Stefano Lorenzetto, il Giornale 1/4/2012, 1 aprile 2012
LORENZETTO INTERVISTA PATRIZIA AVOLEDO
(direttrice Donna Moderna) -
Il Giornale, domenica 1 aprile 2012
La prima fu Antonella Paternò Rana, 35 anni, riminese di padre siciliano, bellezza rinascimentale, «moglie, mamma e manager», come precisava la didascalia, «un’anima rock in un corpo anni Cinquanta» fasciato da un abito nero di Alberta Ferretti, fotografata da Fabrizio Ferri, il ritrattista ufficiale delle top model e delle dive. L’ultima è Gaia D’Angelo, 18 anni, liceale di Napoli, bellezza mediterranea, occhi verdi e sorriso talmente abbagliante da non far notare che è corretto da un apparecchio ortodontico nell’arcata inferiore, in twin set di lino e pizzo di Daniele Fiesoli Flair, fotografata da Sevim Aslan. Da sette mesi Donna Moderna, il primo settimanale femminile d’Italia (2.710.000 lettori, secondo Audipress), ha deciso di rinunciare alle indossatrici professioniste. Sia in copertina che nei servizi interni posano soltanto italiane comuni: da Gabriella Giovanardi, 19 anni, di Solarolo (Ravenna), studentessa che sogna di diventare magistrata, a Isabel Alessia Benvenutti, 44 anni, gioielliera di Bolzano, per stare alle copertine dell’ultimo mese. Ma anche operaie, infermiere, maestre elementari, farmaciste, albergatrici. Una scelta tanto dirompente quanto coraggiosa, mai vista prima, all’insegna dello slogan «Moda solo con donne vere».
E solo una donna vera poteva osare tanto. Patrizia Avoledo, da 17 anni direttrice del periodico edito dalla Mondadori, rappresenta l’esatto opposto del glamour patinato. Per lei vestirsi su misura non è mai stato un capriccio bensì una dura necessità imposta dall’acondroplasia, una distrofia congenita che ha segnato il suo corpo fin dalla nascita. «Sono passati 60 anni, e posso dirti che è stata dura, soprattutto per la figlia di una coppia molto semplice e priva di mezzi. Però non farmi passare per ciò che non sono: non voglio rappresentare un esempio di vita per nessuno». Papà Pacifico era conducente di tram a Milano sulle linee 29 e 30, «oggi è un bambino di 91 anni, me lo coccolo». Mamma Rosetta, 81, era impiegata all’Enpals ed è rimasta quello che era, «combattente, grintosa», già allora una donna moderna, insomma. Poi c’è Luca, il fratello di 15 anni più giovane, che fa il naturopata e ha studiato per la sorella una dieta rigorosa, imperniata sul brunch, della quale mi sono indirettamente giovato: il colloquio avviene nella pausa pranzo (saltato) in quella che viene chiamata «la foglia», un ramo indipendente, una specie di repubblica delle donne - qui ci sono anche le redazioni di Confidenze e di Wellness, pure diretti dalla Avoledo - del Palazzo Mondadori di Segrate, progettato dal geniale architetto brasiliano Oscar Niemeyer, 104 anni.
Alle spalle della direttrice di Donna Moderna sono appese le fotografie di 18 neonati, «i figli delle mie giornaliste, quando qualcuna di loro chiede di parlarmi mi aggrappo alla poltrona, perché di solito è per comunicarmi d’essere incinta»; gli ultimi che si sono aggiunti sono i due gemelli della caporedattrice centrale Marina D’Incerti. Sulla parete divisoria - siamo in un open space, niente muri, solo mobili - sorridono le copertine, una più sorprendente dell’altra, con le italiane della porta accanto.
I bambini e le lettrici, la sua famiglia. Patrizia Avoledo vive in questa casa (incidentalmente editrice) da oltre 40 anni. Vi entrò come centralinista per mantenersi negli studi, prima alla Cattolica e poi all’Università di Padova, dove s’era iscritta per laurearsi in psicologia. Cominciò nella sede storica di via Bianca di Savoia, nel cuore di Milano. «Ho fatto in tempo a lavorare per Arnoldo Mondadori. All’epoca le telefonate interurbane passavano tutte dal centralino. Quando s’illuminava il pulsante rosso della sua linea, venivo colta dal panico, avevo il terrore di non capire le richieste del presidente». Finché, trascorsi quattro anni, non s’accorse di lei Anna Lovise, manager alla direzione del personale. «Mi disse che aveva intravisto in me qualcosa, ma non sapeva che cosa». Bei tempi, quelli, in cui nelle aziende si coltivavano i talenti. La Lovise le propose di trasferirsi dal centralino all’ufficio acquisti. «Accettai. Due anni e mezzo a comprare macchine per scrivere, pennarelli e carta igienica per tutte le redazioni». Poi il grande salto: ufficio del consulente editoriale Vittorio Sereni, scrittore e poeta, primo direttore della collana I Meridiani. «Sono stata la sua segretaria. Arrivavano tutti i manoscritti degli esordienti. Mi ricordo una giovanissima Barbara Alberti in gonnellona a fiori».
