Massimo Gaggi, Corriere della Sera 2/4/2012, 2 aprile 2012
NEW YORK —
«Una strategia per contenere la Cina in Asia? No, non possiamo e non vogliamo. Coi governanti di Pechino è meglio cercare di collaborare, spingendoli ad assumersi le loro responsabilità di nuova potenza» e a rispettare i diritti umani. «Bisogna saper giocare bene le carte in questo nuovo mondo nel quale la collaborazione economica conta più della supremazia militare». Robert Hormats, vice di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato, sdrammatizza il clima di confrontation con la Cina conversando ai margini di un incontro con alcuni giornalisti stranieri a New York.
Eppure l’apertura degli Stati Uniti al regime della Birmania, l’apprezzamento della stessa Clinton per il voto che manda in Parlamento Suu Kyi, vengono interpretati proprio come un’operazione i cui obiettivi sono più geopolitici che vincolati al ritorno della democrazia nel Paese asiatico. Affermando che «anche i regimi più repressivi possono riformarsi, anche le società più chiuse possono aprirsi», il Segretario di Stato Usa ieri ha offerto una straordinaria apertura di credito al governo che ha sostituito la giunta militare.
Non c’è dubbio che la mossa di Washington miri a riavvicinare la Birmania all’Occidente, allentando le sanzioni decise all’indomani della svolta autoritaria del 1990, quando i risultati dell’elezione stravinta dal partito di Suu Kyi furono annullati e i leader di quel movimento politico incarcerati. Ma, più che prendere l’iniziativa, Washington ha reagito con pragmatismo alla mossa del presidente del «nuovo corso», Thein Sein: un ex generale, leader di un governo solo formalmente civile che, però, si è convinto che il suo Paese ha tutto l’interesse a riallacciare i rapporti con l’Occidente per sottrarsi all’influenza della Cina, un «vicino» sempre più ingombrante. E che, poco dopo essere arrivato al potere, ha cominciato a scarcerare i detenuti politici.
Con la sua visita a dicembre nel Paese e la decisione di riaprire dopo oltre vent’anni l’ambasciata Usa nella capitale birmana, Hillary Clinton ha accolto la mano tesa di Thei Sein, fissando al tempo stesso alcuni paletti per la cancellazione delle sanzioni. Il primo era proprio quello del voto di ieri. Che, benché non privo di irregolarità, è stato sostanzialmente «promosso» dagli osservatori. Certo, nonostante Suu Kyi abbia vinto in tutti i 128 distretti elettorali del suo collegio (salvo uno) e il suo partito abbia conquistato quasi tutti i seggi in palio, il peso della National League for Democracy in un Parlamento ancora dominato dai militari resterà assai limitato. Il vero banco di prova arriverà solo con le elezioni generali del 2015.
Una scommessa «a termine» certamente rischiosa per gli Stati Uniti. Ma Washington pensa di vincerla non solo dosando l’arma delle sanzioni, ma grazie al clima democratico ormai diffuso nell’Asean, l’alleanza regionale del Sud est asiatico. Man mano che i fattori di democrazia vanno diffondendosi, dalle Filippine all’Indonesia, dalla Malesia a Singapore, diventa sempre più difficile per i dittatori «blindare» la Birmania in un’area sempre più libera e prospera.
Massimo Gaggi