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 2012  aprile 04 Mercoledì calendario

Siamo soli nell’Universo? È una della domande più affascinanti che l’umanità si sia mai posta

Siamo soli nell’Universo? È una della domande più affascinanti che l’umanità si sia mai posta. Secondo lo scrittore di fantascienza Isaac Asimov, sia la risposta affermativa che quella negativa sarebbero ugualmente sconvolgenti. Per il momento non abbiamo certezze, ma la ricerca di forme di vita al di fuori dalla Terra sta attraversando una fase di grande attività, dopo che negli ultimi anni sono stati scoperti centinaia di pianeti intorno ad altre stelle. Le stime fanno pensare che possano esistere centinaia di milioni di pianeti potenzialmente abitabili nella nostra galassia. Tra chi si occupa del problema c’è Paul Davies, fisico, cosmologo e divulgatore di fama mondiale. È uno dei pionieri dell’idea di «biosfera ombra»: ovvero che possano esistere, sulla Terra, forme di vita microscopiche basate su meccanismi biochimici diversi da quelli noti e con un’origine indipendente. Se ciò fosse dimostrato, aumenterebbero le probabilità che la vita abbia origine facilmente, date le giuste condizioni, e quindi anche fuori dalla Terra. Davies è anche a capo del gruppo che dovrebbe gestire la fase successiva a un eventuale contatto con forme di vita intelligenti da parte del «Seti» (Search for Extraterrestrial Intelligence, ricerca di intelligenze extraterrestri), il progetto che, dagli Anni 60, ha cercato infruttuosamente di intercettare comunicazioni radio provenienti da altre civiltà avanzate. Professore, è l’insuccesso del «Seti» che ha ispirato la sua ultima opera, «Uno strano silenzio»: un capitolo contiene una discussione della famosa equazione di Drake, che serve a ottenere una stima del numero di civiltà avanzate che potrebbero esistere nella galassia. Qual è la sua stima? «Il messaggio del mio libro è che non c’è nessuna base scientifica per arrivare a un numero. Dato che non sappiamo come ha avuto inizio la vita, non abbiamo modo di stimare le probabilità. Si può calcolare una probabilità solo se si conosce il processo che si sta stimando. È possibile che l’origine della vita richieda una concatenazione di condizioni speciali che si sono realizzate una sola volta nell’Universo osservabile e che la vita sulla Terra non sia altro che un colpo di fortuna. È altrettanto possibile che ci sia un “principio della vita” incorporato nelle leggi del cosmo, così che la vita emerga facilmente e sia diffusa. Se c’è un principio del genere, non ne abbiamo ancora trovato alcun indizio. Perciò, dire che l’Universo pullula di vita è un atto di fede. Il mio libro è un appello perché si ottenga tale evidenza, per esempio trovando un secondo tipo di vita qui sulla Terra. Se lo trovassimo, sapremmo che la vita emerge facilmente, non per un colpo di fortuna». Uno dei motivi conduttori del libro è la necessità di abbandonare l’antropocentrismo, quando riflettiamo sulla possibilità di vita nell’Universo. Il concetto si applica anche alla tecnologia. Trovo divertente che pochi decenni fa, nell’improbabile evenienza di un incontro con altre civiltà, abbiamo messo a bordo della sonda «Voyager» un disco fonografico, qualcosa che un adolescente di oggi non saprebbe più come utilizzare! «Sono d’accordo e il problema è evidente: come possiamo andare in cerca di tecnologie avanzate quando non sappiamo le loro caratteristiche? Dobbiamo mantenere una mentalità più aperta possibile riguardo a cosa cercare». Il suo libro discute la possibilità di trovare «vita strana» qui sulla Terra. In effetti, nel 2010, l’annuncio del possibile ritrovamento presso il Mono Lake, in California, di batteri con un metabolismo basato sull’arsenico ha causato eccitazione, ma anche critiche. Lei è stato uno degli autori dello studio su «Science». A che punto sono le ricerche? «I risultati restano controversi. C’è accordo sul fatto che i batteri possano crescere in grandi quantità di arsenico, ma non su dove vada l’arsenico, una volta entrato nel batterio. Siamo in attesa che gruppi indipendenti replichino i nostri risultati». Lei specula sull’eventualità che le più avanzate forme di intelligenza sarebbero, con ogni probabilità, artificiali o semi-artificiali. «Di questo sono assolutamente convinto. Credo che l’intelligenza biologica sarà una fase breve e transitoria nell’evoluzione dell’intelligenza. Già qui, sulla Terra, i computer e le reti fanno la maggior parte del lavoro intellettuale bruto». Crede che avremmo davvero qualcosa di cui discutere con una intelligenza aliena? «È difficile dirlo. Noi siamo guidati dalla curiosità, ma un’intelligenza “progettata” potrebbe non avere questa qualità e non avere alcun interesse a comunicare con noi». Lei dirige il gruppo sulla scienza post-rilevamento del «Seti»: cosa succederebbe il giorno in cui stabilissimo un contatto? «C’è un protocollo di verifiche da fare e di persone da informare. In pratica, però, sarebbe molto difficile implementarlo nella frenesia mediatica che si scatenerebbe. Il mio gruppo di lavoro è pronto a offrire consiglio, se richiesto». La gente è sempre stata molto favorevole al «Seti»: qual è, secondo lei, la ragione della fascinazione? C’è forse un sottotesto religioso? «Sì, ritengo che la ricerca di vita intelligente faccia parte del tentativo dell’umanità di capire in quale modo rientriamo nel grande schema dell’Universo, proprio come fanno le religioni. Ma “Seti” ha le sue radici nella scienza e, quindi, ciò che conta è la ricerca di prove empiriche». Stephen Hawking ha detto che dovremmo temere altre forme di vita nell’Universo, ma lei non condivide le preoccupazioni, giusto? «Credo che fosse un’affermazione sciocca. Se gli alieni volessero la Terra, avrebbero avuto quattro miliardi e mezzo di anni per venire a prendersela. Perché avrebbero bisogno che glielo diciamo noi?». Lo «strano silenzio» che dà il titolo al suo libro è legato alla domanda di Fermi: «Se gli alieni esistono, dove sono?». Lei può immaginare qualche tipo di prova negativa definitiva che ci convincerebbe che siamo soli? «Non credo che potremo mai provare con certezza che siamo soli nell’Universo».