Ettore Mo, Corriere della Sera 01/04/2012, 1 aprile 2012
L’ORO DEL NIGER E LA FAME DEI «BIMBI ROSSI» —
La stendono nuda su una panca di legno e prendono le misure del suo minuto, gracilissimo corpo: è alta 67 centimetri mentre è di 9 la circonferenza del braccio come risulta dal nastro che gli hanno appena stretto intorno. Il suo peso inoltre, quando l’appendono al gancio che penzola dal soffitto e la fanno oscillare per qualche minuto mentre lei piange e strilla, è di soli 4,8 chili: troppo poco — stabilisce il manuale pediatrico — rispetto all’età, che rasenta i sette mesi.
Siamo al Creni (Centro Recupero Nutrizionale) di Aguié, un villaggio della Provincia orientale di Maradi, nel reparto di terapia intensiva dove vengono ricoverati bambini e bambine affetti da Kwashiorkor («bambino rosso» nella lingua locale) una malattia che aggredisce l’infanzia sofferente per la grave carenza di vitamine e apporto proteico.
Basta una breve visita al piccolo ospedale di Aguié, gestito da Save the Children (www.savethechildren/niger), dove i piccoli malati giacciono inerti e muti sotto la zanzariera lasciando parlare solo gli occhi, per trovare conferma sullo stato comatoso di un Paese che l’Onu ha recentemente collocato al penultimo posto nella graduatoria delle 187 Nazioni in via di sviluppo più povere del mondo, inaridite dalla siccità e per decenni minacciate dallo spettro della carestia, che non dà tregua a una popolazione di 15 milioni di abitanti.
Sembra non esserci rimedio alla Kwashiorkor — la malnutrizione — che annichilisce circa 6 milioni di persone sparse in un’infinità di villaggi (almeno 7 mila, secondo un recente conteggio) che sono alla fame. Particolarmente colpiti i bambini da uno a 4/5 anni, se si presta fede ai resoconti sulla galoppante mortalità infantile che in Africa sta offrendo una versione aggiornata della strage degli innocenti, soprattutto nei Paesi del Sahel — dal Senegal alla Mauritania, dal Niger al Burkina Faso e poi Ciad, Camerun, Sudan, Etiopia — dove le vittime sono più di 300 mila.
La causa principale della catastrofe viene attribuita alla carestia dell’anno scorso, una delle peggiori degli ultimi decenni, dovuta alla scarsità dell’acqua piovana il cui volume — sostengono gli esperti della Berkeley University — si è quasi dimezzato rispetto ai livelli degli anni 50. Sempre più rade le carovane dei cammelli che muoiono di sete sulle piste infuocate mentre le carcasse delle mucche arrostiscono sul greto dei torrenti in secca.
Raggiungere Aigué non è facile. La pretesa di arrivarci direttamente in volo (come suggeriva la celeste impresa di Saint-Exupéry) è stata subito annullata da una bufera di sabbia che ci ha costretti a dodici ore di macchina sulle sconnesse strade della regione: ma alla fine l’amara realtà dei Creni è tutta nostra. Dove si ha conferma che la buona volontà della gente supplisce a volte alle inadeguatezze, se non addirittura all’assenza di un normale apparato sanitario.
Ha un nome la bimba che vediamo appesa al gancio nell’ospedale-obitorio di Aigué. Si chiama Camilla. L’ha portata Nana, la madre, 35 anni e dieci figli, che dopo una camminata di due ore attraverso la steppa è giunta al «Santuario» con fagottino sulla schiena. Ma la piccola non aveva proprio niente: solo un languore mortale nelle viscere, piene d’aria, che non sarebbe scomparso con le cure mediche. La riaccompagniamo perciò in macchina a Daratou, il suo villaggio, dove uno stuolo di fratelli, sorelline e tutta quanta l’infanzia in grado di reggersi sulle gambe rischia di soffocarla in un tripudio d’affetto.
Manca però il papà che, come tanti altri, è emigrato in Libia o in Nigeria in cerca di lavoro. Tocca all’anziano capo del villaggio, il Signor Chaiboo, che si muove e parla con disinvoltura nonostante i suoi novant’anni, sunteggiare in poche parole la situazione socio-economica della piccola comunità: «Qui non c’è più niente da mangiare — taglia corto — e anche le riserve di acqua potabile sono ridotte al minimo. Ciò spiega, in parte, il flusso sempre crescente degli emigranti: e quando uno cerca lavoro altrove, si porta appresso la famiglia. Da qui almeno una ventina di famiglie se ne sono andate. Abbiamo ora una scuola elementare con 250 alunni. Ma è cominciata l’emorragia e via via i banchi rimangono sempre più spesso vuoti».
