Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  aprile 01 Domenica calendario

LIBRO IN GOCCE

Numero 36 (Gianpiero Dalla Zuanna e Guglielmo Weber, «Cose da non credere. Il senso comune alla prova dei numeri»)


Buon senso e senso comune «Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune» (Alessandro Manzoni I promessi sposi, cap. XXXII)

Legami di sangue Paesi dove i legami di sangue sono forti: Penisola Iberica, Italia, Balcani, Grecia, paesi ricchi dell’estremo Oriente (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, e regioni ricche della Cina come Hong Kong e Macao). I legami deboli sono invece prevalenti nei paesi dell’Europa centrale e settentrionale e in Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda. «Anche nelle zone a deboli legami di sangue genitori, figli e fratelli si vogliono (quasi) sempre bene. Quel che cambia è il modo in cui amore e affetto si concretizzano in rapporti sociali. Nei paesi a legami forti i parenti si sentono e si vedono spesso, scambiandosi e regalandosi di frequente beni, servizi e appoggio morale. Lo stesso non accade, o accade in modo molto meno intenso, nei paesi a legami deboli, dove può accadere che parenti stretti che vivono nella stessa città si vedano solo a Natale o per il Giorno del ringraziamento».

Famiglie Non è vero che in Italia non ci sono più le famiglie di una volta. A differenza di quanto accade nei paesi nordici e anglosassoni, «il 70% delle persone con più di trent’anni, con la madre ancora in vita, risiede a meno di 10 km da lei. In Francia e in Germania, la stessa proporzione non supera il 45%». Di più: «Negli anni Novanta, la percentuale di nuovi coniugi che vanno ad abitare nello stesso comune di almeno un genitore è altissima (86%), praticamente la stessa dei matrimoni celebrati negli anni Trenta».

Trionfi coniugali In Italia il culmine dei trionfi coniugali si ha con la generazione nata nel 1950, nella quale restano nubili sono il 7 per cento delle donne contro il 14 per cento della generazione delle loro mamme e il 19 per cento di quella delle loro nonne.

200 fiorini Un tempo, in Val Pusteria, per sposarsi c’era bisogno del permesso dell’autorità comunale o distrettuale, che di norma veniva negato a chi non aveva un capitale di almeno 200 fiorini. Di conseguenza, come mostra il censimento del 1880, le nubili e celibi tra i 41 e i 50 anni raggiungevano l’incredibile quota del 50 per cento.

Convivenze Un’indagine svolta a Milano nel 2000 ha mostrato che già a fine anni Novanta metà dei matrimoni erano stati preceduti da un periodo più o meno lungo di convivenza, mentre questa percentuale è ancora lungi dall’essere raggiunta, dieci anni dopo, nell’Italia del Sud.

Sesso Non è vero che i nostri figli fanno sesso già alle medie. «Può accadere che chi raccoglie dati su campioni italiani di sedicenni (...) proclami urbi et orbi che l’età media del primo rapporto sessuale dei giovani si è ormai abbassata a 14 anni. Peccato che il calcolo venga fatto solo sul gruppo dei sedicenni che hanno già avuto rapporti sessuali, ignorando il 70-80% che ancora non li ha avuti». Infatti «se lo stesso gruppo fosse stato intervistato attorno al diciottesimo compleanno, l’età media sarebbe stata di sedici anni, mentre se l’intervista fosse stata fatta al venticinquesimo compleanno, l’età media sarebbe risultata di 18».

Figli 1 In Italia dal 1974 nascono meno di due figli per donna, e fra il 1993 e il 2003 ne sono nati addirittura meno di 1,3.

