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 2012  aprile 04 Mercoledì calendario

4 articoli – ANTINOO. LA RELIGIONE DELLA BELLEZZA - Statue e busti, rilievi e medaglioni, monete e gemme: sono una cinquantina i pezzi esposti nella mostra dedicata ad Antinoo, il ragazzo amato per sette anni da Adriano e annegato nel Nilo durante un viaggio in Egitto al seguito dell’imperatore

4 articoli – ANTINOO. LA RELIGIONE DELLA BELLEZZA - Statue e busti, rilievi e medaglioni, monete e gemme: sono una cinquantina i pezzi esposti nella mostra dedicata ad Antinoo, il ragazzo amato per sette anni da Adriano e annegato nel Nilo durante un viaggio in Egitto al seguito dell’imperatore. Morte carica di misteri. Tra le ipotesi, la più romantica è quella di Cassio Dione, che suggerisce un sacrificio del giovane per proteggere Adriano, cinquantaquattrenne e ossessionato dall’astrologia, al quale i maghi avevano predetto la morte entro un anno, a meno che un volontario non si fosse immolato al posto suo. Ipotesi ripresa e avvalorata, quattro anni fa, dallo studioso francese Yves Roman nel suo «Adriano» (ed. Salerno). Cassio Dione riporta anche la leggenda più poetica riguardante il giovane efebo scomparso e raccontata da Adriano ai cortigiani: «Disse di aver visto di persona una stella, quella di Antinoo, nata dalla sua anima». Sono alcune delle pochissime notizie sulla vita di Antinoo. Ma hanno affascinato e commosso intere generazioni di artisti, dal 130 dopo Cristo, quando il giovane scomparve nel Nilo e l’imperatore lo fece divinizzare e immortalare in migliaia di ritratti, fino al ventesimo secolo. «La figura di Antinoo, nonostante sia storicamente indefinita se non per quanto riguarda il legame con Adriano, è all’origine di una serie iconografica di eccezionale ricchezza e varietà, tanto da aver costituito sia in Antico, sia nelle riprese dell’Antico, un vero e proprio modello ben noto agli archeologi e riconoscibile anche da parte del più vasto pubblico», fa notare Marina Sapelli Ragni, soprintendente archeologica del Lazio, che ha curato la mostra e il catalogo edito da Electa. La testa di Antinoo, infatti, è caratterizzata da alcuni elementi ben definiti, come si può osservare nella cinquantina di ritratti presenti in mostra: mento arrotondato, bocca carnosa, naso largo e dritto, sopracciglia inarcate verso l’esterno, chioma folta e ricciuta. L’immagine dell’eroe giovane, bello e morto anzitempo. Un’immagine tramandata anche dalla memoria popolare. «A Roma, quando vedono qualcuno dall’aria seria e privo di barba è un console; quando ha una lunga barba è un filosofo; e se è un ragazzo è un Antinoo», scriveva Montesquieu nel suo «Voyage d’Italie», nel 1728. Di lì a poco sarebbe scoppiata nella Città Eterna una specie di febbre di Antinoo che avrebbe contagiato tutta l’Europa. Nel 1735 appare infatti un bassorilievo in marmo raffigurante Antinoo, proveniente da una presunta scoperta durante gli scavi a Villa Adriana. La scultura finisce nella collezione del cardinale Alessandro Albani, che nel 1755 assume come bibliotecario Johann Joachim Winckelmann. Lo studioso tedesco individua nell’arte greca, conosciuta attraverso le copie romane raccolte dal cardinale, la realizzazione dell’ideale assoluto di bellezza. Ma soprattutto esalta il bassorilievo di Antinoo, giudicandolo, per la sua qualità esecutiva, una delle più straordinarie testimonianze del culmine supremo dell’arte «nell’epoca migliore». In virtù di questo autorevole giudizio, calchi del Rilievo Albani divennero richiestissimi dall’aristocrazia europea e la domanda di statue originali di Antinoo diventò così insistente che «le sempre più prolifiche campagne di scavo ne restituirono forse troppi esemplari tutti insieme», come suggerisce Nunzio Giustozzi, uno degli studiosi che hanno compilato il catalogo. Il dubbio su tanti di questi esemplari non è ancora sciolto. Forse per questo i curatori hanno evitato di segnalare accanto alle opere in mostra, la data di appartenenza. Il percorso resta comunque un viaggio nel «fascino della