Anna Bandettini, la Repubblica 1/4/2012, 1 aprile 2012
L’ultima diva – Tutto, ma non levatemi i fiori, gli alberi, la terra. Sono cresciuta coi contadini, non potrei vivere senza la natura», dice con un po’ di civetteria guardando soddisfatta le prime camelie sul terrazzo del principesco salotto nella sua casa di Milano - le pareti ornate di bucolici trompe l’oeil, le sedie del Settecento appartenute a un vicerè inglese, regalo di Nenè, l’amica del cuore,i mobili Boulle carichi di glorie, premi, fotografie, Grace Kelly, Visconti, Baryshnikov, Spencer Tracy
L’ultima diva – Tutto, ma non levatemi i fiori, gli alberi, la terra. Sono cresciuta coi contadini, non potrei vivere senza la natura», dice con un po’ di civetteria guardando soddisfatta le prime camelie sul terrazzo del principesco salotto nella sua casa di Milano - le pareti ornate di bucolici trompe l’oeil, le sedie del Settecento appartenute a un vicerè inglese, regalo di Nenè, l’amica del cuore,i mobili Boulle carichi di glorie, premi, fotografie, Grace Kelly, Visconti, Baryshnikov, Spencer Tracy. Ricordi di un’attrice dalla carriera avventurosa, tra Hollywood e Roma, tra Parigi e Milano. Valentina Cortese, il foulard lilla stretto sulla testa, sul décolleté una collana da brivido di ametiste viola del 1500, è quella di sempre. Stessa voce morbida di quando recitava Séverine, l’autoritratto di diva in Effetto Notte di Truffaut; stessa grazia commossa della Ljuba del Giardino dei ciliegi di Strehler, stessi occhi verdi grandi e dolorosi di quando girava Giulietta degli spiriti di Fellini, il viso ancora perlaceo e poi quella luce, quello charme, quell’eleganza haute couture che l’hanno resa unica e inimitabile, icona indelebile del divismo di un tempo. Ha ottantanove anni, conduce una vita appartata, ma racconta con passione l’audacia di quando negli anni Quaranta aveva invaso il cinema con la sua luminosa bellezza e quel caratterino che si notava. Aveva debuttato a diciassette anni e presto già recitava nei film con Ferida e Valenti, le star italiane di allora.A venticinque era giàa Hollywood, l’attrice italiana più conosciuta, più di Alida Valli e prima di Sophia, amica di James. Ora questa sua vita riccae divertita l’ha anche raccontata in un libro, Quanti sono i domani passati (lo presenterà a Milano l’11 aprile nel suo Piccolo Teatro), scritto in tre mesi «con l’esperienza e la saggezza della tarda età». Un racconto bello, ironico anche quando sfiora toni roboanti, commovente nella storia di una donna passata con leggerezza dall’infanzia povera nella campagna lombarda al Beverly Wilshire Hotel, quello di Pretty Woman, dove era solita scendere a Hollywood. «È stato difficile scrivere, difficile lasciarmi andare. Io sono timida, ho davvero l’anima contadina», dice ritrovando se stessa bambina, figlia di una ragazza che l’aveva nascosta perché frutto di un legame illegittimo. «Mi affidò a una balia, mamma Rina, e io sono cresciuta con lei e i suoi figli ad Agnadello, vicino Cremona. Persone semplici e vere, e nella miseria, non sapendo che era miseria, si viveva bene anche se si mangia pane ammuffito. Ho vissuto felice. Ero una bambina caparbia, a sei anni già volevo fare l’attrice e nessuno dei miei contadini tentò di farmi essere diversa. Questa libertà l’ho preservata anche quando, ormai ragazzina, andai a vivere da mia nonna, a Torino». Ha recitato sessantanove anni, decinee decine di spettacoli, oltre novanta film, da l’ Orizzonte dipinto di Salvini nel ’41 a Callas forever di Zeffirelli nel 2002, da Quando muore una stella di Robert Aldrich,1968, a L’assassinio di Trotsky di Losey del ’72, sfiorando l’Oscar nel ’73 con Effetto notte: Ingrid Bergman, sua amica, che lo vinse, sul palco disse: «Questo Oscar non mi appartiene. Appartiene a Valentina». «In America ero arrivata nel ’48 - racconta - Il primo giorno il mio agente mi portò al Romanoff’s, a Beverly Hills, e chi ti vedo? Greta Garbo. Con la Dietrich era il mio idolo. Me la presentarono, mi sentivo male, facemmo colazione assieme. Ma lei disse poco. Vidi da vicino anche la povera Marilyn, con la carnagione così delicata che pareva di panna montata. A Hollywood si stava in automobile tra una villa e l’altra, ville che parevano set. Cary Grant ci invitava per il tè nel suo giardino: una volta lo trovammo mentre faceva il piccolo punto per ricamare delle sedie. Fa impressione vedere un uomo così sexy cucire... Glielo aveva detto lo psicanalista. Siccome era agitato, lavorava molto e amava molto, donne e, sì, anche uomini, cucire