Maria Teresa Cometto, CorrierEconomia 02/04/2012, 2 aprile 2012
WALL STREET. DOPO MARK RISCHIA L’INGORGO
Il debutto in Borsa di Facebook, previsto entro maggio, sarà diverso non solo dalle quotazioni degli ultimi 12 anni, cioè da quando è scoppiata la Bolla di Internet, ma anche da quelle future. Sarà uno spartiacque e un test chiave per misurare l’appetito per il rischio degli investitori, molti dei quali non riusciranno a conquistare subito un pezzetto delle fortune di Mark Zuckerberg, perché solo il 5-10% delle azioni del suo social network sarà offerto sul mercato con l’Ipo (Initial public offering). Chi rimarrà a bocca asciutta nella fase del collocamento, potrà rincorrere la matricola Facebook sul mercato — ancora non si sa se al Nasdaq o al Nyse, le due Borse in competizione per aggiudicarsela sul listino — o potrà aspettare la nuova ondata di Ipo che sta per arrivare a Wall Street grazie alla legge Jobs approvata la settimana scorsa dal parlamento statunitense.
Acronimo
Jobs (letteralmente «posti di lavoro») sta per Jumpstart Our Business Startups cioè «Far partire le nostre nuove imprese» ed è stata voluta dallo stesso presidente Barack Obama, ansioso di arrivare alle elezioni di novembre con un record di misure pro-crescita. Appena firmata da Obama, la nuova legge renderà più facile la vita per le aziende ai primi passi in numerosi modi e in particolare taglierà di parecchio la burocrazia e i costi delle Ipo, che erano stati introdotti con la riforma Sarbanes-Oxley: una svolta che ha fatto brindare i venture capitalist della Silicon Valley e preoccupare i paladini dei risparmiatori.
Il timore è che torni lo spirito da corsa all’oro degli Anni Novanta, quando bastava avere un’idea di business per quotarsi al Nasdaq, non solo senza realizzare profitti ma anche senza avere un fatturato. Tutti sanno come è finita, bruciando miliardi di dollari dei risparmiatori.
E finora tutti, o quasi, avevano lodato il nuovo clima delle Ipo di cui Facebook è l’esempio più evidente. La società di Zuckerberg infatti arriva in Borsa a un livello già relativamente maturo del suo business, otto anni dopo la sua nascita: nel 2011 ha realizzato 1 miliardo di dollari di profitti su un fatturato di 3,7 miliardi, con margini quindi altissimi. È insomma molto più redditizia della stessa Google, che pure era sbarcata al Nasdaq forte di quasi 130 milioni di dollari di profitti su un fatturato di 1,8 miliardi. Mentre la startup icona della Internet mania, Netscape, non aveva avuto problemi a debuttare nel 1995 avvertendo: «Non c’è garanzia che si sviluppi un mercato per i nostri prodotti e servizi».
Attesa
Ma l’Ipo di Facebook — attesissima come la più grande di tutti i tempi per una dot.com, per un valore stimato di 5-10 miliardi di dollari raccolti fra i sottoscrittori (contro 1,5 miliardi di Google) — è anche la dimostrazione che «il modello delle Ipo si è rotto» e che «per le aziende high-tech quotarsi fa schifo», secondo la provocazione lanciata da Wired, la «bibbia» del settore, sul numero di aprile.
Zuckerberg infatti non aveva bisogno di andare in Borsa e non ha scelto di farlo, ma è stato costretto dalle attuali regole della Sec (Securities and exchange commission), l’autorità di controllo di Wall Street, in particolare dalla fissazione del numero massimo di azionisti che un’azienda può avere se resta privata. Finora l’obbligo di quotazione scattava a 500 azionisti: un tetto facilmente superato da un’azienda come Facebook, che per attrarre talenti in una realtà competitiva come la Silicon Valley deve offrire stock option (pacchetti di azioni) oltre a salari allettanti; e prima o poi deve anche permettere ai dipendenti di vendere queste azioni e incassare il ricavato. È vero che nel frattempo si sono sviluppati mercati alternativi per lo scambio di titoli non quotati, come SecondMarket e SharesPost, ma non hanno la liquidità delle Borse ufficiali.
Un’altra prova della riluttanza di Zuckerberg ad avvicinarsi a Wall Street: la settimana scorsa ha snobbato un importante incontro con gli analisti della trentina di banche d’affari che cureranno il collocamento (e che hanno accettato di farlo a un prezzo stracciato, solo l’1,1% di commissioni ovvero una frazione del 3-7% usuale).
La nuova legge Jobs alza a 1.000 il tetto di azionisti che una società può avere prima di dover andare in Borsa, ma dall’altra parte abbassa i requisiti per chi vuole andarci: per cinque anni dopo il debutto, le «aziende emergenti in crescita» con meno di 1 miliardo di fatturato e una capitalizzazione inferiore a 750 milioni saranno sottoposte a un regime più leggero di comunicazioni sui loro conti. L’associazione dei venture capitalist Usa ha applaudito le nuove misure perché «rivitalizzeranno il mercato delle Ipo». Invece secondo il presidente della Sec Mary Shapiro, «la definizione di questa nuova categoria di aziende "emergenti" è così vaga che eliminerà protezioni importanti per gli investitori anche in grandi imprese».
Maria Teresa Cometto