bellezza», come recita il sottotitolo dell’esposizione. I busti di Antinoo raffigurano il giovane bitinio in veste di Apollo, o di Dioniso con tralci di edera tra i capelli, come nel marmo proveniente dal British Museum, o corone di grappoli d’uva, come nel bronzo scolpito nel Cinquecento da Gugliemo Della Porta. In alcune teste si sovrappone l’immagine di Osiride, come in quella proveniente dalle collezioni Chigi oggi a Dresda, o in quella scolpita da un anonimo verso il 1920 e conservata da Franco Maria Ricci. Addirittura il volto antico di Antinoo viene trasformato in quello di un santo o di un profeta, con l’aggiunta di un’ombra di barba e di baffi, incisi sul marmo probabilmente nel medioevo, come è successo alla testa riutilizzata per ornare la cantonata della chiesa degli Innocenti a Pisa. Tra i pezzi più celebri, l’Antinoo Farnese, il ritratto bronzeo delle raccolte medicee, il busto in marmo di Palazzo Pitti, restaurato per l’occasione, e quello della collezione veneziana di Giovanni Grimani. Lauretta Colonnelli YOURCENAR E LA LOVE STORY TRA PASSIONE E RISPETTO - «Quando mi volgo indietro a quegli anni, mi sembra di ritrovare l’Età dell’oro». A parlare è Adriano, afflitto da idropisia del cuore e ormai vicino alla morte. L’imperatore ricorda con nostalgia il viaggio in Asia Minore di un’estate lontana. Una sera, durante un incontro letterario, intravede un giovinetto in disparte, dall’aria pensosa e distratta al tempo stesso: ne rimane subito colpito, accosta la sua immagine a quella di un pastore nel cuore della foresta, lo avvicina. Da allora Antinoo diventerà il prediletto dell’imperatore e lo seguirà ovunque come un animale: «Quel bel levriero, ansioso di carezze e di ordini, si distese sulla mia vita». Adriano, che porta via fisicamente il giovinetto dai suoi luoghi, è costretto a subire in realtà il rapimento più profondo, quello sentimentale: il dominatore del mondo viene soggiogato dalla bellezza acerba di Antinoo, dalla sua allegria che si mescolava con l’«indolenza di un cucciolo», dalla sua innocenza, dalla sua «amarezza ardente». Nelle pagine centrali delle sue Memorie di Adriano, Marguerite Yourcenar punta sui risvolti tragicamente romantici della relazione: il potere universale si inchina, fino alla totale prostrazione, di fronte alla bellezza selvatica del ragazzino. Il loro rapporto entra in una cornice bucolica quando Adriano decide di accompagnare il suo giovane amico in Arcadia, dove si lascia possedere dalla forza trascinante del canto mentre osserva le dita del suo compagno muoversi delicatamente sulle corde tese della lira. Ma nonostante le dolcezze reciproche non sarà un amore felice, perché il ragazzino è attratto dalla morte e ogni suo gesto ha il sapore della fine. A suicidio avvenuto (Antinoo a vent’anni sceglie di affogare nelle acque di un fiume egiziano), Adriano si chiede se i rimorsi che lo hanno animato non fossero anch’essi «un aspetto amaro di possesso», un modo per assicurarsi «d’esser stato fino alla fine lo sventurato padrone del suo destino», una maniera per impadronirsi delle responsabilità del ventenne in fuga dalla vita. Perché «avvilire quel raro capolavoro che fu la sua fine»? Lasciargli il merito della sua morte è l’ultimo, necessario, atto d’amore, forse il più doloroso. Paolo Di Stefano L’IMMORTALITA’ COME DONO D’AMORE. SOLO MARILYN PUO’ EGUAGLIARLO - Ognuno di noi, commissionando un ritratto, una scultura funeraria o anche solo incorniciando una fotografia, tenta di rendere immortale almeno il ricordo della persona amata. Nell’antichità si tendeva a eroicizzare il defunto rappresentandolo come atleta o guerriero, fissandolo in un’eterna giovinezza, l’età amata dagli dei. Solo Adriano tentò qualcosa di più: la divinizzazione di Antinoo. L’imperatore, che come tale era immortale, si sentiva forse davvero simile agli dèi i quali, come abbiamo imparato dalle storie del mito greco da lui molto amate, potevano offrire la vita eterna ai loro amati: accadde per esempio a Ganimede, il più bello dei mortali trasportato in cielo da