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 2012  aprile 01 Domenica calendario

PENNE PRESTATE AI MINISTERI

Il 2 maggio del 2000, mentre chiedeva al Parlamento la fiducia al suo governo, Giuliano Amato disse solennemente che con la formula «leadership collettiva» intendeva più Habermas che Verderami. Aveva in mente più lo «spazio pubblico» individuato dal filosofo tedesco Jurgen Habermas che la spartizione dei posti di governo insinuata sul «Corriere della Sera» dal più bravo dei retroscenisti italiani, Francesco Verderami.
Quella felice battuta di Amato, pronunciata nell’aula di Montecitorio, fotografava uno dei tratti caratteristici del giornalismo politico italiano. Quello che Alessandro Barbano, vicedirettore del «Messaggero», nel suo Manuale di giornalismo (Laterza) definisce «lo slittamento della politica», ma anche del giornalismo, «da una dimensione pubblica-civile a una privata-confidenziale». Il giornalismo italiano, si legge nel libro di Barbano, scritto in collaborazione con Vincenzo Sassu, ha accompagnato il passaggio dalla prima alla seconda repubblica trasformando il tradizionale, noioso e ingessato “pastone” di notizie dal Palazzo in una rappresentazione quasi ludica delle vicende politiche attraverso il non detto, le confidenze, i «si dice». Il retroscena, appunto. Il retroscena all’italiana, spiegano gli autori, però è molto diverso dal modello originario anglosassone, dove è chiaramente diretto a illuminare zone d’ombra o lati oscuri delle vicende pubbliche. Da noi, invece, il retroscena riguarda spesso ricostruzioni di pensieri, umori, punti di vista e deduzioni del giornalista, quasi sempre attribuite tra virgolette, cioè testualmente, ai protagonisti anche se è assai improbabile che abbiano parlato direttamente con il cronista.
«Non si può non notare il rischio distorsivo di questa comunicazione», scrive Barbano. Succede, infatti, che quando il leader politico non si riconosce in quelle indiscrezioni riferite tra virgolette, prova inutilmente a smentirle. L’ultima parola spetta al giornalista pronto a ribadirne la veridicità sulla base dell’attendibilità della fonte, dichiarata tale unilateralmente e comunque tenuta segreta. «In sostanza – scrive Barbano – la dichiarata riservatezza delle frasi riportate funge da esimente per il giornalista di fronte all’eventualità di una smentita, sottraendolo all’obbligo di fornire prova della loro veridicità».
Il libro di Barbano, professore di Giornalismo politico ed economico alla Sapienza di Roma, è un classico manuale di giornalismo, immaginato per essere adottato nelle scuole di formazione professionale. Spiega come si scrivono gli articoli, mostra le regole base, introduce all’arte della titolazione, elenca i vari modelli internazionali, ricostruisce la vita di redazione, racconta il citizen journalism, anticipa l’integrazione con i social media, definisce i confini etici e deontologici, indaga sui rapporti con i sistemi democratici e non nega la crisi globale dell’industria.
Ma sia pure tra le righe, e senza per questo trasformarsi in pamphlet polemico, il Manuale di giornalismo di Alessandro Barbano illumina con precisione i mali del giornalismo italiano. Non solo il retroscenismo gossiparo che conduce a un «ping pong al ribasso tra politica e giornalismo», ma soprattutto il processo di omologazione dei giornali avviato negli anni 90, quando secondo le leggende redazionali, mai credibilmente smentite, i direttori e i capiredattori del «Corriere della Sera», «Repubblica», «Stampa» e «Unità» si telefonavano per concordare la gerarchia delle notizie di prima pagina del giorno successivo. Il fenomeno dei “giornali fotocopia”, argomento cui Barbano nel 2003 ha dedicato un altro saggio, è ulteriormente alimentato dalla diffusione delle tecnologie e dal costante timore autoreferenziale dei giornalisti di bucare le notizie pubblicate dagli altri. Il suggerimento di Barbano è fregarsene. Ciascuno faccia le proprie scelte. Senza curarsi degli altri.
La ricerca dell’uniformità ha danneggiato maggiormente le testate regionali e locali, costrette da questa tendenza omologante a perdere la loro specificità e a diventare duplicati di serie B dei grandi quotidiani. «Il tratto dell’omologazione – aggiunge Barbano – coincide con quella che può definirsi prevalenza del politico, cioè una sopravvalutazione della dimensione politica e una sproporzione tra l’offerta di informazione politica e la domanda di informazione del lettore». In realtà basta sfogliare un qualsiasi giornale americano o inglese per rendersi conto che altrove i giornali non si occupano di politica in modo così ossessivo e stucchevole. Una ragione della specificità italiana c’è, sostiene Barbano: l’interdipendenza tra le proprietà editoriali, la politica e le carriere dei giornalisti. «L’offerta informativa in Italia risponde solo in parte alle regole del mercato – conclude – e per un’altra parte svolge un ruolo regolativo di conflitti tra le classi dirigenti del paese». La migliore lezione di giornalismo possibile.