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 2012  aprile 01 Domenica calendario

2 articoli – PIAZZA FONTANA, IL FILM CHE DIVIDE. SOFRI: «DUE BOMBE? E’ ASSURDO» - Adriano Sofri, 70 anni il prossimo agosto, dice che «quando il libro uscì, era così pieno di errori di fatto e di interpretazioni oltraggiose che preferii ignorarlo

2 articoli – PIAZZA FONTANA, IL FILM CHE DIVIDE. SOFRI: «DUE BOMBE? E’ ASSURDO» - Adriano Sofri, 70 anni il prossimo agosto, dice che «quando il libro uscì, era così pieno di errori di fatto e di interpretazioni oltraggiose che preferii ignorarlo...». Era il 2009. «Il segreto di Piazza Fontana», autore Paolo Cucchiarelli, annunciava «finalmente la verità sulla strage». E Sofri, scrittore, giornalista, ex leader di Lotta continua condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Calabresi, lesse attentamente, ne pensò malissimo ma tenne fede al suo proposito: lo ignorò. «Ho cambiato idea» fa sapere adesso. E il motivo è «Romanzo di una strage», il film Marco Tullio Giordana che ricostruisce l’attentato di Piazza Fontana. «Dopo il lancio del film, persone stimabili e autorevoli, ma ignare, sono state indotte a raccomandare le scoperte del libro» considera Sofri. «Quel film è destinato a far testo sulla vicenda che racconta. Per questo ne scrivo. Perché si dichiara “liberamente ispirato” al libro di Cucchiarelli nel quale i “riferimenti a fatti e persone reali” sono spaventosamente inesatti». E allora eccole le mille obiezioni dell’ex leader di Lotta continua: 131 pagine per criticare «una farragine di errori», l’uso di «fonti anonime che dicono perfette fesserie» o l’esposizione di tesi che diventano «assurdità bevute con naturalezza». 131 pagine buttate giù d’un fiato e pubblicate con il titolo «43 anni», libro gratis che si scarica online e del quale lui stesso ha anticipato i passaggi principali nella sua rubrica quotidiana sul Foglio e in alcuni blog fra i quali Post, diretto da suo figlio Luca. Lo scrittore e giornalista è convinto che gli autori del film abbiano «voluto segnare una distanza dalle tesi particolari del libro», discostandosi da «punti essenziali». «Tuttavia», scrive, «in una scena finale — la più arbitraria, ai miei occhi: quella del dialogo fra Calabresi e il capo degli Affari riservati, D’Amato — il film ha mantenuto la tesi principale sulla quale il libro è costruito, secondo cui nella strage della Banca nazionale dell’agricoltura, e negli altri attentati che la accompagnarono e la precedettero, si attuò una strategia dell’estrema destra eversiva e degli apparati segreti italiani e stranieri consistente nel "raddoppiare" tutto: due bombe, due borse a contenerle, due attentatori. Uno anarchico, l’altro fascista. Uno intenzionato a fare il botto, l’altro a fare morti. Considero questa tesi insensata». Sul blog di suo figlio, Adriano Sofri spiega che una delle ragioni («Immediata e forte») che lo hanno spinto a scrivere «43 anni» è «difendere la memoria di Pinelli e, allo stato degli atti, di Valpreda. Non perché siano “simboli” e intoccabili e sacri. Ma perché tutto ciò che ne sappiamo depone a favore della loro estraneità alla strage. Tutto ciò che ne sappiamo, a condizione che ci impegniamo a saperlo — ciò che Cucchiarelli si è guardato dal fare, millantando credito come uno scolaro che imbroglia». E ancora: «Cucchiarelli ha fatto entrare Valpreda in una banca con una valigia di esplosivo: le ragioni che ha addotto sono infondate. Ha fatto precipitare Pinelli con una spinta dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, dopo averlo dichiarato a parte del piano esplosivo. Non si fa». Giusi Fasano «NON CI FU UN ORDIGNO SOLO. ME LO DISSERO I SERVIZI» - Nella mia inchiesta su Piazza Fontana non ho scambiato lucciole per lanterne. Per realizzare l’inchiesta ho utilizzato fonti pubbliche, sentenze, perizie, interviste. Nessuna imbeccata né «gola profonda», ma solo il lavoro sulle carte e