Giove, o a Orione trasformato in una costellazione da Artemide. L’immortalità come pegno supremo d’amore, dunque. Eppure, per diffondere e celebrare il culto di Antinoo, anche Adriano dovette far ricorso all’arte, come tutti gli altri mortali. Solo che l’imperatore, a differenza di chiunque altro prima e dopo di lui, se ne servì in modo così efficace che la statua di Antinoo, grazie alla sua moltiplicazione nel territorio dell’Impero, è quella giunta più copiosamente fino a noi, ancora oggi ammirata. Non solo: con l’Antinoo, secondo Bianchi Bandinelli «per l’ultima volta nell’Antichità fu creato un nuovo tipo di statua atletica secondo i canoni della scultura classica» e per Jocelyn Toynbee, questa statuaria morbida e con una forte connotazione coloristica per i contrasti fra levigatezza delle carni e chiaro scuro dei capelli, fu l’ultimo capitolo dell’arte greca classica. Pochi altri sono riusciti a fare tanto per i loro amati. A parte poesia e letteratura che a partire da Elena e Paride sono state più efficaci nel rendere immortali gli amanti, nelle arti visive bisogna aspettare, e non ne siamo nemmeno sicuri, fino a Botticelli che nella Venere, secondo alcuni, avrebbe dipinto le fattezze di Simonetta Vespucci, la bellissima fanciulla amata da Giuliano de’ Medici, morta di tisi a soli ventitré anni e ritenuta dai suoi contemporanei la più bella donna vivente. Leonardo dipinse Cecilia Gallerani (la Dama con l’ermellino) per Ludovico il Moro, pazzo per la giovanissima amante al punto da non riuscire ad allontanarla nemmeno con l’arrivo a corte della sposa legittima, Beatrice d’Este. Sembra che alla fine fu un errore di galanteria a porre termine a quel ménage à trois: Ludovico regalò lo stesso abito all’amante e alla moglie che, offesa a morte, ottenne finalmente l’allontanamento di Cecilia. Raffaello riuscì a omaggiare la sua amante, la Fornarina, un maggior numero di volte ma, a differenza di quanto fece Adriano, sempre sotto mentite spoglie o per allusioni, come nel celebre ritratto firmato da Raffaello sul bracciale di colei che forse aveva sposato segretamente. Possiamo ammirarne il volto di tipica bruna mediterranea, con i tratti a volte più altre meno idealizzati, ne La Velata, nella donna della Trasfigurazione e dell’Incendio di Borgo, nella musa Clio nel Parnaso, nella Maddalena nell’Estasi di santa Cecilia, nella Madonna Sistina e in quella della seggiola, nella Psyche e nella Galatea della Farnesina. Considerate le tante riproduzioni, sia antiche che moderne, delle opere di Raffaello è dunque probabile che la Fornarina abbia superato le immagini di Antinoo diffuse in tutto il mondo antico, anch’esse attraverso repliche. Lo stesso si può ipotizzare per i due amanti di Caravaggio ritratti in varie vesti, da Bacco a san Giovannino: Mario Minniti e Cecco del Caravaggio, quest’ultimo immortalato anche come Amore vincitore, replicato oltre quarant’anni dopo da un altro genio, Lorenzo Bernini, che ne fece l’Eros dell’estasi di santa Teresa. Nemmeno il divinizzato Antinoo può vantare un simile remake d’autore. Ci sarebbe poi da citare Jane Morris, moglie di William Morris, protagonista di un altro celebre ménage à trois perché amante del migliore amico del marito, Dante Gabriel Rossetti. Costui la ritrasse così spesso che i tratti di lei, idealizzati e mescolati con quelli delle modelle precedenti, diventarono la quintessenza del femminino preraffaellita così che, come notava Henry James, era difficile stabilire se Jane ne fosse la copia o l’originale. Anche in questo caso tornano somiglianze con Antinoo la cui bellezza era idealizzata al punto da diventare un canone: Antinoo era come la statua o la statua era una sintesi ideale della bellezza a lui ispirata? Ma nel corso di quasi due millenni, al di là delle moderne icone di culto immortalate anche attraverso il mito del cinema come Marlene Dietrich o Greta Garbo, c’è una sola immagine che può stare alla pari con quella di Antinoo: la Gold Marilyn di Andy Warhol. Anche Marilyn fu l’amante perduta da tutti; anche lei morì