Stefano Paolo Giussani, Corriere della Sera 01/04/2012, 1 aprile 2012
QUEI TRENTATRE’ CAMERIERI ITALIANI AFFOGATI COL MIRAGGIO DI NEW YORK
«Ci rivedremo a New York!». Nel vocio dove si mescolano un po’ tutte le lingue d’Europa, la frase in italiano è suggellata da un abbraccio tra Sebastiano, che l’ha pronunciata e la sua Argene. Una carezza e un bacio che vorrebbero essere un arrivederci e sono invece un frettoloso addio che unisce due giovani sul ponte lance della RMS Titanic.
«Emilio, he’s my friend, save him!». Passano poco meno di tre ore e torna un altro suono italiano, non c’è più nessun vocio. Questa volta la frase fende il silenzio e il gelido buio nord Atlantico. È la voce della miliardaria Madeleine Astor che prega i marinai della sua scialuppa di salvare il suo amico Emilio. Nel mezzo di queste due frasi ci sono oltre 1500 vittime e il più famoso naufragio della navigazione civile.
C’erano quaranta nostri connazionali a bordo, se ne salvarono solo due. Queste sono le loro storie. Il grosso del numero era composto dallo staff di sala del ristorante à la carte di prima classe. Il più grande e lussuoso transatlantico che avesse mai solcato i mari, con finiture e suite in grado di rivaleggiare con i più fastosi alberghi della Belle Epoque, aveva un ristorante eccellente gestito dall’italiano Luigi Gatti: «Aveva lasciato Montalto Pavese a 16 anni e aveva fatto fortuna a Londra costituendo una catena di ristoranti — racconta il pronipote Angelo Gatti — sul suo corpo, sepolto ad Halifax, fu ritrovato un dollaro conservato ancora da mia madre come una reliquia».
Quando Luigi si imbarca, a 37 anni, seleziona i migliori camerieri conosciuti a Londra. È emblematica la foto di gruppo prima di salpare. Gatti e altri 33 nostri connazionali posano con orgoglio, ritratti nel salone di prima classe del transatlantico. Sono professionisti tra i 17 e i 43 anni e coronano il sogno di servire ai tavoli del più prestigioso ristorante che si potesse trovare. Alcuni non hanno i baffi, vietati a chi serve ai tavoli interni ma tutti hanno nello sguardo la soddisfazione di essere the best, i migliori. Tra loro c’è Ugo Banfi, 24 anni, ricordato ancora da una lapide nel cimitero della natia Caravaggio. È uno dei fiori all’occhiello del ristorante, parla sette lingue e per affidargli la direzione di sala il Gatti ha falsificato un documento. C’è Emilio Poggi, ventottenne di Calice Ligure. Nella sua tasca fu trovato un cavatappi con ancora il tappo avvitato: il sughero di una delle ultime bottiglie aperte la notte del 14 aprile 1912 è custodito oggi dai parenti nel paesino in provincia di Savona. Nelle liste scorrono nomi, età e pezzi d’Italia. Anche Antonio Allaria, 22 anni, era ligure. Giovanni Basilico, 27, Giulio Casali, 32, Giovanni De Marco, 20, Francesco Donati, 17, Enrico Ratti, 21, Ettore Valvassori, 35, erano lombardi. Poi c’erano i piemontesi Battista Bernardi, 22 anni, Giovanni Fioravanti, 23, Vincenzo Giardino, 31, i fratelli Alberto e Sebastiano Peracchio, di 20 e 18 anni, Alfonso Perotti, 20, Rinaldo Ricaldone, 21, Angelo Rotta, 23, Giovanni Saccaggi, 24 Giovanni Salussolia, 25, Candido Scavino, 42, Giacomo Sesia, 24 anni. Il quarantatreenne Pietro Bochet era valdostano. Francesco Nannini, 42 ed Ercole Testoni, 23, venivano dalla Toscana. Roberto Urbini, 22 e Roberto Vioni, 18, erano romani. Del sommelier Luigi Zarracchi, 26, conosciamo solo il suo ultimo indirizzo a Londra. Nessuno di loro si salvò. Gli ordini erano chiari: ai membri dell’equipaggio non addetti ai soccorsi non fu neppure concesso avvicinarsi alle scialuppe.
Poi ci sono i passeggeri. Alfonso Meo era un costruttore di strumenti musicali di Potenza, viaggiava in terza classe come il trentaquattrenne abruzzese Luigi Finoli, il venticinquenne comasco Giuseppe Peduzzi e il ventiquattrenne Francesco Cerotti. Neanche loro poterono avvicinarsi ai mezzi di soccorso perché i cancelli dei ponti inferiori, quelli appunto della terza classe, furono aperti solo quando tutte le scialuppe si erano già allontanate. Non andò meglio in seconda classe al trentenne Serafino Mangiavacchi, di Firenze, bancario e al lucchese Sebastiano De Carlo. Fu lui a pronunciare quell’«Arrivederci a New York» mentre sul ponte stava montando il panico. La sua storia è struggente. Tornò in Italia dagli Stati Uniti a ventiquattro anni per sposare la coetanea Argene Genovese. Si separarono sul ponte, quando un marinaio intimò un perentorio «solo donne e bambini». Lei sopravvisse, Sebastiano non rivide mai l’America. Nel ricordo di quella notte, Argene chiamò Salvata la figlia che aspettava da lui.
Un altro che ce la fece è Emilio Portaluppi. La sua è una storia sorprendentemente simile a quella del film Titanic di Cameron, dove il Jack Dawson impersonato da DiCaprio disegna su un taccuino e frequenta la prima classe mostrando alla bella e ricchissima Rose-Kate Winslet le sue creazioni. Emilio, partito anni prima da Arcisate (Va) per tentare fortuna come lavoratore della pietra, si trovò nelle stesse circostanze. Il talento per il disegno e la manualità lo portarono in contatto con gli Astor, che vollero il professionista lombardo a lavorare nella loro villa di Newport. Johan Jacob Astor era non solo il proprietario dell’hotel Astoria ma anche un uomo tra i più ricchi d’America. Il miliardario, di ritorno dall’Europa come il nostro Portaluppi, non volle mancare al viaggio inaugurale dell’orgoglio dei mari britannico. Il più ricco a bordo, sapendo che anche Emilio doveva tornare in America, invitò l’italiano a raggiungerlo. Nonostante Portaluppi avesse un biglietto di seconda classe, viaggiò da signore ospite del miliardario e della giovane moglie.
Conosciamo tutti questi dettagli perché Emilio li raccontò ai giornalisti che lo intervistarono molti anni dopo. Non entrò mai nel particolare dell’intimità con lady Astor ma non mancò di raccontare come, in quella tragica notte, vide cose indimenticabili che segnarono il resto della sua vita. Nel testimoniare la vicenda tratteggiò scene terribili come il tuffo nel nero delle acque gelide, i tonfi dei corpi che cadevano attorno spaccando le ossa degli altri già in acqua, lo sguardo del neonato ancora vivo aggrappato al cadavere della madre. Non tralasciò neppure la parte migliore del racconto, quella in cui, nel buio della notte atlantica, con il Titanic già affondato e tutti quelli in acqua morti assiderati, udì la voce dalla scialuppa. Qui il parallelismo col film si spezza. L’epilogo è diverso, la drammaticità degli eventi no. La realtà ha superato la fantasia degli sceneggiatori. Nessun kolossal ha potuto vincere sui ricordi e le angosce dei superstiti che portarono da allora nel cuore la crepa che l’iceberg inferse al bellissimo Titanic e i suoi oltre 1.500 sfortunati passeggeri...
Stefano Paolo Giussani