Vincenzo Trione, la Lettura (Corriere della Sera) 01/04/2012, 1 aprile 2012
PASOLINI PITTORE FRAGILE
Università di Bologna, anno accademico 1940-41. Da qui muove l’antologica dedicata a Pier Paolo Pasolini, curata da Davide Dall’Ombra e Giovanni Agosti, che sarà inaugurata il 20 aprile presso Casa Testori (a Novate Milanese), nella quale verrà presentato per la prima volta il corpus completo della produzione pittorica dello scrittore friulano: cinquanta opere (dipinti e disegni), insieme con appunti autografi e corrispondenze inedite. Bologna 1940, dunque. Roberto Longhi sta tenendo il corso sui «Fatti di Masolino e di Masaccio». Un’apparizione, per il timido diciassettenne Pasolini. Di fronte a lui, è un Maestro. Carismatico, ironico, curioso, privo di ogni pesantezza accademica. Quando spiega, è «sguainato come una spada». Il suo lessico è avvolgente. «Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione», racconterà Pasolini, il quale resta colpito soprattutto dagli artifici di cui amava servirsi Longhi per catturare l’attenzione degli studenti: proiettare riproduzioni dei dipinti di Masolino e di Masaccio in maniera serrata, accostandole in un involontario documentario.
Ad assistere a quelle lezioni, è il primo assistente di Longhi, Francesco Arcangeli. A lui Pasolini — non senza esitazioni e timori — mostrerà il suo «segreto»: i quadri eseguiti durante l’estate precedente. Sono oli su faesite e dipinti realizzati su supporti come carte, cellophane e sacchi. In quelle prove adolescenziali, motivo ricorrente è Casarsa, riscoperta nella sua bellezza rurale, abitata da un’umanità arcaica. Dinanzi a quegli immaturi esercizi di stile, Arcangeli pronuncia giudizi di apprezzamento: al punto che Pasolini inizia a scorgere per sé un possibile avvenire da pittore o da critico d’arte. Ambizioni che, ben presto, vengono disattese da Longhi, al quale il futuro autore di Ragazzi di vita proporrà, in una lettera del 12 agosto 1942, diversi argomenti da sviluppare per la tesi: una ricerca sulla Gioconda nuda (attribuita a Leonardo), uno studio sul pittore del Cinquecento Pomponio Amalteo e una ricostruzione della pittura italiana contemporanea.
Il Maestro accetta l’ipotesi più «militante». Ma Pasolini riuscirà a redigere solo i primi capitoli della tesi, smarrendone il manoscritto nel settembre del 1943. Da allora, si determina un allontanamento dalla storia dell’arte. Sorretto dalla necessità di aprirsi a una sorta di «espressività totale», Pasolini sceglie di sperimentare linguaggi diversi: letteratura, teatro, cinema, giornalismo. Eppure, per lui, la pittura resta sempre una presenza implicita. In particolare, sono costanti gli omaggi al Professore, di cui loda la sapienza nell’attenersi alla «logica interna delle forme». Nel 1961 esce Mamma Roma, dedicato proprio a Longhi, «cui — scrive — sono debitore della mia folgorazione figurativa». Influenzato anche dal ricordo delle emozionanti lezioni universitarie bolognesi, si comporta come un pittore impegnato a girare film: ne Il Decameron, interpreta il ruolo di Giotto e riprende le visioni della Cappella degli Scrovegni; ne Il Vangelo secondo Matteo, ricrea situazioni tratte dalla Storia della vera croce di Piero della Francesca; in Mamma Roma, infine, fa un potente omaggio al Cristo morto di Mantegna.
Longhi è un po’ il Virgilio di Pasolini, che, nel 1974, ne recensisce prontamente la raccolta di saggi Da Cimabue a Morandi. Un modo per ribadire l’intensità di un rapporto «ontologico». Sulla copertina di quel volume, appare una fotografia dello storico dell’arte, colto di profilo. Pasolini resta sedotto da quell’immagine, che decide di declinare — tra il 1974 e il ’75 — in una serie di variazioni sullo stesso motivo. Quel piccolo ciclo può essere considerato come l’approdo del tardivo ritorno alla pittura del poeta, che risale alla primavera del 1970, dopo una pausa trentennale.
Un enigma. Ecco chi è il Pasolini pittore. Non ha niente in comune con l’apocalittico frequentatore delle malebolge del nostro tempo, che incontriamo nell’inestricabile Petrolio. Non ha nessuna analogia con il disperato cineasta che, in Salò, mette in scena il «male radicale», mostrando un’umanità corrotta dal consumismo, dominata dal potere. E non ha neanche alcuna consonanza con il polemista che, negli scritti corsari, dà vita a una requisitoria segnata da colori lividi, da un disarmato oblio della speranza.
Quando dipinge, Pasolini non ha rabbia. È un anti-avanguardista, lontano dalle decostruzioni cubiste. Talvolta, recupera echi espressionisti. Guarda a Bonnard. E, soprattutto, alla tradizione italiana: Masaccio e Giotto. E, poi, Carrà e Morandi. E de Pisis, di cui ammira la raffinatezza nel far sorgere un universo crepuscolare, lambito da vibranti trasparenze. Sulle orme di questi artisti, Pasolini compone fragili idilli. Elabora uno stile elegiaco, ingenuo, pascoliano, denso di richiami alle atmosfere delle Poesie a Casarsa. È lo stile di un artista che dice di sé: «Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore». Un linguaggio impolitico, lirico, che rivela sempre un profondo legame con il visibile, con temi «famigliari, quotidiani, teneri». Ogni quadro, per Pasolini, si dà come strategia per sfiorare la «lingua vivente della realtà». E anche come occasione per non cancellare la bellezza dell’incanto, dello stupore. Per sottrarsi alle miserie della cronaca. E risalire a un tempo lontano e purissimo.
Vi è audacia, invece, nella scelta di materiali e tecniche. Pasolini preferisce non servirsi di matite, pastelli e chine. Spesso, dipinge con la colla. A volte, definisce i volti solo con le dita sporche di colore. In molti casi, interviene direttamente su materie «difficili» come sacchi e cellophane.
Tra rispetto della tradizione e amore per le sperimentazioni, Pasolini si misura in particolare con due generi. I ritratti. E, soprattutto, gli autoritratti. Egli ama ritrarsi. Dipinge per farsi vedere. Per ribadire il suo egotismo. Per conoscere meglio le ferite e le lacerazioni del suo io. Per lasciare una memoria di sé. E sfidare il tempo, la morte.
Vincenzo Trione