Matteo Codignola, Domenica-Il Sole 24 Ore 1/4/2012;, 1 aprile 2012
UN FARMACISTA PER IL LIBRO D’ARTE
Fino a oggi, volendo scegliere un film sull’editoria da collocare in un’apposita lista, ci si sarebbe trovati di fronte ad alternative piuttosto secche, accomunate da un tasso discutibile di attendibilità. Si poteva prendere La Notte di Antonioni, ad esempio, che come magari qualcuno ricorda ospita un book party, nientemeno, in Bompiani, col conte Valentino che passa gli aperitivi e il giovanissimo Eco che passa davanti all’obiettivo, approfittandone per dire la sua. Oppure bisognava deviare su versioni più sanguinolente, come Wolf, dove Jack Nicholson, per rifarsi dell’editor rampante che gli ha soffiato moglie e cadrega, entra nei panni che molti lettori (e quasi altrettanti autori) amano attribuire a tutti gli editori: quelli del licantropo.
Da qualche mese è tuttavia possibile percorrere una terza via, e cioè scegliere (magari prima vedere) un film che in teoria si tiene alla larga dalle metafore. How to Make a Book with Steidl, firmato da Gereon Watzel e Jörg Adolph, si presenta infatti come un documentario, anche se trattandosi di un documentario autorizzato (prodotto cioè non solo col beneplacito, ma anche con un contributo dell’interessato) è un autoritratto in maschera. Di conseguenza, capire se l’oggetto della presunta indagine ci sia o ci faccia è più complicato del solito.
Trattandosi di Gerhard Steidl, tuttavia, la seconda eventualità è la più verosimile. Steidl stampa libri da trent’anni, e da almeno dieci (cioè dalla massima vita utile, gli rivela Martin Parr in un divertente siparietto, concessa a un editore di tendenza) pubblica, in vesti sempre diverse e sempre superbe, tutti i fotografi contemporanei di una qualche importanza, da Ed Ruscha a Robert Frank, da Tacita Dean a Jeff Wall, da William Eggleston a Saul Leiter, e mi fermo solo per non esaurire, con un elenco di nomi, lo spazio a mia disposizione.
Figlio di un tipografo che sottraendo al giornale qualche bottiglia di inchiostro e alcuni scampoli di carta lo ha aiutato a cominciare (veramente era un addetto alla pulizia delle rotative, precisa l’ingrato in una scena del film), Steidl nel 1967 si dedica alla stampa di manifesti per mostre d’arte, quindi passa alla saggistica militante, e da metà degli anni Novanta restringe (o allarga, dipende) il campo ai libri di arte, moda e fotografia. Tutto senza muoversi non solo da Göttingen, ma dal quartiere in cui è nato, e in cui ora manda avanti la sua fabbrichetta.
Per gran parte del tempo lo fa indossando un camice bianco da farmacista, armato del quale combatte, prima di tutto, una sua crociata contro lo sporco. Sì, Steidl ha sempre a portata un flacone di materiale da pulizia, passa incessantemente l’unghia o il polpastrello su macchioline invisibili all’occhio nudo (ma anche a quello della telecamera), e quando uno dei pennarelli che porta nel taschino perde il cappuccio, e sfigura il bianco del cotone, non ha pace finché non trova un rimedio, e cioè non copre la macchia con una pecetta di nastro isolante nero. Poteva cambiarsi il camice, penserete voi. L’ho pensato anch’io, ma da lì a un attimo, riconsiderato il rapporto degli editori col denaro, mi sono reso conto che no, non poteva. Contestualmente, ho capito che il film mi stava offrendo, oltre a una confezione accettabile, anche una serie di utili indicazioni su vari aspetti del lavoro editoriale, a cominciare dal contatto con gli autori.
In una delle prime scene, durante una serie di incontri a New York, Steidl passa a trovare Joel Sternfeld, un fotografo che oltre a non essere un mostro sacro – in compenso è simpaticissimo, sembra Harpo Marx in parrucca nera – è stato appena folgorato vuoi da Dubai vuoi dalle possibilità di utilizzo professionale dell’iPhone: e di entrambe le scoperte parlerebbe per ore. Ora, quando smette il camice e sale su un aereo (privato, sembrerebbe) Steidl non ha precisamente tempo da perdere: allinea su una consolle i suoi cinque iPod nano, di cinque colori diversi (perché cinque? Perché due blu? Sono domande angoscianti, destinate a rimanere senza risposta) e tira fuori un pacco di bozze. Anche nei testa a testa con gli autori è piuttosto sbrigativo, e va subito al sodo. A Ruscha spiega pazientemente la differenza fra stampa in tipografia e in offset, a Frank quanto sia importante l’odore della carta nello stabilire l’identità di un libro (in una conferenza, Steidl racconta addirittura di avere brevettato una vernice all’olio, che lo preserva), a Günter Grass, che deve disegnare la nuova copertina per un’edizione celebrativa del Tamburo di Latta, che il ricciolo superiore della "S" di "Steidl" va un po’ più grosso, per favore, ecco, così. Quanto alle obiezioni o ai suggerimenti degli interlocutori, li annota su un pezzo di carta, con uno dei soliti pennarelli: e a seconda delle smorfie o dei silenzi con cui accompagna le trascrizioni si capisce benissimo quali verranno accolti e quali no. Nessuna di queste conversazioni, in ogni caso, si estende oltre i due, massimo tre minuti. È una questione di montaggio, ovviamente, e nella vita reale può essere che il dialogo si sia trascinato un po’ più a lungo: ma non molto, e comunque non abbastanza per le esigenze, ad esempio, di Sternfeld. Il quale Sternfeld non a caso viene deportato a Göttingen, dove per tutta la lavorazione di IDubai (così si chiamerà il libro) rimarrà in ostaggio dei giovani, e pazientissimi, redattori della Steidl.
Ora, dato che il film apparentemente non prende posizione, lo spettatore è libero di immaginare che gli editori conducano una vita simile a quella del piccolo, mercuriale, irrequieto Steidl, una specie di Chanche di lusso, che si presenta nei contesti dello chic internazionale con la stessa aria serafica, e la stessa inclinazione alla lepidezza, del giardiniere di Peter Sellers). Oppure possono ritenere che si tratti di finzione, e che dal vero le case editrici siano piuttosto popolate di figure simili all’oscuro collaboratore a contratto, stanziale e vagamente depresso, cui Sternfeld spiega (in dieci minuti di film, stavolta) come si ruba una foto nei paesi arabi: si scarica un’app che simula chiamate esterne, si finge di rispondere, e si traffica con la tastiera in modo da puntare, non visti, l’apparecchio sul bersaglio. Sul più bello del racconto però arriva Steidl, che tronca la conversazione chiedendo a Sternfeld di seguirlo, e di concentrarsi sull’aspetto finale del libro. Menabò sul tavolo e pennarello in mano, l’editore è pronto a trascrivere (e ovviamente a cassare) le osservazioni del suo autore, ma anche a modificare, centimetro dopo centimetro, le proprie proposte. Cioè a compiere l’unico gesto – un filino compulsivo – che da cinquecento anni a questa parte identifica il mestiere, e che a differenza di quanto spesso si immagina non è rifiutare, acquisire, lanciare, rilanciare, promuovere, affossare: ma, molto più brutalmente, correggere.