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 2012  aprile 03 Martedì calendario

DAL NOSTRO INVIATO

MADRID — José Mourinho, come va a Madrid?
«Benissimo. Siamo in testa alla Liga, abbiamo ottime possibilità di entrare in semifinale di Champions. Va benissimo».
Eppure le critiche non mancano.
«Ci sono abituato, nel mondo del calcio sono criticato se dico bianco o se dico nero, se parlo dopo una partita o se sto zitto dopo una partita. Ogni tanto mi sento perso perché non so che direzione devo prendere: sono sempre criticato, in qualunque caso».
Ci ha fatto l’abitudine?
«Sì, è il mio lavoro, anche se a volte non ho la certezza di essere rispettato».
Chi invece la rispetta?
«Sicuramente i miei giocatori. Sicuramente i miei figli e la mia famiglia».
Come si ottiene il rispetto da parte dei giocatori?
«I calciatori sono persone che hanno tutto. Hanno status. Sono intelligenti. Studiano. Hanno accesso a tutto. Sanno cos’è un allenatore preparato. E sanno anche cos’è un allenatore non tanto preparato. Sanno cos’è un allenatore onesto. Sanno tutto di noi. E penso che il modo per ottenere il loro rispetto sia innanzitutto rispettare loro. E io rispetto i calciatori più di qualsiasi altra cosa nel calcio».
Lei ha allenato e vinto in Paesi diversi. Come ha trasmesso la sua cultura vincente in culture così diverse?
«Prima di tutto bisogna essere un po’ fortunati».
E lei si ritiene un uomo fortunato?
«Molto fortunato, ho avuto la possibilità di lavorare con persone fantastiche».
Parliamo delle sue squadre.
«Io credo che non si possa cambiare completamente la personalità delle persone. Quando entri in una squadra, cerchi di tirar fuori il meglio dalle persone con cui lavori. Quando acquisti un giocatore puoi provare a raccogliere informazioni su di lui, sulla sua personalità, sul carattere, ma comunque devi essere fortunato. Lo conoscerai solo quando ci lavori insieme».
E come sono le persone con cui ha lavorato?
«Fantastiche. Al Chelsea la metà della squadra era africana ed è stato qualcosa di unico: 12 giocatori africani che con 11 europei hanno creato un gruppo fantastico. All’Inter c’erano sette-otto giocatori argentini, una famiglia incredibile. Non ho sentito, non ho mai sentito, assolutamente mai sentito, una famiglia come quella».
Pare che a quel gruppo lei manchi ancora...
«E loro mancano a me».
Come si costruisce un gruppo vincente?
«La cosa importante è comunicare con loro nella lingua locale, spagnolo in Spagna, inglese in Inghilterra, non puoi usare un altro linguaggio. Allo stesso tempo penso che sia buono conoscere diverse lingue per le conversazioni private con i giocatori. Quando sei in privato con loro e non in gruppo, poter comunicare con loro nella loro lingua è davvero importante per riuscire a costruire una relazione diversa».
Lei si sente un vincente?
«Io sono un vincente».
Che cosa la rende Speciale rispetto ad altri allenatori?
«Penso che gli allenatori siano concentrati sulle vittorie, sui titoli, sui risultati. Questo è quello che fa la storia. Negli ultimi dieci anni nessuno ha vinto tanti titoli quanto me, essere speciale è tutto questo».
Le pesa, ogni tanto, il soprannome Special One?
«Non mi sembra un soprannome negativo, quindi...».
...quindi non le pesa, anche perché se lo è dato lei.
«Appunto».
Che cos’ha di speciale, José Mourinho?
«Essere speciali nel calcio significa vincere. La gente dimentica i perdenti. Lo dicevo la scorsa stagione quando abbiamo perso la semifinale con il Barcellona. I tifosi mi dicevano: la gente non dimenticherà mai perché abbiamo perso, il gol annullato a Higuain, i cartellini rossi... E io rispondevo: sì, la gente dimentica. In un paio d’anni la gente non ricorda più che cosa è successo, ricorda solo chi vince. Così se tu puoi vincere devi vincere, e vincere, e vincere ancora. Vincere tutto è impossibile. Ma se lo fai regolarmente, allora quello rimane nella storia».