Figli 2 Non è vero che gli italiani fanno meno figli perché sono egoisti. «L’egoismo c’ entra poco, anzi è vero l’opposto. In Italia nascono pochi figli perché si vuole troppo bene ai bambini. Le coppie sono molto titubanti rispetto alla prospettiva del secondo, del terzo o del quarto figlio, perché vorrebbero per loro un futuro di alto livello, e sentono di essere in questo poco aiutate, sia dallo Stato, sia dal mercato». Le esperienze degli altri paesi dimostrano che sono le politiche familiari a fare la differenza. «Non a caso oggi nei 10 paesi più prosperi del mondo nascono in media più di 1,8 figli per donna». Quasi un terzo più che in Italia. Dove, peraltro, è falsa anche l’idea della «società del figlio unico»: i bambini senza fratelli sono il 13%. Un sesto.

Germania In Germania nei primi nove mesi del 2010 sono nati 510 mila bambini, 20 mila in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nello stesso periodo, in Italia, le nascite sono calate del 3 per cento. «Perché le coppie tedesche, in un anno di crisi come il 2009, hanno deciso di concepire un numero così alto di figli, comportandosi in modo opposto rispetto alle coppie italiane? [...] Non si può escludere che questo piccolo baby boom sia in parte legato all’assegno parentale, introdotto il 1° gennaio 2007. Per ogni nuova nascita, lo stato tedesco versa l’intero stipendio fino a un tetto di 1.800 euro mensili a uno dei due genitori che resta a casa da lavoro, fino ai 14 mesi mesi di vita del bambino. Ciò vale per tutti i lavoratori dipendenti, anche a tempo determinato. [...] Proprio la crisi, aumentando la paura di perdere il lavoro, potrebbe aver incoraggiato le coppie tedesche ad anticipare un concepimento, per avere 14 mesi di stipendio garantito».

Francia In Francia a parità di reddito – e con l’esclusione dei più ricchi – chi non ha figli o ne ha solo uno, ha un carico fiscale sensibilmente più elevato di chi ha tre, quattro o più figli.

Vecchi 1 Dal 1980 al 2010 gli italiani con più di 80 anni sono triplicati, raggiungendo oggi i 3 milioni e 500mila. L’Istat stima che fra trent’anni saranno 6 milioni e 600 mila e la vita media supererà gli 83 anni per gli uomini e gli 88 per le donne.

Vecchi 2 È diffusa l’ opinione che l’invecchiamento della popolazione comporti una riduzione del reddito pro capite. Ma gli anziani, soprattutto se in buona salute grazie al progresso medico, possono essere una risorsa attiva per le famiglie e consumatori autonomi capaci di spingere verso l’alto la domanda.

Baby pensioni Sono lontani i tempi in cui c’ era chi andava in pensione con 15 anni, 6 mesi e un giorno di contributi, e oggi il timore diffuso è che in futuro sarà impossibile ritirarsi dal lavoro. Falso: l’ innalzamento dell’età pensionabile è finalizzato a garantire una pensione sicura ai giovani. Sono state proprio le «baby pensioni» a mettere a rischio al previdenza.

Rottamare gli anziani-giovani «La scelta di rottamare gli anziani più giovani, cioè di indurli ad andare in pensione prima, per creare posti di lavoro per i giovani, è controproducente. Infatti, tanto più alta è la quota di pensionati rispetto alla popolazione, tanto più alti saranno i contributi pensionistici o le tasse sui redditi di chi lavora e tanto minore sarà l’occupazione in equilibrio (per il classico effetto distorsivo delle tasse sul reddito da lavoro). In altri termini, non è un caso che gli stipendi netti in Italia siano relativamente bassi, mentre le imprese si lamentano dell’elevato costo del lavoro: sul lavoro dipendente gravano contributi pensionistici elevati e imposte varie e onerose. Mandare più persone in pensione non aiuta certo».

Rottamare gli statali «Nell’ambito del settore pubblico, la richiesta di pensionare i lavoratori anziani con stipendio molto elevato e produttività molto bassa, è vista come un ottimo modo per far posto ai giovani. Tuttavia, se si pensiona uno statale con 40 anni di contributi che guadagna una cifra annuale pari a 100, e su questi 100 ne versa 10 di contributi, se va in pensione prende 80. Se il lavoratore è particolarmente improduttivo, possiamo contabilizzare in 30 il valore dei servizi che erogava. Se lo mandiamo in pensione, risparmiano quindi 100 di stipendio, ma diamo 80 di pensione e perdiamo 10 di contributi. Quindi dei 100 risparmiati ne restano 10. Con questa cifra dovremmo assumere un giovane che produca servizi che valgono 30, per non ridurre la quantità offerta di servizi».