Lo stesso lamento sull’emigrazione è possibile coglierlo lungo la strada che porta a Daratou, in una radura dove vedi dei buoi che arrancano faticosamente con una corda legata alle corna per far salire in superficie secchielli colmi d’acqua calati nei pozzi a una profondità di cento metri. Il villaggio abitato da questi contadini-mandriani si è andato spopolando e quest’anno la popolazione di circa 1.800 persone ne ha perse almeno 500, emigrate per lo più in Libia o in Nigeria. Per dare un’idea dell’oscura realtà, il Creni, un po’ come l’Inferno di Dante, è diviso in gironi che qui si chiamano Zone: i casi più gravi sono confinanti in Zona Uno come lo scheletrino di un neonato che respira appena, vegliato dalla madre, il volto irrigidito nel dolore; mentre in Zona Due c’è Mustafa, 6 anni, vittima di una feroce diarrea che lo ha lasciato come inebetito nella sua tutina color inchiostro. Ma qui l’atmosfera è meno truce (Purgatorio?) perché in un angolo ci sono tante mamme che preparano le pappe per i loro bambini, farina zuccherata di miglio e di arachidi destinata ad una bimba di 8 mesi che peserebbe soltanto un paio di chili; in Zona Tre, infine, c’è la chiassosa masnada dei fuori-pericolo e non è di poca consolazione il parere del capo-medico del Centro quando annuncia che l’87% dei suoi piccoli indifesi pazienti «se la caverà».
C’è chi ricorda, ripassando i libri di storia, che cinquemila anni fa il Niger, nonostante il suo clima subtropicale molto caldo e secco, era in gran parte un Paese fertile, con alberi e vaste chiazze verdi poi divorate dal deserto: e che dal tredicesimo secolo vi si installarono i nomadi Tuareg, scendendo con le loro carovane da Nord a Sud. Inquieto, invece, il clima politico a causa soprattutto di Boko Haram, movimento religioso integralista il cui obiettivo finale è l’instaurazione di un regime islamico rigidamente strutturato sulla Sharia. Del resto Boko Haram in lingua Hausa — il loro idioma — significa letteralmente che l’educazione occidentale è niente di meno che «un sacrilegio» o «un peccato».
L’economia nigerina si regge sull’agricoltura, sull’allevamento del bestiame e sull’abbondante estrazione dell’uranio e, più ancora, dell’oro: di quest’ultimo è stata scoperta, nel 2004, una turgida, prodigiosa vena nelle viscere della collina Samira, circoscrizione di Tera, che ha arricchito più che la gente le casse dello Stato. Per il trasporto del prezioso minerale è stata costruita, negli anni 70 e 80, un’autostrada subito battezzata Uranium Highway che dai cunicoli delle miniere sbuca fuori alla periferia della capitale Niamey.
Il maggior gruppo etnico del Niger è, da sempre, quello degli Hausa, costituito per lo più da contadini sedentari che vivono nelle regioni meridionali dove la terra è fertile. Le altre etnie — Fulani, Tuareg, Kanuri, Arabi, Toubou — assommano insieme al 20% della popolazione. «Nelle grandi città, che io sappia — è l’opinione di un giornalista avvicinato a Daratou — non ci sono mai stati conflitti degni di memoria tra le varie organizzazioni: forse la cosa è possibile nelle campagne, dove il rapporto tra contadini e pastori non è sempre idilliaco. Ma si tratta di divergenze superficiali, facilmente rimarginabili».
È stata invece per noi una vera sorpresa scoprire (o meglio, apprendere) che nel Niger ci siano ancora degli schiavi: si parla di 800 mila persone, circa l’8% della popolazione. Ma sento dire che vivono appartati nella selva, in remote e ben nascoste riserve dove i curiosi non sono graditi. Inutile tentare.
Nella sfera delle religioni non esistono conflitti di sorta, neppure marginali: in Niger è l’Islam a farla da padrone. Diffuso nell’Africa settentrionale fin dal decimo secolo, i nigerini hanno assorbito i dogmi e gli insegnamenti del Corano, che ha gradualmente plasmato il loro modo di pensare e vivere. Oggi, oltre l’80% della popolazione è musulmana e la presenza delle comunità cristiane e animiste è ridotta al minimo. Tuttavia il Niger mantiene la propria tradizione di Stato secolare con tutti i crismi della legge. Tolleranza e rispetto per altre fedi e altre confessioni hanno fatto sì che temi delicati come il divorzio e la poligamia non diventassero oggetto di polemiche e speculazioni, che le donne non siano condannate alla segregazione o costrette a coprirsi il capo: e inoltre che sia consentito, a chi lo desideri, di scolarsi una pinta di birra-Niger in santa pace al bancone del pub preferito.
Sembra ora impossibile, col dramma di Aguiè ancora negli occhi e nel cuore, occuparsi di cose che pure riguardano il Niger ma potrebbero sembrare futili: come la minaccia dell’imminente «invasione» del Paese da parte della Cina. Invasione pacifica, s’intende: perché da tempo i sudditi di Mao hanno scelto proprio Niamey come sede dei loro macroscopici investimenti in terra d’Africa.
E infatti l’aereo che stamane ho visto atterrare sulla pista dell’aeroporto veniva da Pechino: e portava uomini e materiale destinati alla raffineria costruita tempo fa dai cinesi. Dietro quel grattacielo, quel palazzo, quella fabbrica, quel ponte, quello stadio, potete star sicuri, ci sono loro, i cinesi, con caterve di soldi.
«E potete anche star certi — bisbiglia il nostro accompagnatore, ferocemente sdegnato — che noi non ne trarremo alcun vantaggio, neanche il becco d’un quattrino».
«L’obiettivo ultimo di Save the Children — riafferma il dottor Marco Guadagnino, responsabile dell’organizzazione umanitaria — è di rafforzare il sistema sanitario pubblico del Niger attraverso il sostegno finanziario, tecnico e logistico».
Ettore Mo