Massimo M. Veronese, il Giornale 1/4/2012, 1 aprile 2012
Se anche in punto di morte inciti la squadra del cuore – «Il gusto non è male...» Il siero della morte, quando deve colpire, mette insieme tre assassini: il primo riduce all’incoscienza il prigioniero, il secondo gli rilassa i muscoli, paralizza il diaframma e blocca il movimento dei polmoni, il terzo gli spegne il cuore
Se anche in punto di morte inciti la squadra del cuore – «Il gusto non è male...» Il siero della morte, quando deve colpire, mette insieme tre assassini: il primo riduce all’incoscienza il prigioniero, il secondo gli rilassa i muscoli, paralizza il diaframma e blocca il movimento dei polmoni, il terzo gli spegne il cuore. É il più umano dei killer a Huntsville, Texas, capitale mondiale della pena di morte, massimo un quarto d’ora e non ci sei più.Jesse Joe Hernandez, 47 anni, già condannato per abusi sessuali sui bambini, se ne è andato così, inchiodato alla pena capitale, la quarta dall’inizio dell’anno, per aver ucciso a botte un bambino di dieci mesi. Gli faceva da baby-sitter, i genitori si fidavano di lui,ma all’esecuzione non hanno voluto assistere. Nessuna pietà per lui e nessun affetto al mondo. Neanche l’ultimo tra gli Abele se l’è sentita di difendere un Caino come Jesse Joe. Così, disteso sul lettino, davanti al boia, ha salutato il suo unico amore, al quale ha giurato fedele per l’eternità: «Forza Cowboys...». Cioè i Dallas Cowboys, la Juventus del football americano, la sua squadra del cuore fino all’ultimo battito. Così si gioca solo in Paradiso dicevano del Bologna calcio. É la prima volta che il bar sport percorre il miglio verde. Non c’è bisogno di parole per lasciare quello che sei, non c’è attimo che valga una vita intera. Vengono così. Consapevoli della fine, irriverenti o rassegnate, o con la spensieratezza di chi non si aspetta alle spalle gli agguati del destino. Le ultime parole, anonime o famose,sfogano l’odio, si consegnano al perdono, raccontano la preoccupazione, prima che il dolore, per chi resta. E c’è chi mente anche in punto di morte, a se stesso prima di tutti, tante volte senza accorgersene, in fondo, cosa vuoi, non si sa mai: «Io morire? Ma andiamo... ne riparleremo più tardi con comodo» l’uscita di scena del poeta Laforgue; «Non mi sono mai sentito meglio » l’addio di Douglas Fairbanks. Nei film recitava l’eroe senza macchia e senza paura. La tristezza è facile perché è una resa, anche se le cose vengono da se, è il giorno della morte che dà alla vita il suo valore. Ma c’è chi combatte fino all’ultimo con le armi dell’ironia. O con quello che gli passa per la testa in quel momento. C’è il fastidio di Petrolini: «Morire a cinquant’anni, ma che vergogna »; la preoccupazione di dare di Socrate: «Dobbiamo un gallo ad Esculapio, non dimenticate di restituirglielo»; e quella di avere di Barnum, principe del circo: «Come sono andati oggi gli incassi al Madison Square Garden?...». Elisabetta I d’Inghilterrase ne andò con un angosciato «tutto quello che ho per un attimo di vita », Auguste Comte se la prese con il destino cinico e baro: «Muoio... che perdita irreparabile», D’Azeglio con la moglie: «Come al solito, quando arrivi tu me ne vado io...». Molière domandò un pezzo di parmigiano, Baudelaire della senape, Cechov si lamentò di non «aver bevuto abbastanza champagne ». Indifferenti all’epitaffio. «Non lasciate che finisca così: raccontate loro che ho detto qualcosa». Parola di Pancho Villa. Amen. Massimo M. Veronese