Roberto Mania, Affari e Finanza 2/4/2012, 2 aprile 2012
Sindacato, le "centrali" senza qualità a Roma la Triplice perde potere – il milione perduto Dalla metà degli anni Ottanta a oggi sono "scomparsi" circa un milione di iscritti nel settore privato nonostante gli occupati siano cresciuti di circa il doppio
Sindacato, le "centrali" senza qualità a Roma la Triplice perde potere – il milione perduto Dalla metà degli anni Ottanta a oggi sono "scomparsi" circa un milione di iscritti nel settore privato nonostante gli occupati siano cresciuti di circa il doppio. I grafici che pubblichiamo in questa pagina fotografano la "mutazione genetica" del sindacato dal 1978 al 2010. Una fotografia da cui emerge come siano cambiate le roccaforti del sindacato: dall’industria al pubblico impiego, agli immigrati, al commercio, alle costruzioni e ai quasi, infine, 6 milioni di pensionati. Nella foto grande al centro, Raffaele Bonanni, Luigi Angeletti, Susanna Camusso Negli ultimi vent’anni gli iscritti ai sindacati sono aumentati di oltre il 30%. Il tasso di sindacalizzazione in Italia rimane ancora molto elevato intorno al 33%, ben sopra la media europea, superiore a quello della Germania (circa il 20%) e a quello della Francia dove il sindacato non raccoglie oltre l’8% dei lavoratori. Ma i numeri non raccontano affatto la cavalcata vittoriosa di Cgil, Cisl e Uil. Gli 11milioni e passa di iscritti, di cui oltre 5 milioni e mezzo di pensionati, nascondono la silenziosa e strutturale metamorfosi sindacale, parallela a quella dell’economia: meno industria, più terziario, più servizi, più lavoro pubblico. Pochi giovani, tanta mezza età, oltre ai pensionati, ovviamente. Immigrati in crescita. Molto lavoro stabile, poca precarietà. Servizi, a cominciare da quello pubblico dei Caf (i Centri di assistenza fiscale), per garantirsi la stabilità finanziaria (sono milioni di euro quelli che passano dallo Stato e dall’Inps ai sindacati) e pure nuove forme di proselitismo. Luci e ombre nell’attività contrattuale, con il locale che minaccia il predominio storico del nostro contratto nazionale, architrave del potere sindacale di una stagione che fu e che non ritornerà ma che non sostiene più la dinamica delle buste paga degli italiani. Uno specchio del lavoro novecentesco, dunque, che, ancora, il sindacato italiano ben riesce a rappresentare, mentre dimostra fatica a entrare nel secolo nuovo della globalizzazione dove si spostano le imprese, le risorse finanziarie, ma non il lavoro. Più che un declino, una sorta di immobilismo sindacale che fa venire in mente l’incipit di "Una filosofia di sindacato" scritto qualche anno fa dal sociologo Frank Tannenbaum. «Il sindacalismo è il movimento conservatore del nostro tempo. È una controrivoluzione». Perché la prima reazione di ogni sindacalista è sempre difendere quel che c’è. Alzare le barriere difensive, spesso per effetto dalla "sindrome di Pavlov". Si è detto e non a torto che il sindacalista è l’avvocato dei poveri. La doppia caduta recessiva ha accentuato questa funzione. Sarebbe molto peggio in assenza del sindacato. Difficile pensare, per esempio, che senza l’azione di Fiom, Fim e Uilm, il gigante americano dell’alluminio, l’Alcoa, avrebbe potuto accettare di rinviare la chiusura dell’impianto sardo di Portovesme. Eppure c’è un doppio fuoco alzato sul sindacato che ha squadernato le sue divisioni, le sue fragilità, i suoi ritardi, i suoi affanni. E anche il suo deficit di rappresentatività nel processo continuo di frammentazione del lavoro. Il primo colpo è arrivato da Sergio Marchionne, ceo di FiatChrysler, che per la prima volta come ha detto lo storico dell’industria Giuseppe Berta ha portato la globalizzazione «dentro le relazioni industriali». Per il sindacato tutto è stato uno shock, dal quale ancora non si è ripreso. Poi è arrivato il governo dei tecnici guidato da Mario Monti che anziché esaltare la concertazione triangolare (governosindacatiConfindustria), come avevano fatto i governi Ciampi e Dini, cercando nelle associazioni sociali la via del consenso popolare, ha scelto di «supplire» secondo la lettura di Ilvo Diamanti non solo alla politica ma pure alle organizzazioni sindacali e imprenditoriali. Il metodo con cui è stata affrontata la discussione sulla riforma del mercato del lavoro ha davvero chiuso la lunga stagione dei patti neocorporativi degli anni Novanta con lo scambio sottostante tra moderazione salariale