Dino Messina, Corriere della Sera 03/04/2012, 3 aprile 2012
ADDIO A BENTIVEGNA, IL PARTIGIANO DI VIA RASELLA
«Recentemente qualcuno ha fatto notare che in via Rasella non c’è alcuna targa commemorativa di un fatto così importante nella storia moderna di Roma. Poco male».
Nel suo più recente libro autobiografico, «Senza fare di necessità virtù — Memorie di un antifascista», pubblicato da Einaudi nel settembre dell’anno scorso, Rosario Bentivegna, morto ieri a novant’anni debilitato dalle conseguenze di un ictus che l’aveva colpito il sedici gennaio scorso, prevedeva con un certo distacco e, forse, con una sorta di sollievo, l’oblio che sarebbe calato su uno dei fatti più controversi nella storia della Resistenza italiana. Studente di medicina, comunista, membro giovanissimo dei Gap (Gruppi di azione patriottica), era stato scelto da Carlo Salinari per il ruolo più rischioso nell’attentato fissato per il 23 marzo 1944, anniversario della fondazione dei fasci di combattimento, contro l’XI compagnia del III battaglione SS Bozen di stanza a Roma che ogni giorno verso le 14 risaliva per via Rasella. Travestito da spazzino, lo studente di medicina spinse sino al luogo fissato un carretto carico di 18 chilogrammi di tritolo e di spezzoni di ferro. Aveva riempito la pipa di tabacco e per tre volte l’aveva accesa ritenendo imminente l’arrivo dei soldati tedeschi. L’attesa durò quasi due ore e il commando di partigiani stava rinunciando all’azione finché un quarto d’ora prima delle 16 si udirono passi cadenzati e inni di guerra. Quando i soldati erano vicini, Bentivegna accese la miccia e a passo deciso raggiunse via del Tritone dove lo aspettava con un impermeabile la sua compagna e futura moglie Carla Capponi. Nell’attentato morirono 33 tedeschi, per rappresaglia dopo una serie di convulse telefonate con Berlino, il comando tedesco decise di uccidere dieci italiani per ogni SS caduto. La sentenza venne eseguita alle Fosse Ardeatine, dove le vittime ufficiali, rastrellate tra i detenuti politici, gli ebrei, i comuni, andarono oltre la cifra stabilita: furono 335.
Bentivegna con i suoi compagni (furono in dodici a partecipare all’azione) si nascose prima in città e poi si diede alla macchia. E per tutta la vita dagli avversari, ma anche da alcuni della sua stessa parte politica si è sentito ripetere che lui e i suoi compagni avevano il dovere di consegnarsi per evitare l’eccidio. Seconda una versione tanto falsa quanto dura a morire a Roma sarebbero stati affissi dei manifesti in cui si invitava i partigiani a consegnarsi per risparmiare le vite di innocenti. Contro questa menzogna Bentivegna ha lottato tutta la vita, vincendo non poche cause perché non ci fu nessun manifesto e la prima notizie delle Ardeatine venne pubblicata sul «Messaggero» del 25 marzo, quando la tragedia era consumata.
La Resistenza per quel ragazzo di famiglia borghese con ascendenze risorgimentali (nell’album di famiglia compariva un colonnello Giuseppe Bentivegna che era con Garibaldi sull’Aspromonte) era cominciata molto prima di via Rasella e si sarebbe conclusa ben dopo l’arrivo degli Alleati a Roma il 4 giugno 1944. Inviato da Togliatti con le Brigate Garibaldi a combattere dalla parte di Tito, Rosario Bentivegna riprese gli studi di medicina soltanto a guerra finita. Fu un brillante medico del lavoro e rimase iscritto al Pci sino al 1985, anche se si dichiarò comunista sino alla fine. Militante pronto all’azione, molto legato a Luigi Longo, fu da questi mandato alla fine degli anni Sessanta a recuperare alcuni dirigenti del partito comunista greco in pericolo di vita sotto il regime dei colonnelli. Un’impresa che Bentivegna condusse al timone di un motoscafo d’altura, con l’aiuto della figlia Elena, avuta da Carla Capponi.
Personaggio scomodo del comunismo italiano (la sua medaglia d’argento venne contestata anche dentro al Pci), memoria vivente della Resistenza romana, Rosario Bentivegna nell’ultimo trentennio non ha mai smesso di raccontare e di difendere la sua versione dei fatti. Lo fece una prima volta nel 1983 con «Achtung Banditen», un volume edito da Mursia che fu elogiato da Renzo De Felice per la mole degli episodi narrati e la precisione delle informazioni. Nel ’96 pubblicò con il giornalista del Corriere Cesare De Simone, «Operazione via Rasella» (Editori Riuniti) e poco dopo accettò il mio invito a confrontarsi con il «repubblichino» Carlo Mazzantini: ne nacque un volume per Baldini & Castoldi, «C’eravamo tanto odiati» in cui la storia della guerra civile italiana, definizione non accettata da Bentivegna, che preferiva «guerra di liberazione», fu raccontata da due punti di vista contrapposti.
Rosario Bentivegna era un uomo colto e aperto, con un grande senso dell’amicizia. Incredibilmente tenace nel sostenere il suo punto di vista, non si tirava mai indietro, come quando ingaggiò un duello intellettuale con il filosofo Norberto Bobbio che aveva definito l’azione di via Rasella un «attentato terroristico». Sostenere la sua verità su via Rasella è stata, possiamo dire, la bussola che lo ha orientato per tutta la vita. Sentiva pietà per le vittime ma ha sempre ritenuto che tutte le sue azioni partigiane, compresa via Rasella, fossero necessarie per ostacolare il transito delle truppe naziste a Roma e quindi interrompere i bombardamenti degli Alleati.
Divorziato da Carla Capponi, Rosario Bentivegna ha vissuto gli ultimi 38 anni di vita con Patrizia Toraldo di Francia. I funerali saranno celebrati mercoledì nella sede della Provincia: «Sa — dice Patrizia — questo Comune non ci piace».
Dino Messina