nell’ambito dell’impresa committente, da lavoratori dipendenti. Che vi siano differenze importanti negli esiti che si riscontrano nel mercato del lavoro tra collaboratori e lavoratori con contratto a tempo determinato, può essere controllato guardando ai dati relativi alle transizioni e alle probabilità dei lavoratori di approdare ad un rapporto a tempo indeterminato. Per un collaboratore la probabilità di passaggio ad un lavoro alle dipendenze (che può essere anche a tempo determinato) è caduta enormemente in questi anni. Il che significa che sono soprattutto questi lavoratori che stanno pagando il prezzo della crisi. © RIPRODUZIONE RISERVATA 3 FLESSIBILITÀ IN USCITA Norme «rigide»: le scelte nella Ue Tutti gli studiosi di mercato del lavoro utilizzano i dati elaborati dall’Ocse per misurare il grado di flessibilità della legislazione che protegge i posti di lavoro. Nel complesso (prima colonna) la rigidità della nostra legislazione è in media europea. Ma è interessante confrontare gli indicatori di rigidità delle norme per alcuni aspetti dei licenziamenti individuali. Le nostre attuali norme sono abbastanza "market -friendly" e favorevoli alle imprese (valori bassi) per alcuni degli indicatori considerati. Ad esempio la rigidità è molto bassa per la buonuscita che viene concessa a tutti i lavoratori licenziati(che da noi praticamente non esiste, noi abbiamo il TFR che viene concesso a tutti). Siamo molto rigidi invece in tema di periodo di prova (molto breve nel nostro Paese) e naturalmente per la possibilità di reintegro. In alcuni Paesi non esiste questa possibilità e il valore dell’indicatore è zero. Il grado di rigidità attribuito alla Germania per questo indicatore è poco più basso di quello italiano. Adottando il modello tedesco facciamo un passo in avanti verso la flessibilità, un passo comunque piccolo. I dati della tavola (che la stessa Ocse giudica imperfetti) indicano comunque che nel complesso le nostre norme sui licenziamenti individuali non sono molto rigide. Non meglio di noi stanno Spagna , Francia e Germania. Molto meglio di noi, in graduatoria di rigidità, stanno Danimarca e U.K. © RIPRODUZIONE RISERVATA CAUSA SPRINT SENTENZA IN 10 GIORNI - MILANO Tempi stretti, spesso strettissimi. Quattro passaggi giudiziari (al massimo). Un calendario dedicato. Le impugnazioni dei licenziamenti trovano regole processuali su misura con l’obiettivo di accelerare in maniera drastica i tempi delle decisioni senza un abbassamento delle garanzie. Viene così delineato un procedimento particolare che trova, ma solo grossomodo, un modello nella disciplina prevista dal Codice di procedura civile all’articolo 700 per i provvedimenti urgenti o nello statuto dei diritti dei lavoratori per gli interventi di repressione delle condotte antisindacali. Il rito speciale si applica, come annunciato, alle controversie in materia di licenziamenti, compresi però i casi in cui è in discussione, come spesso accade, la qualificazione del rapporto di lavoro. È con questa procedura pertanto che dovrà essere data risposta alla domanda sulla natura del contratto (a tempo indeterminato, a termine, cocopro o altro ancora). La prima fase del giudizio è quella della tutela urgente nella quale il giudice deve fissare l’udienza di comparizione non oltre 30 giorni dalla data di deposito del ricorso. Il giudice può decidere di procedere agli atti istruttori che ritiene necessari, siano stati chiesti dalle parti oppure decisi d’ufficio, ma poi provvede con un’ordinanza ad accogliere o respingere la domanda. L’ordinanza è immediatamente esecutiva. Esecutività che diventa definitiva in assenza di impugnazione. Nel caso sia presentata opposizione si apre la seconda fase, che si svolgerà comunque davanti a un giudice unico e non a un collegio. Entro 30 giorni l’atto va depositato davanti al tribunale che ha emesso il provvedimento; il giudice fissa l’udienza non oltre i successivi 60 giorni (fino a 10 giorni prima è possibile il deposito delle note difensive). Almeno 30 giorni prima il ricorso deve essere notificato dalla parte che si è opposta a quella che "subisce" l’impugnazione. Anche in questo caso il giudice può disporre l’istruzione più opportuna, ma poi, una volta decisa la controversia, questa volta con sentenza, il deposito delle motivazioni deve avvenire entro il termine brevissimo di 10 giorni. A chiudere il cerchio del procedimento le due (eventuali) fasi successive: il reclamo davanti alla Corte d’appello e il ricorso in Cassazione. Tempi stretti anche in questi casi, visto che a fronte degli attuali 6 mesi per presentare l’impugnazione, in caso di mancata notifica, il termine è di 30 giorni per l’appello e di 60 per la Cassazione. Anche nel caso del verdetto di appello il deposito delle motivazioni dovrà arrivare entro 10 giorni, mentre l’udienza di discussione, anche in questo caso tagliando nettamente i tempi oggi previsti, sarà fissata entro 6 mesi al massimo dal momento della proposizione del ricorso. Alle cause in materia di licenziamenti devono essere riservati giorni specifici nel calendario delle udienze e il nuovo rito si applicherà solo alla controversie instaurate dopo l’entrata in vigore della legge. © RIPRODUZIONE RISERVATA IN SINTESI IL PROCEDIMENTO Il rito speciale si applicherà alle controversie in materia di licenziamenti ex articolo 18, compresi però i casi in cui è in discussione la qualificazione del rapporto di lavoro CON IL CRONOMETRO Il nuovo rito punta sulla riduzione dei termini previsti per la fissazione delle udienze e per il deposito delle sentenze da parte dei giudici