E come lo è diventato, un vincente?
«Non so. Penso di essere stato competitivo fin da bambino, tutto per me era competizione, anche le cose più semplici. E quando sei in competizione, vuoi vincere. Penso che sia qualcosa con cui sono nato».
Con chi si sente in competizione?
«Sfido me stesso, più di quanto non sfidi gli altri. Cerco sempre di fissare obiettivi difficili, penso di essere sempre in competizione con me stesso».
«Sento il rumore dei nemici...». Se la ricorda questa frase?
«Certo».
Lei ha bisogno di avere nemici per dare il massimo?
«È meglio. Non penso che sia cruciale, ma è meglio. Specialmente quando sei in un momento di successo e hai la tendenza a rilassarti: se tu senti quel rumore, se senti che stanno cercando di approfittare di un tuo momento di difficoltà, questo aiuta. Sì, preferisco averne».
E ne ha molti?
«Attenzione, voglio precisare che la parola nemico non è una parola riconducibile alla mia vita privata: quando dico nemico mi riferisco al calcio. Fin da bambini ci mettiamo in competizione, e anche i miei amici in quel momento sono miei nemici. L’adrenalina è qualcosa di cui il tuo corpo ha bisogno, e per evitare di rilassarsi preferisco che si senta un po’ di rumore di nemici».
A proposito di frasi celebri: vogliamo parlare di «zero tituli»?
(risata) «Parliamone».
Quanto aveva pianificato quell’uscita in conferenza stampa?
«Io pianifico sempre le conferenze stampa. Quando c’è la partita sono focalizzato sulla partita, quando c’è l’allenamento sull’allenamento, quando devo parlare so esattamente quello che devo dire».
Quella frase è diventata un mantra, in Italia. Come è nata?
«Eravamo in un momento cruciale della stagione, potevamo vincere tutto o niente, Roma, Juve e Milan ci inseguivano in campionato. Noi dovevamo giocare la finale di Coppa Italia con la Roma e in Champions eravamo ai quarti, ancora lontani dal vincerla. Avevo bisogno di mettere un po’ di pressione sugli altri e fargli capire che poteva succedere a loro di vincere zero titoli».
Ed è accaduto. Quando si è reso conto di aver creato un tormentone?
«Un paio di giorni dopo la conferenza stampa, arrivo ad Appiano Gentile e al cancello vedo un gruppo di ragazzi che vendeva magliette che mi corre incontro e mi lancia tre t-shirt attraverso il finestrino aperto. ‘‘Mister, mister, grazie’’, mi dicono. ‘‘Grazie de che?’’. Mi mostrano la maglietta con la foto delle manette e la scritta zero tituli e dicono ‘‘ne stiamo vendendo tantissime’’. ‘‘Mi fa piacere’’ ho risposto».
Bei tempi, quelli dell’Inter. Le cose ora sono un po’ cambiate.
«Lo so. Sono il primo tifoso dell’Inter».
Questo lo ha sempre detto. Ha anche detto che l’Inter è la sua casa e prima o poi a casa si ritorna.
«È vero, l’ho detto».
Più di un tifoso nerazzurro spera che questo ritorno sia più prima che poi...
«Se è un modo per chiedermi del mio futuro, rispondo che è un argomento su cui non c’è nulla da dire. Ho altri due anni di contratto con il Real e non ho mai detto che non sarei rimasto a Madrid».
Messaggio ricevuto. Si sente ancora leader di questo Real?
«Assolutamente».
È facile per lei essere leader?