il confronto con tre persone: il primo magistrato a indagare sulla strage, Ugo Paolillo, l’uomo dei servizi segreti del Viminale che intervenne già la sera della strage a Milano, Silvano Russomanno, e un fascista interno alla vicenda. L’ho interpellato poche volte. Mi ha chiesto di non citarlo e così ho fatto anche perché da lui non ho avuto elementi che non fossero già frutto del mio lavoro. Per iniziare è bastato il dubbio che aveva Emilio Alessandrini, il giudice ucciso da Prima linea nel gennaio del 1979. Alessandrini nella requisitoria scritta nel 1974 si era arreso ai fatti: i reperti, sia pur mischiati, manipolati dei resti delle borse direttamente coinvolte nella esplosione portavano a ipotizzare la presenza di due borse con due bombe. Ipotesi non valutabile però perché l’unico reperto utile a confermare questa doppia presenza, la cerniera della seconda borsa, era stato fatto sparire dall’ufficio del Tribunale di Milano. Alessandrini aveva tenuto conto della perizia stilata, già nel gennaio del 1970, da Teonesto Cerri, che aveva indicato in due le borse «direttamente coinvolte nella esplosione». Sempre Cerri aveva ritrovato alla Bna parte di una miccia e i frammenti di un timer; due oggetti incompatibili con una sola bomba. All’epoca, si parlò di una «doppia dose di esplosivo». Da questi elementi si è snodata l’inchiesta. La sintesi è questa: Piazza Fontana fu una operazione di intelligence che mirava a innescare un golpe, attraverso la predisposizione di un colpevole della strage in carne e ossa e di uno politico, la sinistra. Lo schema è quello delle «operazioni sotto falsa bandiera»; l’abc nelle attività dei servizi segreti. No quindi ai doppi estremismi, no alla riproposizione della pista anarchica, no a «doppie firme» per una sola bomba. Sì a due bombe, una innocua e una assassina; una destinata a scoppiare a banca chiusa e un’altra usata all’impronta. Gli elementi sono moltissimi, a cominciare dal falso manifesto anarchico lasciato il 12 dicembre che compare anche nel film di Giordana che si è liberamente ispirato al libro edito da Ponte alle Grazie. Ho posto a Russomanno la domanda chiave: «Se io scrivessi che quel giorno a Milano alla Bna c’erano due borse con due bombe?». «Lo scriva, così finalmente ci liberiamo di questa storia, la facciamo finita». M’invitò a contattare Antonino Allegra, «che sa tutto», che però non sono mai riuscito a trovare. Era stato proprio Allegra, mi rivelò Paolillo, a dirgli, poco dopo la strage, che era stato usato un potente esplosivo militare. L’inchiesta ha individuato quell’esplosivo in mano ai principali protagonisti fascisti di questa vicenda: si tratta del vitezit 30. Il gruppo fascista è stato assolto nell’ultimo processo nel 2004 perché riuscì a dimostrare che l’esplosivo che aveva, pronto all’uso, poco prima della strage e in viaggio verso Milano, non poteva fisicamente entrare nella cassetta che conteneva la gelignite. Il perito degli ordinovisti fu quasi irridente con i magistrati dicendo che quell’esplosivo poteva essere stato utilizzato il 12 dicembre per «altri attentati mai poi effettuati». Adriano Sofri ha contestato alcuni passaggi del libro. Risponderò pubblicamente. Per ora anticipo io una domanda: che cosa si diceva con Umberto Federico D’Amato quando lo incontrava per — come ha scritto il prefetto — «paurose e notturne bevute di cognac»? Il primo a parlare di quegli incontri è stato Sofri. D’Amato fu l’organizzatore di alcuni degli elementi utilizzati per la campagna contro il commissario Calabresi che aveva iniziato una sua personale controinchiesta sui retroscena della strage poi sparita dal suo cassetto in questura dopo la morte. Per il seguito rinvio alla risposta a Sofri dato che anche a 43 anni dai fatti credo che ancora si possa aprire questa matrioska che racchiude il destino di tanti. Paolo Cucchiarelli Giornalista, è autore di «Il segreto di Piazza Fontana» (Ponte alle Grazie)