Carlo Tecce, il Fatto Quotidiano 31/3/2012, 31 marzo 2012
POCHISSIMI LETTORI E AFFARI SBALLATI: IL RIFORMISTA CHIUDE
Il 13 aprile con la sentenza del Consiglio di Stato sapremo chi aveva ragione fra l’Autorità di Garanzia e la famiglia Angelucci (Tosinvest), se fossero legittimi per il Riformista e Libero, due testate un’unica proprietà, i contribuiti pubblici ricevuti dal 2006 al 2009 e quelli congelati per gli anni successivi. Soltanto che ormai il Riformista non è più in edicola, e decine di giornalisti e poligrafici sono senza lavoro.
Ieri l’ultimo numero con l’editoriale di Emanuele Macaluso, direttore e proprietario: “Non ce l’abbiamo fatta. Con grande amarezza vi diciamo che tutti i tentativi fatti per salvare il salvabile non hanno avuto esito positivo”.
La società va in liquidazione seppur con “i conti in ordine”, precisa Macaluso. Proprio sui conti, dopo dieci anni in edicola fra le direzione di Antonio Polito e Paolo Franchi, sarebbe interessante capirci qualcosa. Il Riformista è stata un’idea e un affare di Claudio Velardi, mente poi rinnegata di Massimo D’Alema. Quello del 31 dicembre 2005 è l’ultimo bilancio che chiude interamente la gestione Velardi, mentre il dipartimento per l’Editoria stacca assegni annuali di oltre 2,5 milioni di euro (12,5 in totale fino al 2008).
La situazione è più seria che critica: esercizio in perdita per 336 mila euro e uno studio commerciale che, ottimista, fissa a 10/15 mila il traguardo massimo raggiungibile, anche se le vendite (compresi gli abbonati) si fermano a circa 7 mila copie.
Estate 2006, arriva la famiglia Angelucci, che cerca di sommare i giornali (possiedono già Libero) all’enorme numero di cliniche private.
In un’intervista al Fatto Quotidiano, Velardi corregge al ribasso la cifra di una compravendita che s’aggirava intorno ai 12 milioni di euro: “No, non è così. Forse erano 8. Ma ho pagato i debitucci, non li misi mica tutti in tasca”. I debitucci vanno fuori controllo. Anno 2011, il bilancio che precede l’arrivo di una cooperativa che coinvolge Macaluso: le banche chiedono 3,5 milioni di euro, il fisco aspetta 600 mila euro e i dipendenti mezzo milione. E soprattutto, condanna che pesava sin dal primo giorno, cioè il 1° maggio 2011, il governo aveva bloccato i fondi per il Riformista dal 2009. Quando l’Autorità di Garanzia ha scoperto che l’apporto degli Angelucci era determinante per l’esistenza del quotidiano e la famiglia, che controlla anche Libero, non poteva incassare un doppio finanziamento pubblico, come accaduto per il 2007 e il 2008 (5 milioni di euro soltanto per il Riformista, che andrebbero restituiti se il Consiglio di Stato dovesse accogliere il ricorso dell’Autorità di Garanzia).
DA IERI il quotidiano ha interrotto le pubblicazioni, ma nessuno ha saputo certificare realmente le vendite in edicola (probabilmente sotto le 2 mila copie): un aspetto rilevante se si considera che lo Stato aiutava il Riformista poiché - per rispettare le regole - la Tosinvest dichiarava 40 mila copie diffuse e 12mila vendute. Eppure gli Angelucci dicono di aver investito 7,5 milioni di euro per il rilancio del quotidiano, affittando una sede simbolica in via delle Botteghe Oscure di Roma, storica e indimenticabile base del partito comunista italiano.
Ma è certo che la Tosinvest aveva un contratto col Riformista (cioè con se stessa) per utilizzare la testata: 1,2 milioni di euro in 5 anni, ricambiati - a loro dire - con un versamento annuo di 3,8 milioni. Trovare un senso fra tanti soldi sarebbe già un successo, editoriale.