Enrico Giovannini, Corriere della Sera 3/4/2012, 3 aprile 2012
Caro direttore, nel suo intervento sul Corriere di ieri Dario Di Vico ha parlato di «statistica-spettacolo», notando come «la produzione del dato-monstre nel giorno e nell’ora giusta per avere un quarto d’ora di celebrità alla lunga genera rigetto e confonde l’opinione pubblica»
Caro direttore, nel suo intervento sul Corriere di ieri Dario Di Vico ha parlato di «statistica-spettacolo», notando come «la produzione del dato-monstre nel giorno e nell’ora giusta per avere un quarto d’ora di celebrità alla lunga genera rigetto e confonde l’opinione pubblica». Vorrei proporre alcune riflessioni su un tema rilevante per il funzionamento di una democrazia moderna. Il primo punto da tenere presente è che, a causa dello sviluppo delle tecnologie Ict e delle metodologie statistiche, produrre dati non è mai stato così facile. Come ho scritto anni fa in un saggio pubblicato dalla Bce, le statistiche non sono più un «prodotto di nicchia», ma sono divenute una commodity, cioè un prodotto di largo consumo. Il raddoppio in due anni dei gigabyte scaricati dal sito Istat e l’aumento del 75% del numero di utenti singoli testimoniano questo cambiamento, così come la crescita delle richieste dei giornalisti di dati e metadati. In questa situazione, dove finisce il legittimo desiderio di comunicare informazioni statistiche elaborate o semplicemente analizzate, e dove inizia la statistica-spettacolo? Per rispondere bisogna, prima di tutto, guardare a chi le informazioni le offre sul mercato dell’informazione, distinguendo tra le istituzioni che fanno della produzione statistica e dell’analisi un’attività corrente (al di là dell’Istat penso alla Banca d’Italia, ai grandi enti pubblici, ai centri di ricerca economica con lunga tradizione, ecc.), seguendo gli standard (anche di diffusione) sviluppati a livello internazionale, documentando ciò che fanno con appropriati metadati; gli istituti che svolgono sondaggi; gli altri. Le prime, in generale, sanno quello che fanno ed è raro che siano accusate di statistica-spettacolo. Ciò nonostante, allo scopo di minimizzare la possibile influenza della politica sulle informazioni diffuse, il Sistema statistico nazionale (Sistan) ha recentemente stabilito standard per la diffusione da parte dei suoi membri (si pensi all’Inps, all’Inail, ai ministeri, ecc.), che prevedono, tra l’altro, l’elaborazione (sul modello seguito dall’Istat da molti anni) di un calendario dei futuri rilasci, la pubblicazione di metadati, ecc. Il punto è che, mentre le attività degli enti Sistan sono soggette alla vigilanza della Commissione di garanzia dell’informazione statistica costituita presso la presidenza del Consiglio e i produttori di sondaggi sono soggetti alla vigilanza dell’Agcom (che ha stabilito standard minimi per la diffusione delle metodologie utilizzate), gli altri possono fare quello che vogliono, senza alcun controllo, se non quello esercitato dall’opinione pubblica, ed è qui dove si sta sviluppando la «statistica-spettacolo». Negli ultimi giorni abbiamo assistito, ad esempio, alla diffusione di un dato sull’economia sommersa del tutto infondato: perché, prima di dare spazio a una notizia di questo tipo, nessuno ha chiesto qualche spiegazione al Centro che l’ha «sparata» con un comunicato stampa in cui non c’è una riga che illustri come i dati sono calcolati? Perché non si trattano tali fonti con lo stesso rigore metodologico e la stessa trasparenza che si pretende, giustamente, dall’Istat e da altri membri del Sistan? Perché questa asimmetria che lascia spazio a cattive pratiche e non aiuta il Paese a discutere dei vari problemi sulla base di dati di qualità? Se poi guardiamo alla domanda di informazione, cioè al mondo dei media, emergono evidenti problemi di specializzazione. Erroneamente, si pensa che diffondere un dato sensazionalistico sia far bene il proprio mestiere, o che sia facile avere a che fare con i numeri. Ma non è così. E allora, seguendo la pratica internazionale, sarebbe il caso di avere uno statistics editor in ogni giornale e nelle agenzie che aiuti a selezionare «il grano dalla pula». Questo sì che ridurrebbe il rischio di statistica-spettacolo. Da parte sua, l’Istat ha avviato l’organizzazione di corsi di data journalism, proprio per aiutare i giornalisti (e, speriamo, anche chi decide i titoli) a svolgere al meglio il proprio servizio all’opinione pubblica. Il problema è serio e richiede risposte serie: statistici e giornalisti devono lavorare insieme per fare crescere una conoscenza condivisa per favorire un dibattito realmente democratico sulle scelte da compiere, soprattutto su quelle difficili a cui il nostro Paese è chiamato con urgenza. Presidente dell’Istat