Depressi A parità di età, ci sono più depressi tra i pensionati che tra i lavoratori.

Risparmi Gli italiani risparmiano molto («da brave formichine accumulano mediamente fra il 10 e il 18 per cento del loro reddito»). E spesso investono i risparmi in case. Una strategia che però si dimostra tutt’altro che sicura, come insegna la recente esperienza della Spagna, e nemmeno saggia, perché blocca i risparmi in una forma difficilmente liquidabile. «Dunque, come recita il detto: meglio non mettere tutte le uova nello stesso paniere».

Ricchezza immobiliare Le percentuali di famiglie sopra i cinquant’anni di età che investono in attività finanziarie diverse dal conto corrente passano dall’80 per cento della Svezia al 10 per cento della Grecia. Nei paesi dell’Europa centrale e orientale le percentuali oscillano fra il 50 e il 70 per cento – sono invece del 20 per cento in Italia e Spagna. Le conseguenze di questa scarsa partecipazione finanziaria sono particolarmente rilevanti, perché generano un accumulo abnorme di ricchezza immobiliare: in Italia, Spagna e Grecia più dell’80 per cento della ricchezza detenuta dalle famiglie oltre i 65 anni di età è investita nel mattone, a fronte del 40 per cento di Svizzera e Paesi Bassi, del 50 per cento di Svezia e Danimarca, del 60 per cento di Austria, Belgio e Francia.

Bomba demografica 1 Tanti temono la «bomba demografica che ci distruggerà», i numeri dicono invece che con le previsioni apocalittiche occorre andarci piano. Per cominciare, con l’idea di Thomas Malthus che crescano più in fretta le bocche da sfamare che il cibo. Un esempio? «In Italia, i quintali di granoturco prodotti per ettaro passano da 9 nel 1861, a 12 nel 1911, a 25 nel 1961, addirittura a cento nel 2011, più che decuplicati nel secolo e mezzo di unità nazionale». Di più: «Secondo i dati della Fao e delle Nazioni Unite, nel cinquantennio 1961-2011 il cibo prodotto nel mondo è più che triplicato, mentre la popolazione è "solo raddoppiata". Di conseguenza, ogni uomo di oggi ha a disposizione - in media - quasi il 50% in più di cibo rispetto a cinquant’ anni fa». Il guaio, semmai, sta nel paradosso di Trilussa: «Seconno le statistiche d’ adesso / risurta che te tocca un pollo all’ anno: / e se nun entra nelle spese tue / t’ entra ne la statistica lo stesso / perché c’ è un antro che ne magna due».

Bomba demografica 2 L’idea che la demografia dei paesi poveri sia destinata a sommergere il pianeta va preso con le pinze. Sia chiaro: la crescita della popolazione va tenuta sotto controllo. Ma dai numeri «viene contraddetta un’idea cardine del modello di Malthus, ossia che il miglioramento economico spinga le coppie ad avere più figli». Oggi la popolazione del pianeta sta mediamente meglio rispetto a trent’anni fa. Si pensi all’ India, che favorendo «la democrazia, l’istruzione e l’agricoltura, è passata da 390 milioni di abitanti nel 1947 al miliardo attuale» e dopo essere stata il paese delle carestie, «oggi esporta cereali in Medio Oriente e Africa» ed è destinata alla più impetuosa crescita economica dei prossimi decenni. O alla Cina, passata dalla fame alla Ferrari Testarossa. Eppure, «fra il 1980 e il 2010 il numero medio di figli per donna nei paesi in via di sviluppo è passato da 5,1 a 2,9. La rapidità e la forza di questo declino fa ancora più impressione se si considerano alcuni grandi Paesi islamici, che nell’ immaginario collettivo dell’Occidente vengono visti come arretrati, sia dal punto di vista culturale che da quello economico e demografico. Sempre nel trentennio 1980-2010, il numero medio di figli per donna è passato da 4,5 a 2,1 in Indonesia, da 6,3 a 2,3 in Bangladesh, da 6,6 a 1,8 in Iran, da 5,6 a 2,8 in Egitto, da 5,7 a 2,3 in Marocco. Nel giro di appena trent’anni, seicento milioni di persone - gli abitanti dei cinque paesi appena citati, popolosi come l’Europa senza la Russia - sono usciti dal mondo di Malthus, entrando a vele spiegate nella demografia contemporanea».