lo calmava... La più divertente era la famiglia di Paul Newman, facevo pop corn per i suoi figli. Ma chi avrei davvero sposato era Fred Astaire: elegante, agile, serio». Hollywood fu però anche una severa lezione: conobbe Richard Basehart, Dick, un attore belloe in carriera. Ne venne stregatae fregata: lo sposò nel ’51a Londra, ma non fu un matrimonio felice. «E poi ci fu il fattaccio. Darryl Zanuk, il grande capo della Fox. Mi faceva la corte. Una sera mi invitò a una festa. Capii presto che era una specie di orgia. Lui mi mise le mani addosso. Gli gettai in faccia il whisky dal bicchiere, urlandogli "fai schifo", in italiano. Fu il mio grande gesto, ma anche la fine. Mi tenne sotto contratto ma senza far niente. Tre anni. Poi finalmente tornai in Italia. Triste? Ma no, fu una fortuna. Di Hollywood non me ne fregava niente. C’era l’Inghilterra dovei giornali di me scrivevano " First Garbo, then Bergman, now Cortese ". E soprattutto c’era Victor». Victor era Victor de Sabata, il grande direttore d’orchestra. Valentina Cortese l’aveva conosciuto a diciassette anni. Lui ne aveva trentuno di più. Lei vitale, appassionata, lui serio, introverso e per di più con moglie, da cui si stava separando, e due figli. «Ci siamo amati perdutamente, e all’inizio demmo scandalo». Ancora oggi parlarne la rende sensibile alla commozione. «Era un genio e un uomo meraviglioso, siamo sempre rimasti legati». Ancora ricordi. «Quando tornai in Italia, a metà degli anni Cinquanta ero una donna sposata ma non felice, Dick mi aveva deluso. Beveva. Non potevo accettarlo, anche per il piccolo Jack, nostro figlio. Fu lì che arrivò Paolo Grassi: mi chiese di andare al Piccolo Teatro per fare Platonov. Un segno del destino. Potevo fuggire da Romae da Dick. Coraggiosa? No, però so reagire. Lo devo ai miei contadini, a Mamma Rina, a suo marito Giuseppe, ai loro figli Luigino e Uliva. Se oggi porto il foulard sul capoè per loro. Era il modo in cui lo usavano nei campi. Per me è come una loro carezza». Il Piccolo fu subito Giorgio Strehlere l’amore pazzo, creativo, violento, vistoso. Lui, protagonista della cultura, dispensatore d’arte la stordisce con la sua voce sapiente. Poi un giorno alle prove prende il ruolo di Tino Carraro per mostrare come abbracciarlae lei sente un brivido che non dimenticherà. «Giorgio e il Piccolo Teatro diventarono la mia vita. Eravamo talmente presi da questa fiamma...». Incendiari anche i litigi: abitavano insieme nel "conventino" di piazza Sant’Erasmo, luogo magico di Milano, per sfuggire lei si chiudeva in ascensore bloccandolo tra un piano e l’altro. Non trovandola lui si infuriava, scendeva in strada a cercarla, e solo allora lei rientrava in casae dalla finestra, dispettosa, sfacciata, gli urlava: «Giorgio, mi hai chiamato?». Per quindici anni hanno vissuto e lavorato insieme. Insieme hanno fatto capolavori come Il giardino, I Giganti della montagna, El nost Milan, Santa Giovanna. «Spettacoli irripetibili perché nascevano da una situazione straordinaria. Eravamo tutti giovani, bravi, pazzi per il teatro, felici di lavorare». Si lasciarono per i motivi confusi e inspiegabili di tanti amori veri. Forse la dissennatezza di lui («le donne arrivavanoa suonare il campanello di casa per cercarlo»), le sue nevrosi: «Uscivamo da debutti con 35 minuti di applausi e lui era triste. Si rincuorava quando, una volta a casa, gli preparavo la cioccolata. Ma poi andava in bagnoe metteva un asciugamano sullo specchio per non vedersi. Un uomo così bello! Ogni tanto saltava fuori: "Oggi mi ammazzo". Era un bambino. E che lettere mi ha scritto... L’amore tra noiè rimasto. Maa un certo punto mi resi conto che non potevo più lavorare con lui. Gli ultimi tempi andavo alle prove e poi in clinica per tirarmi su». Ha continuatoa recitare in teatro fino al 2009, ma altrove. E quanto agli amori non ha mai dimenticato né de Sabata né Strehler. «Amavo tutti e due, e li volevo tutti e due, ma non si poteva. Ecco, c’est l’histoire d’amour ». Oggi vive con il devoto figlio Jack, vedova dell’industriale farmaceutico Carlo de Angeli, «un gentiluomo che non mi ha mai chiesto nulla del passato. Eravamo vicini di casa, conoscevo sua moglie, quando morì ci siamo avvicinati. Anche stavolta il destino...». Conta più della bellezza e dell’intelligenza? «Può essere che Victor o Giorgio mi abbiano scelto per la bellezza, ma certo è che il loro rispetto me lo sono conquistato col cervello. Quanto ai fili del destino... ci sono, devi saperli ricucire con un po’ di fortuna. E io ne ho avuta».