Elen Meli, Corriere della Sera 1/4/2012, 1 aprile 2012
«Oggi per la prima volta da sei giorni ho mangiato normalmente anziché prendere i miei sei biscotti con il tè
«Oggi per la prima volta da sei giorni ho mangiato normalmente anziché prendere i miei sei biscotti con il tè. Come vorrei non averlo fatto! Un pò di vino e di pesce e ora la pesantezza, gli incubi e il torpore mi stanno uccidendo. Non sarò schiavo del mio appetito». Leggendo queste frasi nelle lettere di Lord George Byron, poeta ed "eroe romantico" inglese vissuto a cavallo fra il ’700 e l’800, viene naturale pensare che il letterato potesse avere qualche problema con l’alimentazione. E molto probabilmente fu così, stando alle ricerche di Jeremy Hugh Baron, gastroenterologo all’Hammersmith Hospital di Londra: il medico ha studiato i carteggi di Byron e analizzato le testimonianze di suoi amici e conoscenti, arrivando alla conclusione che il poeta, morto ad appena 36 anni, ha lottato per almeno metà della sua vita con i disturbi alimentari. Da bambino George era grassottello, timido, vessato da una madre obesa e un padre dissoluto che non a caso era stato soprannominato "Jack il matto"; costretto a frequentare il Trinity College di Cambridge anziché Oxford come avrebbe voluto, si adagiò a una vita di vizi e per sua stessa ammissione divenne indolente, egocentrico e vanitoso (dormiva con i bigodini e in una lettera ammise di farsi vanto dei suoi boccoli come una «ragazzina sedicenne»). Intrecciò relazioni sessuali con diverse donne, tanto da essere considerato da molti sessualmente vorace e addirittura perverso, ma a partire dai 18 anni le testimonianze raccontano di un Byron alle prese con problemi anche in tema di appetiti alimentari. A quell’età il poeta, alto un metro e 74, pesava 90 chili e non era soddisfatto del suo aspetto. Così iniziò la discesa verso l’anoressia S crive Byron: «Ho perso otto chili negli ultimi tempi usando ogni mezzo, mi vedo troppo grasso. Vorrei pesare 76 chili, poi smetterò di digiunare e fare esercizio». Passa poco tempo e Byron scrive di voler scendere a 70 chili, poi a 65 (aggiungendo che si sparerà se non dovesse riuscirci). Arrivò a 61 chili e la sua magrezza fu fonte di una specie di esaltazione: nulla lo gratificava di più che sentirsi dire quanto fosse magro pur essendo in salute (almeno, lui credeva di esserlo); sosteneva di vedersi anche più alto e il suo aspetto era così cambiato che qualcuno non lo riconosceva al primo sguardo, come il poeta raccontava non senza una punta di soddisfazione gloriandosi di essere «quasi trasparente». Per mantenere il suo peso piuma Byron si costringeva a una dieta ferrea che di fatto consisteva quasi solo di verdure: per lunghi periodi non toccava neppure il vino e si privava di qualsiasi tipo di pesce o carne (che presto abbandonò del tutto, pensando che mangiare carne gli "trasferisse" in qualche modo istinti ferini). Quando cenava fuori ordinava acqua e biscotti o al massimo patate condite con aceto; per colazione prendeva un tè verde senza né zucchero né latte, accompagnato da un tuorlo d’uovo crudo, perché sosteneva che la sua digestione fosse troppo inefficace per mangiare qualcosa di diverso dalle verdure più di una volta al giorno. Nonostante questo, Byron ai suoi tempi era famoso per dare feste in cui i cibi non mancavano, anzi: è rimasto nei carteggi il menu di una cena organizzata dal poeta a Pisa, il 2 gennaio 1822, in cui furono presentati ben diciotto piatti diversi che andavano dal salame con lenticchie, spinaci e prosciutto al cappone bollito, dal manzo con patate al pollo in fricassea. Peccato che lui non toccasse cibo. Non amava che altri lo vedessero mangiare (tanto che il più delle volte rifiutava gli inviti), né tollerava troppo la vista di altri che masticavano. Scriveva: «Sopporto a stento di vedere una donna mentre mangia o beve, a meno che non si tratti di aragosta e champagne». Sua moglie Annabella rivelò che non voleva mai cenare con lei, e quando una volta il pasto fu servito loro allo stesso tavolo il poeta chiese che gli fosse portato in un’altra stanza. Il gastroenterologo che ha studiato le carte di Byron ritiene che probabilmente egli si abbuffasse in segreto, per poi costringersi a vomitare, alternando periodi di anoressia alla bulimia. Più di una volta emerge dai suoi scritti la voglia di abbandonarsi alle tentazioni culinarie, e quando la fame lo sopraffaceva mangiava come un «cane affamato» pastoni di riso, pesce, patate sommersi dall’aceto. Subito dopo, però, il senso di colpa e l’idea che il suo corpo non riuscisse a tollerare poco più che qualche grammo di cibo lo costringevano a rimediare con digiuni forzati, lassativi, litri di aceto per ridurre l’appetito: ammetteva infatti che i suoi momenti migliori li viveva quando in un modo o nell’altro si era «svuotato». Anche il fumo era per lui un modo per «togliere di mezzo la fame». Il medico gli aveva consigliato un’alimentazione più nutriente, ma Byron dichiarò che se avesse mangiato in abbondanza sarebbe diventato stupido, perdendo la sua chiarezza intellettuale. Purtroppo, per costituzione tendeva a mettere su peso, così dopo aver ripreso alcuni chili ammise di essersi addirittura messo una sorta di museruola sul viso per digiunare e «costringere il corpo a mangiare il suo grasso, come gli animali ibernati». Sempre allo scopo di perdere peso, faceva attività fisica come un forsennato pur di consumare calorie, tanto che, secondo il gastroenterologo inglese, proprio questa sua furia lo portò alla morte. Mentre si trovava in Grecia, nell’aprile del 1824, una febbre fatale lo colse proprio dopo che si era inzuppato di pioggia nel corso di una delle sue lunghissime cavalcate. RIPRODUZIONE RISERVATA