«Più che facile, è naturale per me. È diventato il mio lavoro da molti anni. Quando entro in un centro d’allenamento so chi sono e quello che le persone si aspettano da me. Durante il mio lavoro io so che devo comandare. È qualcosa di naturale, non sento la pressione, devo comandare. E quando sono in vacanza, questa sensazione mi manca».
Lei è diventato un personaggio anche grazie al look, non a caso è diventato testimonial di diversi marchi.
«Io credo che per fare l’allenatore servano capacità, leadership e lavoro. Non si vince per una giacca o un taglio di capelli o una buona capacità di comunicare».
Il suo cappotto è esposto nel museo del Chelsea.
«È una storia divertente. Quel cappotto che avevo indossato per due stagioni, un cappotto Armani, lo avevo messo all’asta per raccogliere fondi per una fondazione che aiutava i bambini malati di cancro, fondazione di cui io e la signora Blair eravamo ambasciatori. Un signore l’ha acquistato, pagandolo un bel po’, e se l’è portato a casa. Poi però si è reso conto che il cappotto non era suo, ma del Chelsea, della storia del Chelsea e ha deciso di donarlo al museo. Ora il cappotto è là, come le scarpe di Lampard o di Drogba. Sono felice di averlo messo all’asta e ancora più felice che quel signore abbia deciso di donarlo al museo».
Il suo è un look costruito?
«Per carità! Non mi interessa vestirmi per gli altri, mi vesto per sentirmi comodo. Mi puoi vedere un giorno con un bel vestito, ben rasato, e un altro giorno quasi come fossi in pigiama, ciabatte e pantaloncini corti. Adidas, magari, la mia marca preferita fin da quando ero bambino. Ho speso un sacco di soldi prima di essere sponsorizzato da loro ed è giusto che adesso loro mi ripaghino con gli interessi. Comunque no, non mi sento un uomo alla moda».
Discute mai negli spogliatoi?
«Capita».
E se dovesse ricordarne una, di discussione, quale ricorderebbe?
«Forse quella con Ibrahimovic, l’unica che ho avuto con lui. È durata 5 minuti. Lui voleva andare al Barcellona per vincere la Champions, io ero arrabbiato con lui e gli dicevo: stai qui e vincila con l’Inter».
Ha avuto ragione lei.
«E mi è spiaciuto per Ibra, perché lui è un giocatore e un ragazzo incredibile, il tipo di ragazzo che adoro, che ha una vita fantastica al di fuori del calcio con la sua famiglia. Lui vive per la famiglia, per il calcio, è un vincente».
I detrattori di Ibrahimovic sottolineano che in Europa non ha vinto nulla...
«Mi spiace che qualche volta le persone si dimentichino che cosa ha fatto questo ragazzo, ha vinto 9 campionati di fila, nessuno deve dimenticarlo. Gli dico questo: è ancora in tempo per realizzare i suoi sogni con la Champions, visto che è l’ultimo trofeo che gli manca».
Ibrahimovic parla soltanto bene di lei, come praticamente tutti i calciatori che ha allenato...
«Io credo che i calciatori sappiano istintivamente se li rispetti. E quando li rispetti, la questione non è giocare o non giocare, se sono titolari o meno. I calciatori sentono che li rispetti. I calciatori devono poter sentire che li spingerai a fare meglio. E quando gli dai questo, il rispetto diventa reciproco».
Sente più responsabilità nel gestire i suoi calciatori o i suoi figli?
«Assolutamente più responsabilità con i miei figli, anche se con loro ho la parte più facile».
In che senso?
«Nel senso che è la mamma a svolgere il compito più difficile: educarli. Per il mio lavoro io non sto molto con loro e quando sono a casa, più che educarli cerco di godermeli il più possibile».
Il maschio gioca a calcio?
«Sì».
Nel Real Madrid?
«No, impossibile. Lasciamo i bambini fuori dalla pressione e dalle maldicenze, loro hanno bisogno di divertirsi».
Qual è la cosa più importante che cercate di insegnare ai vostri bambini?