giovane nel fulgore della sua bellezza; anche lei si suicidò; anche lei è stata deificata da un culto universale simile a quello tributato ad Antinoo da Adriano. Anche a lei sono stati eretti monumenti e il più celebre fra tutti è la prima delle serigrafie del suo volto, la Gold Marilyn in cui Warhol, nel 1962, la consacrò su fondo oro, come un’icona bizantina. Una bellezza divina e trascendente, fatta per essere ammirata, adorata e per questo serializzata come fu la statua di Antinoo. Francesca Bonazzoli «NON SOLO ADRIANO, ANCHE PER ORAZIO TIVOLI ERA UN PARADISO» - Chiudendo gli occhi, si può vedere benissimo: il verde intenso delle colline, la luce delle acque dell’Aniene, in lontananza una sfumatura montuosa, persa nel cielo. La si può immaginare così la Tivoli del primo secolo avanti Cristo, quando l’imperatore Adriano decise di farne la sede dei suoi ozi extraurbani, trasformando questo borgo alle porte di Roma in una piccola Atene dell’arte, della cultura, della bellezza. Ma Tivoli comincia da lontano. «Adriano non fu il primo a pensare a questo posto come luogo per una villa – dice Salvatore Settis, celebre archeologo e docente alla Normale di Pisa –: già da tempo vi sorgevano residenze di campagna di ricchi possidenti romani. Una di queste è stata attribuita anche al poeta Orazio. Anzi per l’accesso a queste ville si creò una fitta rete di strade, che scorrevano nelle valli a una quota rialzata per evitare allagamenti». Ad attrarre la ricca «borghesia» dell’epoca erano le vestigia della bella e antica Tibur, con il suo silenzio rotto dalle cascate dell’Aniene, la sua piazza porticata, il tempio rotondo detto «della Sibilla» che si affaccia su una roccia come un fedele guardiano. Accorsero, i ricchi. E non solo essi. Accorsero anche pittori e poeti. «Qui arrivarono – continua Settis – centinaia di adepti del Grand Tour. Pochi angoli d’Italia, forse solo il golfo di Napoli, sono stati rappresentati tanto spesso in quadri, disegni, incisioni». Se poi alle vedute aggiungiamo il clima mite, lo snodo importante verso l’Appennino centrale, la posizione vicina a Roma, ecco il segreto di Tivoli e del suo appeal. «Che – spiega il professore – proseguì dopo Adriano. Basti ricordare Villa d’Este, voluta a metà Cinquecento dal cardinal Ippolito d’Este ed opera del napoletano Pirro Ligorio. E Villa Gregoriana, celebre parco pubblico voluto nel 1835 da papa Gregorio XVI». Certo, nell’intersezione di acque e mura, colonne e cielo aperto, villa Adriana spicca quale reliquia di infinito. «L’idea di Adriano – racconta Settis – era di fondere la cultura dei Greci, ormai in decadenza, e quella dei Romani. Il risultato è una straordinaria rielaborazione, un ripensamento di categorie e di stili dell’ellenismo in funzione del gusto romano. Villa Adriana, a cui lo stesso imperatore sembra aver imposto la propria impronta, quasi da grande dilettante di architettura, è così uno dei massimi esempi di integrazione fra architettura e paesaggio». E poi le altre storiche dimore, Villa d’Este con le sue sontuose fontane, i ruderi della Villa di Quintilio Varo, «in amenissima postura sopra vari poggerelli», come riporta una cronaca ottocentesca. La Villa Gregoriana, che accoglie la Grande Cascata. Ospitarono l’eloquio di papa Pio II e del cardinale di Ferrara Ippolito d’Este. Adriano e Franz Liszt, che si ispirò a Tivoli per alcuni brani delle «Années de Pèlerinage». Qui fiorì cultura, secondo il principio oraziano che associava bellezza e sapienza. Anche nei periodi bui della sua storia. «Ma ad ogni periodo negativo seguirono sempre rinascite – dice il professore –: per esempio quando Carlo Magno la donò al papa Adriano I (un altro Adriano!) verso la fine dell’VIII secolo. Altri saccheggi si accanirono, proprio su Villa Adriana, quando essa divenne quasi una cava di statue per i collezionisti di tutta Europa». Ed è storia recente il progetto di un’ulteriore discarica a breve distanza dal sito. La conclusione di Settis è un monito: «La barbarie è tra noi, bisogna combatterla ogni giorno». Roberta Scorranese