La prima collaborazione giornalistica fu con Duepiù, mensile Mondadori dedicato alla coppia e all’educazione sessuale, dove conobbe Cipriana Dall’Orto, oggi sua condirettrice, amica del cuore da oltre 30 anni. Alla guida di Duepiù c’era Maria Pia Rosignoli, una signora dal tratto aristocratico che aveva inventato l’«inserto chiuso», fascicolo centrale sigillato in cui si trattavano le tematiche scabrose. «Nel tempo libero davo ripetizioni a una bambina con problemi scolastici e come articolo d’esordio la Rosignoli mi chiese di trasformare questa mia esperienza in un diario che fosse utile ai genitori. Le portai il pezzo. Lo lesse. “È scritto benissimo”, concluse. “Sembra una tesi universitaria. Perché non provi a riscriverlo?”».
Grande scuola.
«A me non importava nulla di fare questo mestiere. Volevo diventare sindacalista, pensa. Quando la Rosignoli decise di scegliere me anziché una delle altre due candidate all’assunzione che erano già giornaliste, nicchiai. Non mi rendevo conto di dare un calcio alla fortuna. Se non ci fosse stata Cipriana a spronarmi... Superata brillantemente la prova scritta per diventare professionista, mi presentai all’orale a Roma senza darmi troppa pena di approfondire la parte giuridica. “Sei una pazza”, mi rimproverava la Dall’Orto in treno, “perché non hai studiato di più?”. Ma io sapevo come vanno queste cose. Infatti appena entrata nella sede degli esami, mi corse incontro un commesso: “Lei è Patrizia Avoledo? Dicono che sia una donna molto intelligente”. Capisci?».
Il pregiudizio alla rovescia.
«Esatto. C’è il pregiudizio di chi ti commisera con lo sguardo. Ma anche quello di chi ti giudica intelligente a prescindere, per darti il contentino. Da bambina ci soffrivo molto. Ora ci ho fatto l’abitudine».
L’esame come andò?
«E me lo chiedi? La commissione mi diede persino la lode e un registratore dorato come premio».
In redazione hai 49 donne e appena 7 uomini. Poveretti.
«Ma no, perché dici così? Sono figure importanti, come il vicedirettore Giancarlo d’Adda e l’art director Roberto Porta.
Anche se ogni tanto a d’Adda mi tocca dire: tira fuori la donna che è in te!».
Per quale motivo hai smesso di usare le modelle professionali?
«Venivano tutte dall’Est. Carine. Però manichini. Abbiamo pensato: Naomi Campbell no, Claudia Schiffer nemmeno, che cosa possiamo aggiungere di nuovo a Donna Moderna dopo 17 anni? Ci siamo guardate attorno. Per strada s’incontrano tante donne normali e bellissime. Magari hanno un naso importante, però piacciono. Abbiamo scelto loro. È stata una rivoluzione culturale».
Non scomoderei Mao, e tuttavia sì. Altrimenti oggi non mi troverei qua.
«Sapessi quante telefonate ho ricevuto dai piani alti quando ho messo in copertina una sessantenne, Marcella Meini, fioraia di Rosignano Solvay, fotografata in vestito di Chanel da Fabrizio Ferri».
Ti sarai salvata facendo notare che stai risparmiando sul borderò.
«Eh, magari! Hai idea di quanto costa un servizio fotografico di Ferri? Ha lo studio a New York e da là non si muove. Abbiamo dovuto mandare la signora Meini in America con una nostra troupe».
Ma Gaia D’Angelo costa senz’altro meno di Gisele Bündchen o Kate Moss.
«Mai usate. E alla studentessa di Napoli, così come alle altre modelle improvvisate, non diamo un euro. Però le spese di trasferta e il soggiorno in albergo bisogna pur pagarglieli».
Fino a ieri che taglia dovevano avere le modelle di Donna Moderna?
«Dalla 38 alla 40. Adesso dalla 40 alla 48. Gaia ha dei bei fiancotti. Abbiamo rotto un tabù nel mondo della moda: le italiane presentate per come sono, non per come si vorrebbe che fossero, cioè anoressiche».
Fai concorrenza al concorso di Miss Italia.
«È una bella sfida. Abbiamo aperto un sito per le selezioni, www.casting.donnamoderna.com. Il reclutamento è avvenuto anche nelle fermate dell’Atm a Milano o fra le passanti di Genova, Salerno e Palermo. Per l’8 marzo abbiamo organizzato un défilé nella stazione Garibaldi della metropolitana milanese: donne dai 16 ai 63 anni, tutte vestite di giallo mimosa, metà delle quali extracomunitarie, l’ultima all’ottavo mese di gravidanza. Emozionante. E sono andate in passerella anche alle sfilate dell’alta moda, una per ogni regione d’Italia».
