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 2012  aprile 02 Lunedì calendario

Nel nostro Paese ogni giorno 6-7 milioni di lavoratori rischiano di essere licenziati. Sono i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, liberi professionisti), cioè coloro che in un libero mercato vendono beni o servizi a un cliente che, ritenendosi insoddisfatto, può cambiare il fornitore

Nel nostro Paese ogni giorno 6-7 milioni di lavoratori rischiano di essere licenziati. Sono i lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, liberi professionisti), cioè coloro che in un libero mercato vendono beni o servizi a un cliente che, ritenendosi insoddisfatto, può cambiare il fornitore. Per quale ragione è allora consentito «licenziare» qualunque fornitore senza preavviso e senza indennizzo ed è invece quasi impossibile e costosissimo licenziare un prestatore d’opera incapace, assenteista, pigro o disonesto? Giuseppe Frigerio g.frigerio4@virgilio.it Non capisco perché l’art. 18, con le modifiche di cui si discute e che presto saranno introdotte, non debba valere per gli statali. Esiste una motivazione seriamente sostenibile per questo? Franco Platini platini.franco@libero.it Cari lettori, I vostri quesiti sono diversi, ma sollevano entrambi un problema di eguaglianza e sottintendono che tutti, quale che sia il loro lavoro, dovrebbero essere trattati allo stesso modo. Non credo che sia né possibile né opportuno. Ogni mestiere ha le sue esigenze, le sue caratteristiche, le sue servitù. Il lavoratore autonomo e il libero professionista possono organizzare la loro giornata con margini di libertà che agli operai, nella maggior parte dei casi, non sono consentiti. Fra le ore trascorse dietro il banco di un negozio e quelle passate alla catena di montaggio vi sono differenze che sarebbe ingiusto ignorare e di cui la legge deve tenere conto. Alla domanda di Franco Platini rispondo che anche i dipendenti dello Stato hanno uno statuto dei lavoratori. Si chiama statuto del pubblico impiego e negli ultimi vent’anni ha subito una serie di rimaneggiamenti, fra i quali le misure adottate nei tempi recenti in cui il ministro della Funzione pubblica era Renato Brunetta. La prima differenza è nei metodi di reclutamento. Mentre l’operaio viene assunto sulla base di una scelta discrezionale e individuale, l’impiegato dello Stato dovrebbe essere assunto per concorso. Non sono certo che i concorsi siano tutti capaci di assicurare la scelta dei migliori, ma il legislatore ha deciso che il superamento di un esame pubblico conferisce al vincitore un diritto o almeno un interesse pubblicamente protetto. Non è tutto. Sarebbe difficile applicare all’impiegato dello Stato i criteri del licenziamento per ragioni economiche previsti dalla riforma Fornero. Gli enti pubblici dovrebbero prendere a prestito alcuni criteri di gestione delle imprese private, ma non sono aziende, non devono finanziarsi chiedendo prestiti alle banche, non sono costretti a tenere conto delle oscillazioni del mercato. Se lo Stato decide di sopprimere un ente pubblico (per esempio le province), può collocarne i dipendenti in altri settori della pubblica amministrazione. Se decide che un pubblico dipendente è svogliato, neghittoso, ritardatario o addirittura corrotto, la legge gli offre parecchi strumenti: l’ammonimento, la censura e, in ultima analisi, la destituzione. Lei potrebbe osservare, caro Platini, che lo Stato se ne serve troppo raramente e che la giustizia amministrativa accoglie troppo generosamente i ricorsi del dipendente pubblico punito o licenziato. È vero. Ma questo non è dovuto alla mancanza di una norma. È dovuto al fatto che i dipendenti del pubblico impiego godono di una doppia protezione: i sindacati e il datore di lavoro, vale a dire la classe politica. I primi li difendono perché la forza di una organizzazione sindacale è nel numero dei suoi soci. La seconda, con qualche meritevole eccezione, chiude gli occhi per quieto vivere. La colpa, per usare una espressione aziendale, è del management, non della mancanza di un «articolo 18».