Vittorio Carlini, Morya Longo, Il Sole 24 Ore 3/4/2012, 3 aprile 2012
LA CINA FREDDA SUI BOND EUROPEI
Quando il primo ministro cinese Wen Jiabao si recò in Grecia, nell’ottobre 2010, fece una promessa rassicurante: la Repubblica Popolare sarebbe intervenuta a sostegno delle finanze di Atene. Il 22 dicembre dello stesso anno il quotidiano portoghese «Journal de Negocios» annunciò qualcosa di simile: l’acquisto da parte di Pechino di 4-5 miliardi di titoli di Stato portoghesi. A gennaio 2011 il vicepremier Li Kequiang, in visita a Madrid, promise invece che la Cina avrebbe comprato 6 miliardi di titoli di Stato spagnoli. Ben poco di tutto questo è mai accaduto. O forse nulla. La Cina, più volte invocata come «cavaliere bianco» per l’Europa in crisi, nella realtà si è rivelata più simile a un «cavaliere inesistente»: tanti annunci, pochi fatti.
Dei 3mila miliardi di dollari in mano al fondo sovrano Cic e alla Banca centrale, ben pochi sembrano infatti investiti nei titoli di Stato dei Paesi europei in difficoltà. Non esistono dati certi, ma le stime parlano chiaro. Duemila miliardi – stima uno dei più noti economisti cinesi, Andy Xie – sono impegnati in dollari: principalmente in titoli di Stato e obbligazioni Usa. I restanti mille miliardi sono ripartiti tra tutte le altre valute: yen in primis e solo in secondo piano euro. E, all’interno della moneta unica, i bersagli preferiti sono Germania e Francia. Per gli altri Paesi, giusto le briciole. E dire che Pechino, nei numeri, potrebbe veramente mangiare l’Europa (e indirettamente conquistarla): si pensi che la crescita del Pil cinese in sole 15 settimane crea un’economia pari a quella greca, in 12 settimane pari a quella del Portogallo e in meno di due anni pari a quella italiana.
Eppure, quando si tratta di investire in titoli di Stato dei paesi europei in crisi (rischiando di perdere denari ma guadagnando dal punto di vista dell’influenza politica), la Cina promette tanto ma probabilmente mantiene poco. Per due motivi. Il primo è tecnico: la maggior parte dei titoli di Stato europei sono poco liquidi. Il secondo è invece sostanziale: «Dell’Europa spaventa il fatto che le leggi, soprattutto sul mercato del lavoro, sono troppo complesse – spiega Andy Xie –. Questo frena la voglia di investire: per un investitore cinese non è un problema andare in Australia, in Canada o negli Usa, ma l’Europa è troppo complicata». Sintetizza bene questo concetto Alberto Forchielli, presidente di Osservatorio Asia: «I cinesi sono convinti che l’Europa sia ammalata di welfare state». «Sono interessati a comprare aziende europee – conferma Mattia Nocera, managing director dei fondi Belgrave Capital Management –. Per questo cercano di stimolare i loro gruppi industriali e il fondo sovrano a fare acquisizioni. Però non vogliono titoli di Stato, preferiscono evitare il rischio euro».
In effetti i numeri, quei pochi che esistono, sembrano confermare questa sensazione: le emissioni di debiti statali di Eurolandia sono in gran parte nelle mani degli investitori europei. Secondo l’indicazione di Goldman Sachs, la percentuale è attorno all’85 per cento. Ed è ovvio che sia così: il gestore spagnolo o italiano in cerca di sicurezza è invogliato a comprare più il Bund tedesco che il Treasury statunitense, evitando così l’effetto cambio. Mentre per gli investitori esteri il rischio-euro è ancora troppo grande. Esistono però le eccezioni. I bond emessi fino ad oggi dal fondo salva-Stati Efsf, per esempio, sono finiti per il 32,8% nei portafogli di investitori asiatici. Alcuni addetti ai lavori ritengono che non siano cinesi ma giapponesi, ma altri numeri potrebbero indicare il contrario. Per esempio il fatto che il 37,6% delle emissioni dell’Efsf è stato acquisito da banche centrali e Fondi sovrani. E la Cina, si sa, ha entrambi i soggetti molto attivi. Comunque sia, in mezzo al’opacità degli investimenti cinesi, un dato è certo: Pechino non è il cavaliere bianco dell’Europa in crisi.