Stefano Montefiori, Corriere della Sera 5/4/2012, 5 aprile 2012
PARIGI — C’è
un libro che andrebbe fatto leggere al commesso del grande magazzino quando propone 36 comode rate mensili per lo schermo in 3D, o al dipendente del servizio clienti che chiama per offrire un nuovo abbonamento con sms illimitati notturni, o al bancario che consiglia un fido quando il rosso ha passato il segno. Un libro che dovremmo sfogliare soprattutto noi stessi, quando siamo pronti a ricorrere alle rate e ai finanziamenti perché c’è la lavatrice da cambiare, la vacanza esotica a cui non rinunciare, il nuovo iPad da provare anche se la connessione 4G Lte in Europa non funzionerà mai.
Insolventi! (Bompiani) è uno dei migliori tra le centinaia di libri di denuncia del capitalismo che negli ultimi anni proliferano nelle librerie. Scritto da un anonimo riparato in Asia, sulle rive del Mekong, per sfuggire ai debiti, Insolvables! fece molto rumore quando uscì in Francia, circa un anno fa, perché esprimeva alla perfezione il senso di disgusto, insofferenza e tradimento che molti cittadini provano di fronte alle promesse mancate di un sistema che ha portato alla rovina la Grecia e molte vite personali nell’Occidente sviluppato. Un sentimento diffuso che sta tuttora dietro, in Francia, al successo del politico Jean-Luc Mélenchon, star dei media e dei sondaggi e imprevisto terzo uomo nella corsa all’Eliseo. Come Indignatevi! di Stéphane Hessel a cui esplicitamente allude, Insolventi! è un piccolo pamphlet di poche pagine (96) venduto a basso prezzo (6 euro), ma a differenza del modello vanta una insospettabile qualità letteraria.
Il tema non è nuovo, la rivolta personale contro il consumismo ha precedenti illustri nella cultura pop: dal celebre monologo di Trainspotting — «Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita, scegliete un mutuo a interessi fissi, scegliete una prima casa, scegliete un salotto di tre pezzi a rate etc, etc...» — a quello di Fight Club — «Anch’io, come tanti altri, ero diventato schiavo della tendenza al nido Ikea». Eppure, il filone offre più che mai spunti interessanti.
Un libero professionista sessantenne racconta la sua vita di stenti contemporanei: nessun vero momento drammatico, nessun trauma, ma una lenta discesa nell’inesorabile meccanismo del debito che si autoriproduce, dal primo finanziamento per sanare il rosso in banca al delirio di manovre insensate ma perfettamente legali per assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza in linea con i modelli culturali vigenti, a partire dall’ultimo modello di Sony in soggiorno. Un destino che accomuna molte famiglie e, su scala macroeconomica, interi Stati europei. L’anonimo autore della «lettera di speranza al mondo che ho abbandonato» si rifugia in Indocina nella speranza che i creditori non riescano mai a trovarlo, e se la prende con le banche ma — giustamente — anche con se stesso, per non essere riuscito a dire no, almeno qualche volta, agli acquisti che gli parevano obbligati.
Correva voce, a Parigi, che il pamphlet non fosse stato scritto in riva al Mekong da un inesistente anonimo ma da uno scrittore comodamente seduto nel suo salotto parigino, pronto a romanzare la vicenda per renderla più interessante. Poco male, l’obiettivo è comunque raggiunto. «Anonimo» ha scritto cose giuste o meno, vere o solo verosimili, ma comunque le ha scritte bene.
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