e riconoscimento della soggettività politica di Cgil, Cisl e Uil, che anche per questo hanno via via perso aderenze con le trasformazioni indotte dalla globalizzazione (mentre il mondo cambiava, infatti, Cgil, Cisl e Uil "entravano" a Palazzo Chigi). Il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, dunque, ha utilizzato tutte le leve delle relazioni senza sceglierne nessuna: ha perlopiù concertato con Confindustria condividendo gli obiettivi strategici della riforma costruita sullo scambio "indecente" dettato dalla Banca Centrale Europea: meno flessibilità in entrata più facilità di licenziare; ha negoziato con i sindacati e le piccole imprese modificando alcune delle proposte iniziali; ha consultato tutti lasciando però che la decisione finale arrivasse dal governo e non attraverso un compromesso. È un metodo che parrebbe aver ridato centralità al Parlamento che nella vecchia concertazione, invece, finiva spesso per fare da notaio di decisioni prese altrove. Si vedrà. Di certo i sindacati confederali sono stati relegati a rappresentanti di una parte, chiusi nel recinto del lavoro dipendente e dei pensionati, costretti a appellarsi al Parlamento. Schiacciati nella loro tradizionale ambizione di rappresentanza generale. E sconfitti per la seconda volta. Perché prima della vicenda lavoro, c’è quella delle pensioni dove, sulla spinta di un’emergenza finanziaria senza precedenti, il governo Monti ha approvato per decreto e praticamente senza reazione sindacale una riforma delle pensioni che penetra nella carne viva del corpo degli iscritti a Cgil, Cisl e Uil. È il mondo sindacalizzato quello che finirà per pagare più duramente la riforma Fornero. Ci sono pochi dubbi su questo. Basta osservare i dati di una ricerca a campione ancora in itinere elaborata dalla Cgil dove emerge che oltre il 48% (esattamente il 48,47%) degli iscritti si colloca nella fascia di età compresa tra i 38 e i 60 anni (con un picco tra i 45 e i 50), mentre sotto i 35 anni c’è una minoranza del 23,8%, contro il 27,7% degli over 60. Vale per la Cgil ma sostanzialmente non dovrebbe essere diverso per la Cisl, mentre nella Uil la quota di lavoratori attivi si è sempre collocata sopra il 70 % degli iscritti. E allora bisogna andare a guardarlo da vicino l’iscritto ai sindacati. Quasi radiografarlo, per scoprire cosa sta succedendo sotto la pelle del sindacato. Da anni Paolo Feltrin, docente di Scienza della politica all’Università di Trieste, si dedica proprio a questo. Sostiene Feltrin: «L’esperienza italiana appare meno eccentrica e ricalca, a suo modo, la dinamica tendenzialmente depressiva della sindacalizzazione in quasi tutti i paesi occidentali, sia nei suoi punti di forza (pubblico impiego, immigrati, non occupati) sia nei suoi punti di difficoltà (settore privato, nuovi rapporti di lavoro). La performance italiana è comparativamente più positiva grazie ad una maggiore tenuta organizzativa». Resta il fatto, però, che dalla metà degli anni Ottanta a oggi sono "scomparsi" circa un milione di iscritti nel settore privato nonostante gli occupati siano cresciuti di circa il doppio. Sono cambiate le roccaforti del sindacato: dall’industria al pubblico impiego, agli immigrati (solo la Cgil ne ha circa 500 mila), al commercio (dove si incrociano anche professioni intellettuali, non solo manodopera operaia), alle costruzioni (settore nel quale i sindacati, attraverso gli enti bilaterali, erogano anche l’indennità di disoccupazione) e ai quasi, infine, 6 milioni di pensioni. «Affermare che il sindacato abbia cambiato pelle – dice Feltrin – rischia di non essere un’esagerazione». Si è visto in quali direzioni. E, va aggiunto, il grande cambiamento parte del basso, dai territori, lì dove si fanno gli iscritti. È il modello del sindacato incentrato sul fattore nazionale che stenta a tenere il passo. Lo dimostrano le tabelle dell’Ocse sul potere d’acquisto degli italiani. Lo dimostra anche la Banca d’Italia nella sua ultima Relazione annuale: «Il minimo stabilito dal contratto di categoria rappresenta più dell’80% delle retribuzioni percepite sia da operai e apprendisti, sia da impiegati e quadri. Solo il 20,6% delle imprese ha sottoscritto dal 2005 a oggi accordi aziendali integrativi, di cui tre quarti dal 2008». Anche questa è la crisi del sindacato sempre meno – come si diceva un tempo «autorità salariale». Non restano che i servizi. Ma allora è davvero un "altro" sindacato.