Ma gli stilisti come l’hanno presa?
«Ci hanno fornito gli abiti. Tutti tranne uno. Non farmi dire il nome. So che Donatella Versace invece ha apprezzato».
E se resti senza materia prima?
«Scherzi? Potrei farci un quotidiano. Ho volti di scorta per anni».
Potresti utilizzare anche le tue giornaliste, visto che sono già a libro paga.
«Due segretarie hanno posato in servizi di bellezza: Gaia Recalcati per il collo e Raffaella Magazzino per le mani. Vedi quella ragazza?». (Indica una delle copertine appese al mobile divisorio).
Molto avvenente.
«È Federica Esti, 30 anni, di Monza. Una nostra grafica».
Che cosa induce le donne a esibirsi?
«Siamo tutti un po’ vanitosi, no? Qualcuna lo fa per gioco. Qualcun’altra spera, in questa crisi nera, che la copertina possa schiuderle un’occasione di lavoro. Conta l’autostima: io valgo, dunque ci provo».
Dell’inconsistenza umana una volta si diceva: «Tutta apparenza». Oggi sembra esserci un solo modo per esistere: apparire. È l’era dell’apparenza, appunto. Quindi dell’inconsistenza.
«Sono d’accordo. Tutto questo velinismo... La Tv trash crede di poter raccontare qualsiasi cosa, non lascia nessun sentimento al riparo dai riflettori, ha convinto la gente che per diventare famosi basti litigare in diretta fra padri e figli».
Però non è che siano proprio tutte delle sconosciute, le tue modelle da copertina: Antonella Paternò è moglie di Gianluca Rana, presidente di Confindustria a Verona e nuora di Giovanni Rana, il re dei tortellini.
«Non s’è certo autocandidata. Anzi, era molto titubante. La notte prima del servizio fotografico mi ha spedito una mail perché non riusciva a prendere sonno».
Sbaglio o non ho mai visto sulle tue copertine una donna nera?
«Non sbagli. Magari la vedrai presto».
Francesco Cevasco, direttore di Eva, fu licenziato dall’editore Edilio Rusconi perché aveva osato mettere in copertina una modella di colore.
«Di recente abbiamo fatto posare una ragazza indiana di Firenze, adottata, molto carina e una donna in carrozzella che lavora nella sede Rai di Milano. Figurati se proprio io posso farmi condizionare dalla diversità. Ma non deve nemmeno diventare un obbligo, come timbrare il cartellino».
Le mannequin di Intimissimi fanno vendere più reggiseni perché sono perfette per gli uomini o perché indossano biancheria gradevole per le donne?
«Perché fanno scattare l’identificazione con un modello pubblicitario. Persino io, quando vedo un bel costume, sarei tentata di comprarlo per diventare come loro».
Il titolo «E Dio... creò il vibratore», nonostante il sommario specificasse che in realtà lo inventò nel 1880 un medico di Londra per curare le donne inglesi affette da malinconia e irritabilità, l’ho trovato di cattivo gusto.
«Un giornale moderno parla anche di queste cose. Chissà perché il piacere sessuale dev’essere sempre peccato e abbuffarsi di cioccolata con panna invece no».
Come mai le donne moderne non fanno più figli?
«Fare figli, e contemporaneamente avere successo sul lavoro, è molto faticoso. Ho caporedattrici con due bambini costrette ai salti mortali. Se gli uomini aiutassero in casa, ci sarebbero più nascite».
Sai dirmi per quale motivo tutti gli spot dei profumi hanno in sottofondo un grammelot di insensatezze francesi?
«Se pensi al profumo, pensi a Parigi. Non per nulla io uso Chanel N° 5, come Marylin Monroe».
Perché le lettrici hanno bisogno di sognare sfogliando pagine e pagine con foto di abiti, scarpe e borse che non possono permettersi?
«La moda è gioco».
La verginità è un valore?
«Secondo me, no. È una scelta personale».
E la fedeltà coniugale?
(Ci pensa). «Mi fa venire in mente il cane. Io credo che sia importante la lealtà. Non mentire e non mentirsi».
Vedi nell’attualità italiana un tuo archetipo di donna?
«Che domanda difficile! Però mi piace molto che il dibattito sul lavoro, un tema considerato prettamente maschile, sia stato guidato da tre donne, Elsa Fornero, Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia».
Stefano Lorenzetto
LORENZETTO Stefano. 55 anni, veronese. È stato vicedirettore vicario del Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café per la Rai. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Ultimo libro: Visti da lontano.
LORENZETTO Stefano. 55 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto, Il Vittorioso e Visti da lontano i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.