Marco Imarisio, la Lettura (Corriere della Sera) 01/04/2012, 1 aprile 2012
FEDERER COME ESPERIENZA FILOSOFICA
Roger Federer si è ritirato, dal tennis e dal mondo. Le sconfitte per mano di avversari più muscolosi, adepti del cyber-tennis che avanza, lo hanno consegnato a un crepuscolo da semidio. Un giornalista si appassiona al mistero della sua improvvisa sparizione. Entra nella sua villa di Basilea. Lo trova sdraiato nella sala dei trofei, in posizione fetale. Sulla scrivania, i libri dei suoi filosofi preferiti. Il campione è discepolo del trascendentalismo di Henry David Thoreau, il rapporto con la natura come possibilità per l’individuo di ritrovare se stesso in una società che non rappresenta i suoi valori, e della metafisica della qualità di Robert Pirsig, la presenza del divino non solo nella bellezza del paesaggio ma anche negli ingranaggi del cambio di una Harley Davidson.
Il seguito di Je suis une aventure, romanzo esistenzial-filosofico del francese Arno Bertina (Editions Verticales) è un viaggio delirante che comprende il tentativo di furto della sua statua di cera al Madame Tussauds di Londra, e si conclude sulle rive del Niger, epilogo conradiano della traversata nel cuore di tenebra dell’idolo caduto.
Lo stiamo perdendo, la verità è questa. Non importa quanti tornei vincerà ancora: guardarlo significa ormai prepararsi alla sua assenza. Ci saranno ancora fiammate, come avvenuto in queste settimane. Lo aiuteranno a illudersi che tutto è come prima, che si può inchiodare a fondo campo anche l’età che avanza, non solo gli avversari. Ma il risveglio sarà inevitabilmente amaro. Per lui, per noi. In questo tennis, Federer è postumo in vita. Lo è sempre stato, forse, con quella bellezza estetica desueta e veloce. Il primo a capirne il potenziale mistico fu il mai troppo compianto David Foster Wallace, che in Roger Federer come esperienza religiosa (Edizioni Casagrande) tentò di spiegare l’elemento quasi esoterico nascosto in quei gesti leggeri. E dopo sono arrivati gli studiosi di filosofia, attirati dal paradosso di Federer, essere così moderno e così fuori dal suo tempo.
«Lo stile e la presenza di Roger portano il tennis in un’altra direzione rispetto a quella tracciata dagli imperativi tecnici, economici e mediatici. Rivelano l’esistenza di una via di fuga». André Scala, uno dei più importanti studiosi dell’opera di Spinoza, ne è convinto. In Silences de Federer (Éditions de la Différence) afferma che Roger Federer non è stato un monarca, ma un legislatore che tenta una impossibile restaurazione, o rivoluzione, neoclassica.
A questo punto è necessario un passo indietro. Non può essere solo una coincidenza. Sia Scala che l’epistemologo Hans Ulrich Gumbrecht nel suo In praise of Athletic Beauty (Harvard University press) identificano con certezza l’ora e il giorno in cui tutto cambiò, e il tennis classico dovette cedere il passo a un nuovo ordine. Alle 19.08 del 10 giugno 1984, finale del Roland Garros, John McEnroe, il più geniale e creativo tennista di sempre, mette in rete una facile volée di dritto. Dall’altra parte esulta l’incredulo Ivan Lendl, il suo esatto contrario, sportivo e non solo. Game, set, match. In quel «momento barbaro», sostiene Scala, il tennis entra nell’era della sua riproducibilità tecnica. Gumbrecht invece piange sulla vittoria del «gesto ripetuto sempre più forte, il concetto di forza come mercificazione dello sport».
Abbiamo vissuto anni bui. Le poche luci, come quella emanata da Stefan Edberg, erano bagliori di una classe troppo leggera per essere definitiva. Il tennis è diventato cyber-tennis, luogo di forzuti e di parossismo atletico. Poi è arrivato Federer. Dice David Baggett, autore di tomi poco leggeri come Il buon Dio, ovvero la fondazione teistica della moralità nonché curatore di un monumentale Tennis and philosophy (edizioni Liberty University), che il suo avvento «obbliga a riplasmare i concetti di eccellenza ed estetica applicati all’era tecnologica».
L’inconsapevole neoclassicismo di cui è portatore si riflette sul personaggio. Frigidaire, re Indesit, questi sono i nomignoli che nel tempo hanno sottolineato una innegabile banalità espressiva. Andre Agassi, lo abbiamo letto in Open, odia il tennis. Anche Rafael Nadal e Nole Djokovic potrebbero giungere a conclusioni simili, una volta spente le luci della ribalta. Troppo sforzo, troppa sofferenza.
Federer è diverso. «Gioca con un senso storico — scrive Scala —, convinto che il nobile passato del suo sport non sia materia da archivio. Si accosta a esso senza nostalgia, ma convinto di poterne realizzare le potenzialità mai espresse».
Il tennis è tutto per lui, il tennis gli basta. «Il suo modo d’essere imperturbabile — sostiene Baggett — altro non è che l’omaggio a una storia dalla quale si sente rappresentato».
Nessuno sfugge alla propria nemesi, e non si può parlare di Federer senza citare Rafael Nadal, il Grande Restauratore, un Metternich spagnolo che ha interrotto la sua opera di umanizzazione, umiliandolo a più riprese e dimostrando così al mondo che un altro tennis non era più possibile. Anche qui viene in soccorso la storia del pensiero, grazie a Carlo Magnani, professore all’Università di Urbino, autore di Filosofia del tennis (Edizioni Mimesis), libro di rara intelligenza e leggerezza, almeno a parere di chi scrive.
«Nel tennis Federer occupa la posizione di Heidegger nella storia del pensiero. Un uomo estremamente poco complicato si è ritrovato nel ruolo del Profeta, colui che porta finalmente la Reincarnazione e la Luce in un mondo compromesso e sconsacrato». Con il suo tremendismo agonistico, Rafael Nadal invece non esprime la metafisica della bellezza, ma quella della forza vitale. Il riferimento, anche in questo caso a sua insaputa, è l’anticartesiano Henri Bergson. «Pure lui è immerso in una raffigurazione che mira a trascendere l’esistente però non dal lato estetico ma da quello della espressione di pura energia. Tutto è spirito e forza vitale, perché a prevalere è il moto interiore e la volontà».
La finale degli ultimi Australian Open dimostra chi sia il vincitore finale. Quasi sei ore di battaglia muscolare tra Nadal e Nole Djokovic, portatori di un tennis inumano ed estremo, segnato dallo sforzo fisico. Federer non c’era, non poteva esserci. E in fondo questo elenco di romanzi e saggi filosofici più o meno seriosi sul suo conto non sono altro che un anticipo del rimpianto. Quando arriverà il giorno del suo ritiro, dal tennis se non dal mondo, ci mancherà moltissimo.
Marco Imarisio