Mario Porqueddu, la Lettura (Corriere della Sera) 01/04/2012, 1 aprile 2012
COME E’ STATO IL FUTURO
Il futuro si è avverato e quindi non è più. Abitiamo i tempi immaginati da James Ballard, William Gibson e Philip K. Dick; quei loro futuri sono il nostro presente. E c’è un problema: oggi da qui pensare a un futuro possibile è complicato. Per la fantascienza (e forse non solo per lei). Può essere un modo di vedere le cose. «Da 20 o 30 anni non c’è un futuro da progettare perché è stato ablato, divorato da una formazione economico sociale che si chiama capitalismo post-fordista o della conoscenza». Antonio Caronia risponde al telefono da un tunnel della metropolitana. Docente di Comunicazione multimediale all’Accademia di Brera, è stato (anche) curatore di opere e autore di testi sulla fantascienza, oltre che traduttore di Ballard (La mostra delle atrocità). Sostiene che il media landscape, il paesaggio mediatico preconizzato da Ballard, è diventato realtà. Che significa? Lo scrittore in un’intervista del 1982 — ma c’era arrivato da tempo — lo spiegava così: «La tv domina ed è vista da tutti per tutto il maledetto tempo che gli resta libero... La pubblicità è molto potente... Il volume e il ricambio di immagini, il bombardamento costante sono enormi. La pressione della distribuzione commerciale è tremenda. Noi siamo vittime di questo sovraccarico informativo che ha appiattito la vita della gente. È l’unica realtà che viviamo da queste parti: paesaggio mediatico».
Anni prima, proprio in quel testo tradotto da Caronia, Ballard indagava «i punti di incontro tra i media e il nostro sistema nervoso», cercando di dare senso ad alcune morti mediatiche degli anni 60: da Marilyn a JFK. Nel libro, uscito nel ’70 in Inghilterra e nel ’72 negli Usa, e lì ritirato dal commercio, Ballard inserì lo scritto del ’68 «Perché voglio fottere Ronald Reagan», in cui vaticinava l’elezione alla Casa Bianca dell’allora governatore californiano. Intuizione fuori tempo massimo all’epoca della ristampa del volume a San Francisco nel ’90. Ecco: per il gioco sulle «profezie avverate» non vale... Ma conta davvero qualcosa?
Ammesso che un genere letterario abbia una missione, quella della fantascienza qual è? Fare previsioni indovinate? Jules Verne parlò di viaggi sottomarini e spaziali in anticipo sulla tecnologia necessaria a realizzarli e immaginò l’aria condizionata. H. G. Wells scrisse di bomba atomica nel 1914 in La liberazione del mondo, dove trova posto anche l’uso industriale dell’energia nucleare e gli sconvolgimenti che la scoperta avrebbe comportato. Invece chi pensò a viaggi nel tempo e teletrasporto, o diede vita a marziani e replicanti pare sbagliasse: Marte è deserto e dei Nexus 6, ideati per terminare il loro ciclo nel 2016 (almeno nel film Blade Runner), a primavera 2012 non c’è traccia. In ogni caso, Orwell o Huxley oggi paiono profeti migliori di Verne. Almeno a Caronia.
«Verne inventava ordigni futuri. Ma partiva da modelli presenti: aveva in mente idee e prototipi che circolavano al suo tempo» dice Valerio Evangelisti, che con il ciclo di Eymerich (ma non solo) è fra i pochi autori italiani di fantascienza. Ma il punto, dice, è un altro. Il tratto distintivo della narrativa fantascientifica è il suo massimalismo, la capacità di affrontare grandi temi — crisi economiche, imperialismo, automazione produttiva — fornendo «strumenti per interpretare il reale, viverlo e trasformarlo». Come il cyberpunk, ultima grande stagione della science fiction, ormai esaurita. «Fu un’indagine sui possibili sviluppi dell’informatica come connessione uomo-macchina — dice Evangelisti —. La corrente è estinta, ma i suoi temi sono stati recepiti dalla società. Quando è nato e si è affermato il web c’erano giovani, forti di letture cyberpunk, già pronti a calarsi nella nuova realtà, viverla, usarla per i propri scopi e crearvi comunità. Impiegando una terminologia ricavata dai romanzi».
C’è un verso scritto sui muri di Milano da Ivan, poeta d’assalto, che recita: «Il futuro non è più quello di una volta». Non è detto sia un male. Non per Tullio Avoledo, autore di romanzi ai confini del genere: «I tg parlano di clonazione, compriamo navigatori satellitari, Gareth Edwards ha fatto un film, Monsters, ambientato in città ridotte a cumuli di macerie; gli ho chiesto come aveva ricostruito le scene e mi ha detto che si spostava seguendo le previsioni degli uragani e filmava le devastazioni. Noi non ce ne rendiamo conto perché ci siamo arrivati per gradi, ma abitiamo un mondo alieno se solo si prova a guardarlo con gli occhi di chi è vissuto qualche tempo fa». La fantascienza, però, non è finita. «La capacità di immaginare il futuro forse manca a qualche scienziato, ma chi scrive può indicare prospettive. Quando nacque questa letteratura, la scienza pareva la panacea per tutti i mali. Con Hiroshima emerse il lato oscuro del progresso e la science fiction divenne più sociale. Oggi può essere un vaccino nei confronti del futuro, inoculare sane paure. Uno scienziato tedesco a Norimberga disse che se Hitler avesse chiesto di creare enormi condotti per portare sangue umano loro si sarebbero preoccupati solo di problemi tecnici. Uno scrittore si chiede da dove viene il sangue...».
Mario Porqueddu