Angelo Panebianco, Corriere della Sera 2/4/2012, 2 aprile 2012
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere, 31 marzo), ribadendo che il circolo virtuoso della crescita economica non potrà mettersi in moto se non ci si decide a tagliare la spesa pubblica e ad abbassare le tasse (anziché continuare ad aumentarle), hanno anche osservato che ciò richiederebbe un contesto istituzionale appropriato
Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere, 31 marzo), ribadendo che il circolo virtuoso della crescita economica non potrà mettersi in moto se non ci si decide a tagliare la spesa pubblica e ad abbassare le tasse (anziché continuare ad aumentarle), hanno anche osservato che ciò richiederebbe un contesto istituzionale appropriato. È difficile non mettere in relazione quella giusta osservazione con l’accordo di massima raggiunto dai leader di Pd, Pdl e Udc sulle riforme istituzionali. Un accordo di cui non sono ancora noti certi dettagli, ma la cui ispirazione di fondo è chiarissima. Almeno per chi conosce la storia e le tradizioni del Paese. L’accordo annunciato avrebbe potuto benissimo essere concepito negli anni Ottanta dello scorso secolo quando democristiani e comunisti erano ancora le forze dominanti. Proprio da quelle due esperienze provengono diversi protagonisti dell’accordo di oggi. E le tradizioni culturali non sono acqua. L’accordo previsto, con il ritorno alla proporzionale e ai governi fatti e disfatti in Parlamento, assicurerà all’Italia un futuro di esecutivi deboli e brevi, di perenne instabilità (si veda l’ottima analisi di Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore del 28 marzo). Una condizione che abbiamo ben conosciuto per un quarantennio, all’epoca della cosiddetta Prima Repubblica. Scordatevi per sempre i «governi di legislatura», quelli che durano per tutto l’intervallo che va da una elezione all’altra. Bene, anzi male. Ma che c’entrano le riforme istituzionali previste con l’impossibilità di tagliare seriamente la spesa pubblica? C’entrano. Perché la spesa pubblica potrebbe essere tagliata solo da governi istituzionalmente forti che possiedano tutti gli strumenti necessari per imporre le proprie scelte e che abbiano la certezza di durare per una intera legislatura. Governi come quello uscito dalle recenti elezioni in Spagna, ad esempio. Le riforme prospettate qui da noi vanno nella direzione opposta. Non ci si faccia ingannare dagli specchietti per le allodole, disseminati qua e là. Ad esempio, dalla prevista «sfiducia costruttiva». È un marchingegno (talvolta) utile per rafforzare i governi ma solo a due condizioni: che in Parlamento siano rappresentati pochissimi partiti, coesi e disciplinati, e che una sola Camera (e non tutte e due, come prevede invece l’accordo) sia abilitata a fiduciare o a sfiduciare gli esecutivi. Altrimenti, la «sfiducia costruttiva» è solo un pasticcio, una norma aggirabile con facilità. Non meno truffaldina di quella che prevede l’indicazione del candidato premier sulla scheda. Il bipolarismo, di cui ci si vuole sbarazzare, non è un ideale estetico. È una concretissima esigenza. Solo se la competizione politica ha una struttura bipolare, gli elettori possono esercitare il potere che la democrazia affida loro: quello di cacciare il governo che li ha delusi mettendo al suo posto l’opposizione. Inoltre, il bipolarismo è una condizione necessaria (ma non sufficiente, come abbiamo sperimentato in Italia negli ultimi diciotto anni) per avere governi forti. Il governo forte è, a sua volta, una necessità per una democrazia bene funzionante e molti problemi italiani sono sempre dipesi dalla debolezza istituzionale dei governi. Ma il bipolarismo, nei suoi diciotto anni di vita, non ha forse funzionato male? È vero ma fra le ragioni va anche ricordato l’attivo sabotaggio attuato dagli stessi che oggi ne denunciano con soddisfazione il fallimento. Non si può fare, come facemmo noi nei primi anni Novanta, una riforma maggioritaria e poi pretendere di non spazzare via le regole consociative su cui si regge il Parlamento. Non si può fare una riforma maggioritaria mantenendo però un sistema di finanziamenti che incentiva la frammentazione partitica. Non si può fare una riforma maggioritaria e poi negare ai primi ministri, come abbiamo sempre fatto, i poteri istituzionali di cui dispongono il premier britannico, il cancelliere spagnolo o il presidente francese. Noi abbiamo oggi una «partitocrazia senza partiti», raggruppamenti politici che hanno mantenuto l’antica funzione di uffici di collocamento, di distributori di posti e prebende (lo dico senza moralismi: tutti i partiti del mondo fanno anche questo) ma hanno perduto l’insediamento sociale, i forti legami con la società che avevano i partiti di un tempo. Partiti siffatti hanno bisogno, ancor più di quelli della Prima Repubblica, di contare sulla spesa pubblica come strumento di consenso elettorale. Nulla di meglio, allo scopo, di un ritorno al sistema proporzionale e alle pratiche spartitorie che esso favorisce. Perché rischiare, col maggioritario, di essere esclusi a lungo dal potere e, per conseguenza, dal controllo sulle risorse pubbliche? Ciò che realmente ci dice l’accordo sulle riforme istituzionali è che mentre il mondo esterno è drammaticamente mutato i nostri principali raggruppamenti politici, e le loro rispettive clientele, pensano come se nulla fosse accaduto negli ultimi venti anni. Alcuni addirittura raccontano che, ritornando ai vecchi riti, si potranno anche resuscitare quei legami fra partiti e società che non esistono più da tempo. Ciò però è falso: quei legami non sono ricostituibili. Perché, insieme al mondo esterno, è cambiata la società italiana. Una classe politica all’altezza delle sfide incombenti proporrebbe altro da quanto ci viene ora cucinato. Proporrebbe una buon legge elettorale maggioritaria, una drastica riforma del finanziamento dei partiti, e l’abbandono del parlamentarismo puro a favore o di un autentico sistema di cancellierato (autentico: non la caricatura da noi inventata che chiamiamo «modello tedesco») o di una qualche forma di presidenzialismo. Per assicurare alle cariche di governo un maggiore potere decisionale ma anche quel carisma che è stato definitivamente perduto dai partiti. E invece no. Ci propongono una versione della «Repubblica dei notabili». Una simil III Repubblica francese (ottocentesca) che soddisferà forse gli istinti manovrieri, e il gusto per gli intrighi parlamentari, di questo o quel leader, ma che non ci porterà da nessuna parte.