Pietro Ichino, Corriere della Sera 03/04/2012, 3 aprile 2012
COME APRIRE IL MONDO CHIUSO DEL LAVORO
Caro Direttore,
se in Italia si stipulano ogni anno milioni di contratti di lavoro, e potremmo avere occasioni di occupazione ancora più numerose sfruttando meglio i «giacimenti» oggi inutilizzati (come abbiamo visto nelle due puntate precedenti di questa inchiesta), perché gli italiani hanno tanta paura di questo mercato del lavoro e cercano di tenersene alla larga più di quanto accada nella maggior parte degli altri Paesi industrializzati? E perché la disoccupazione resta così alta e, mediamente, di così lunga durata?
Una risposta alla prima domanda è che quattro quinti degli occupati hanno un contratto a tempo indeterminato, mentre per i nuovi contratti che si stipulano il rapporto si inverte: quattro quinti, o giù di lì, sono a termine. Gli occupati dunque temono, passando da un’azienda a un’altra, di peggiorare la propria condizione di sicurezza. Per aumentare la mobilità dei lavoratori occorre far sì che il contratto a tempo indeterminato torni a essere la forma normale di assunzione. E per questo è indispensabile rendere l’assunzione a tempo indeterminato più appetibile per le imprese, allentando almeno un poco i vincoli oggi fortissimi allo scioglimento del rapporto per motivi economici od organizzativi.
Una risposta alla seconda domanda è data dal diagramma riportato nella figura 1(riferita al 2008; ma il quadro complessivo, per questo aspetto, non è cambiato). Qui i principali Paesi occidentali industrializzati si dispongono su di una diagonale, che mostra la correlazione esistente tra facilità di uscita e facilità di entrata nel tessuto produttivo. In altre parole: dove è più facile passare dallo stato di occupato a quello di disoccupato, è anche più facile compiere il passaggio inverso. Così, per esempio, vediamo in alto a destra gli Usa, dove più di tre occupati e mezzo su cento ogni mese sperimentano la disoccupazione (un dato impressionante: vuol dire che questo accade a 40 occupati su cento ogni anno!), ma dove dalla disoccupazione si esce con grande facilità: ogni mese sei disoccupati su dieci trovano una occupazione. Questo spiega perché la durata media dei periodi di disoccupazione negli Usa sia relativamente breve, a confronto con il resto del mondo.
All’estremo opposto troviamo l’Italia. Qui ogni mese meno di 0,5 lavoratori attivi su cento sperimentano il passaggio alla disoccupazione, ma per converso nello stesso mese meno di 5 disoccupati su cento trovano lavoro. Ne risulta l’immagine di un Paese nel quale il tessuto produttivo è come una cittadella fortificata, da cui chi è dentro difficilmente esce, ma in cui chi è fuori difficilmente riesce a entrare.
Molto vicina all’Italia, in questa diagonale, troviamo la Germania: essa infatti è ben conosciuta come il Paese con il mercato del lavoro più rigido dopo quello italiano (con la differenza, però, di un’economia complessivamente molto più forte e capace di autofinanziarsi). Proseguendo lungo la diagonale verso l’alto, in una zona intermedia troviamo i Paesi scandinavi: quelli dove più che in qualsiasi altra regione del mondo si sperimenta la coniugazione di una buona flessibilità delle strutture produttive con una forte sicurezza economica e professionale del lavoratore. Qui ogni mese fra i 30 e i 40 disoccupati ogni 100 ritrovano l’occupazione; e se si considera che in quei Paesi il sistema garantisce loro un robusto e universale sostegno del reddito nei periodi (mediamente brevi) di disoccupazione, si comprende perché essi accettino un regime di relativa facilità del licenziamento per motivi economici od organizzativi.
Quello che il governo Monti si propone è di incominciare a spostare il nostro Paese lungo questa diagonale, in direzione del modello nord-europeo. Questo spostamento è necessario innanzitutto per evitare che la disoccupazione in Italia assuma il carattere di una terribile piaga sociale, costituendo — come accade oggi — una forma di esclusione permanente dal tessuto produttivo. Ma è necessario anche per evitare che l’abnorme difficoltà di ingresso nel tessuto produttivo ritardi in modo patologico l’emancipazione economica dei giovani dalla famiglia di origine e scoraggi milioni di italiani adulti — soprattutto donne — dall’attivarsi per trovare un lavoro retribuito. Per farsi un’idea del problema, basti considerare che, se le cose nel nostro mercato del lavoro funzionassero come in Gran Bretagna — Paese simile al nostro per dimensioni e per ricchezza —, avremmo circa cinque milioni di italiani in più occupati, di cui quattro quinti donne.
Per la realizzazione di questo progetto, che risponde anche a quanto ci propone l’Unione Europea (molto preoccupata per il livello davvero troppo basso dei nostri tassi di occupazione generale, femminile e giovanile: vedi la tabella numero 2), non bastano la riforma dei licenziamenti e l’istituzione dell’assicurazione universale contro la disoccupazione, contenute nel progetto Fornero. Occorre anche un servizio efficiente e capillare di orientamento scolastico e professionale capace di raggiungere ogni adolescente all’uscita di qualsiasi ciclo scolastico, per fornirgli le informazioni indispensabili per orientare le proprie scelte, che oggi mancano drammaticamente ai nostri ragazzi. Occorre promuovere la domanda e l’offerta di lavoro femminile, con detrazioni fiscali e servizi alle famiglie. Ma occorre, soprattutto, un mutamento della concezione del posto di lavoro nella nostra cultura dominante.
Oggi, in Italia, predomina una concezione «proprietaria», per la quale il posto si può perdere soltanto a seguito di una colpa molto grave, oppure del fallimento dell’impresa. Finché questa sarà la concezione dominante, e a questa corrisponderà la struttura giuridica del rapporto di lavoro e l’orientamento dei giudici, sarà sempre difficile, nel nostro Paese, conquistarsi un lavoro non precario. Anche perché molte delle nostre imprese tenderanno a limitare al minimo indispensabile i «condomini» in casa propria, e le imprese straniere preferiranno investire altrove.
Finché non compiremo questo passaggio, i grandi giacimenti di occupazione aggiuntivi, di cui abbiamo parlato sul Corriere di ieri, rimarranno scarsamente utilizzati.
Pietro Ichino
senatore Pd