Immigrati Nel 2009 e 2010, anni di crisi economica, «ogni giorno più di 1000 stranieri si sono iscritti all’anagrafe dei comuni italiani, e ogni anno sono nati 100.000 bambini con almeno un genitore straniero su 570.000 nascite totali». Oggi nel nostro paese vivono più di cinque milioni di stranieri, e almeno 800 mila di loro sono immigrati nel biennio 2009-10. L’8% degli abitanti dell’Italia sono stranieri, più o meno come in Germania, in Inghilterra e in Francia. «Senza gli immigrati, a causa della bassa natalità, gli abitanti dell’Italia sarebbero invecchiati assai più rapidamente, con drammatiche conseguenze per tutto il sistema economico e sociale.

Gli stranieri non «rubano il lavoro» a nessuno. «Le ricerche mostrano che nel Centro-Nord e in interi settori di impiego gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno, ma fanno lavori che gli italiani possono permettersi di non fare. Un esempio numerico è più chiaro di molte parole. Nel quinquennio 2004-8 gli occupati dipendenti esordienti del settore privato del Veneto con meno di trent’anni sono stati 65 mila ogni anno. Di questi 65 mila nuovi posti di lavoro, 43 mila sono stati occupati da giovani italiani e 22 mila da giovani stranieri. Venticinque anni prima, negli anni 1979-83, nel Veneto sono nati ogni anno 43 mila bambini, praticamente tutti di nazionalità italiana, con una fecondità media di 1,41 figli per donna. Se nel 1979-83 i genitori veneti avessero avuto un numero di figli sufficiente per rimpiazzarli (ossia 2,10 figli per donna), nel Veneto sarebbero nati 64 mila bambini l’anno: quelli sufficienti a coprire, venticinque anni dopo, il fabbisogno di lavoratori. Invece, queste 21 mila mancate nascite sono state «sostituite», venticinque anni dopo, dall’ingresso nel mercato del lavoro di altrettanti giovani stranieri. Ciò non è avvenuto nel Sud. In un’economia più fragile, meno dinamica, in larga misura precaria e irregolare, gli stranieri spesso sostituiscono i lavoratori italiani, perché si accontentano di salari ancora più bassi e accettano condizioni di lavoro disumane. Si realizza quello che sembra un paradosso, con l’ingresso di nuovi immigrati – sia pure in misura molto più contenuta rispetto alle aree più ricche del paese – disponibili a fare lavori manuali, pur in presenza di una forte disoccupazione degli italiani».

Assimilazione C’è chi paventa l’idea che «loro» ci cambieranno, invece succede il contrario: siamo noi a cambiare loro. A partire dal tasso di fertilità, che tra le donne immigrate precipita presto ai nostri livelli: «Pochi anni dopo il loro arrivo in Italia, gli stranieri condividono gran parte degli atteggiamenti e degli obiettivi di vita dei loro colleghi italiani. Questa assimilazione (nel senso di "diventare simili") è particolarmente lampante fra i bambini e gli adolescenti. Le aspirazioni e i sogni dei giovani stranieri che vivono in Italia da almeno quattro o cinque anni sono praticamente indistinguibili rispetto a quelli dei loro coetanei italiani».



Notizie tratte da: Gianpiero Dalla Zuanna e Guglielmo Weber, Cose da non credere. Il senso comune alla prova dei numeri, Laterza, 136 pagine, 12 euro.