«Io e mia moglie vogliamo che siano gentili, che capiscano che il mondo reale non è il loro microcosmo. E vogliamo che siano felici. Vogliamo dar loro le condizioni essenziali per far sì che diventino quello che vogliono essere. Nient’altro. Non voglio che mio figlio diventi un top player. Al contrario. Devono studiare, formare se stessi, la mamma è molto onesta e severa con loro e ho paura, visto che sto nel mondo del calcio, che molti genitori vedano la scuola come un problema perché per quei bambini il calcio è la cosa più importante. Mia moglie, quando parla a scuola con gli insegnanti, prima di tutto chiede sempre una cosa: i miei figli sono stati gentili?».
Lei ha detto che solo le sue due famiglie, quella vera e quella dei suoi calciatori, conoscono la sua vera faccia. Al mondo invece lei che faccia mostra?
«Questa. La faccia che io voglio mostrare è quella che mostro. È la faccia dell’allenatore, dell’uomo competitivo, di un uomo di calcio. Di uno che fa il proprio lavoro al meglio possibile. Le persone che mi conoscono vogliono vivermi come un privilegio. Non credo che la mia famiglia e i miei amici sarebbero contenti che condividessi con tutti il mio vero io. Per tutti gli altri io sono un uomo di calcio e nient’altro».
A proposito di calcio. Lei una volta ha dichiarato «chi sa solo di calcio non sa niente di calcio». È davvero così?
«Quando l’ho detto, intendevo che conoscere solo il pallone non basta per diventare un bravo allenatore. Devi capire di biochimica, biologia, anatomia, statistica, leadership... ci sono molte aree che ti aiutano a diventare un tecnico migliore. Per quanto riguarda i calciatori, credo che una base di cultura generale sia fondamentale perché i giocatori oggi sono molto diversi da quelli di 30-40 anni fa. Quando li alleni non puoi dire loro soltanto ‘‘calcia il pallone in quel modo’’, perché loro ti guardano come qualcuno che può elevarli anche intellettualmente».
Si ricorda il motto «motivazione + ambizione...
«Certo, sono passati tanti anni...».
...+ spirito di squadra = la filosofia di Mourinho: successo»?
«Era una frase motivazionale che ho scritto molti anni fa e che vale ancora. I ragazzi devono sentire che avere qualità e talento non è più sufficiente. La vita agonistica di un calciatore è circoscritta a 10 anni, non a 50: in 10 anni devi cercare di ottenere il massimo, in termini economici, di prestigio, di autostima, di risultati, perché tutto corre molto in fretta. Qualcuno dei miei giocatori ha già terminato la carriera e tutti mi dicono le stesse cose: è passato così in fretta, sembra ieri, non posso crederci, due giorni fa ero un giovane ragazzo e ora ho finito la carriera».
Quindi?
«Quindi devo persuadere questi ragazzi che devono vivere per il calcio, che non devono sprecare il proprio talento. Se non hai talento ok, ma se Dio ti ha dato un talento e non lo tieni stretto con entrambe le mani, allora...».
Ne ha visti tanti di giocatori sprecare il proprio talento?
«Uhhh, tantissimi...».
Sta pensando per caso a un calciatore che adesso gioca a Manchester?
(sorriso) «...tantissimi».
Quali sono i prossimi obbiettivi di Mourinho?
«Nel calcio sono tre, tutti molto difficili. Essere l’unico ad aver vinto la Champions con tre squadre differenti. Essere l’unico ad aver vinto i tre campionati più difficili del mondo, Inghilterra, Italia e Spagna. Essere tra qualche anno il primo a vincere qualcosa con la nazionale portoghese».
E nella vita?
«Soltanto stare in salute, vedere che le persone che amo sono in salute, godermi la mia famiglia, mia moglie, i miei bambini e un domani i bambini dei miei bambini».
E che cosa vorrebbe che si dicesse di José Mourinho quando si ritirerà?
«Un uomo di calcio che ha fatto al meglio il proprio lavoro».
Roberto De Ponti