Sandro Gerbi, Corriere della Sera 04/04/2012, 4 aprile 2012
LE SALAMANDRE DELL’EPURAZIONE
Credevamo di sapere tutto o quasi sul «lungo viaggio» dei giornalisti italiani attraverso il fascismo, e sull’impossibile convivenza fra libertà di stampa e dittatura. Lo aveva ben spiegato Indro Montanelli sul «Corriere della Sera» nel 1962, replicando con toni autobiografici alla «antologia dell’orrore» (sic Alberto Arbasino) pubblicata proprio allora da Ruggero Zangrandi: «Per la stragrande maggioranza di noi non si pose una scelta fra fascismo e antifascismo, perché questa alternativa non c’era». La «compromissione» era fatale e il distacco complicato, oltre che da valutare caso per caso, senza mettere «tutti in un mazzo», come aveva invece fatto Zangrandi: «C’è chi vi si è deciso prima, e chi dopo. C’è chi l’ha fatto con eleganza, e chi no. C’è chi ha pagato dazio, e chi è riuscito a farla franca. Ma tutti, indistintamente, sono passati attraverso un’abiura».
A gettare nuova luce sui Giornalisti di regime (tra il 1922 e il 1948) ecco ora l’agile saggio pubblicato con questo titolo (Carocci editore, pagine 178, 23) dal quarantenne Pierluigi Allotti, allievo di Emilio Gentile, docente alla John Cabot University di Roma e anch’egli membro della corporazione (TM News). Queste le principali caratteristiche del suo lavoro: da un lato, uno scavo originale, oltre che nella pubblicistica del tempo, in archivi finora mai adeguatamente esplorati; dall’altro, l’assenza del benché minimo alito di riprovazione, se non nelle righe finali, in cui dichiara che in effetti quasi tutti i giornalisti dell’epoca hanno «tradito, consapevolmente o inconsapevolmente, l’essenza stessa della loro professione», ossia il rispetto della «verità».
L’autore fa propria la felice distinzione di Enzo Forcella tra due gruppi di operatori del settore: la generazione dei «padri», già affermati all’avvento del fascismo (Missiroli, Ansaldo, Monelli, ecc.), e quella dei «fratelli maggiori», nati intorno al 1910 e attivi a cominciare dagli anni Trenta (Montanelli, Piovene, Lilli, Gorresio, Barzini jr., ecc.). Ecco dunque un esame, ricco di retroscena, della loro produzione, dei loro rapporti con i vari direttori, delle difficoltà con la censura, dopo la completa fascistizzazione della stampa degli anni Venti.
Enrico Mattei, inviato dalla «Stampa» e futuro direttore della «Nazione e del «Resto del Carlino», al seguito del Duce durante una sua trasferta in Libia, scrive: «Egli è sempre fresco, vivo, attentissimo a quello che si svolge sotto i suoi occhi. Dal suo comportamento spira sempre un senso di sanità, di forza e di quella perenne giovinezza di cui sembra possedere l’invidiabile segreto». Mario Missiroli, dopo la guerra direttore del «Corriere della Sera», nel 1938, al tempo delle «leggi razziali», firma sul «Messaggero», con lo pseudonimo di «Spectator», una recensione indecente (e finora mai a lui attribuita) al Contra judaeos di Telesio Interlandi: «Un ausilio prezioso per comprendere orientamenti e provvedimenti che il Regime adotta e sanziona per il conseguimento dei suoi santissimi fini». Vittorio Gorresio, licenziato dal «Messaggero» nel 1941 perché sospettato di spionaggio a favore della Francia, si appella al Duce, a Celso Luciano (capo di gabinetto del Minculpop) e al ministro Alessandro Pavolini per essere reintegrato (ma non ne farà cenno nella sua bella autobiografia del 1980, La vita ingenua).
Chiude il libro un’inedita storia del fallimento, nel dopoguerra, dell’epurazione (affidata a Mario Vinciguerra) e il resoconto delle ampie discussioni che animarono un periodo con molti processi, poche condanne e un’assoluzione generale dopo l’«amnistia Togliatti» del giugno 1946. Fra le speciose strategie difensive messe in atto dai personaggi più esposti, quella «controfattuale» (ovvero i rischi connessi all’opporsi apertamente al fascismo), le necessità economiche (tengo famiglia), la distinzione tra un’attività svolta prima o dopo la Repubblica di Salò, le ben più gravi responsabilità di altri colleghi e la presunta necessità di arrivare a una pacificazione nazionale, stendendo un velo pietoso su tutto il passato. Per non parlare di un diffuso e opportunistico schieramento a «sinistra» (Piovene). Alla fine, le salamandre del regime tornarono tutte in sella e il risultato fu, con poche eccezioni, una cappa di conformismo che avvolse la stampa italiana fin verso i primi anni Sessanta.
Sandro Gerbi