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 2012  marzo 30 Venerdì calendario

IL CRONISTA SCAMBIATO PER MACCHIETTA


L’unico dei suoi avversari che si è sempre ostinato a considerarlo un giornalista è stato Michele Santoro, e qualcosa vorrà pur dire. Invitò Emilio Fede nell’arena di Rai per una notte, roteando gli occhi di fuoco verso il pubblico affinché cessasse di fischiare. Lo chiamò ad Annozero, e il direttore rimase tranquillo finché i grillini non l’indispettirono spingendolo a lasciare lo studio.
Per tanti altri, non solo a sinistra, Emilio era piuttosto una macchietta, nemmeno buono da insultare, perché il suo affetto per il Cavaliere era ridotto a patologia (Silvio una volta gli fece una battuta, invitandolo a volergli meno bene). Ne sa qualcosa Antonio Ricci, che a Striscia la notizia lo ha preso di mira per anni, ricavandone momenti esilaranti di televisione. Per esempio quella volta che Fede diede dei «coglioni» ai suoi cronisti durante un fuori onda, e finì sputtanato in tutta Italia. Lo avevano mandato su tutte le furie, infilandogli tre servizi tre su Walter Veltroni «in una stessa edizione: per me era come un cazzotto nello stomaco», scriverà in un suo libro del 1997 (Finché c’è Fede), edito ovviamente da Mondadori.
Tentò pure di vendicarsi, l’Emilio. Striscia andava in onda dal piano sopra il suo, così una sera salì e si mise a sbraitare fuori dalla porta: «Comunisti prezzolati, peripatetici della sinistra, mercenari della risata!». Quando dall’uscio sbucarono due donne, quasi le assalì: «Farabutte, mercenarie, serve del comunismo!». Peccato solo che fossero due incolpevoli addette alle pulizie. Eppure questo signore nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1931, fino all’altro giorno direttore del Tg4, la carriera non l’ha fatta immeritatamente. Cominciò, abusivamente, al Messaggero, a cui passava notizie rubacchiate al comando di Polizia dove lavorava il padre. L’avventura finì quando lo spedirono a seguire una conferenza stampa di Giuseppe Di Vittorio. Lui non prese appunti e pensò di rimediare facendosi consegnare i fogli che il sindacalista teneva in mano. Erano pieni di scarabocchi incomprensibili, e il caporedattore lo accomiatò a calci in culo. Lo ritroviamo anni dopo alla Gazzetta del Popolo. Da Torino, nel ’54, spedì foto e curriculum in Rai. Seguì provino a Milano. Assieme a lui c’erano Adriano Celentano e Pippo Baudo. Il primo, racconta Fede con soddisfazione, fu bocciato. Il secondo ammesso ma destinato a «cose di secondaria importanza», lui promosso a pieni voti.
Qualche programma per ragazzi, poi l’approdo al tg nel ’61. A fargli prendere il volo, dicono i maligni (e Aldo Grasso lo riporta con gusto) fu il matrimonio con Diana de Feo, nel ’64. Lei era figlia di Italo, vicepresidente di viale Mazzini. E fu così che gli appiopparono due soppranomi feroci: il «genero di prima necessità» e «l’ammogliato speciale». In realtà, pare che al Tg l’avesse voluto Enzo Biagi, il quale ci aveva visto giusto. La stoffa c’era. Corteggiandone la segretaria (cosa abituale per lui), strappò un’intervista a Chaplin. Scovò la contessina Agusta in fuga d’amore col calciatore brasiliano Germano. A Tv7 sfornava inchieste. Si occupò di malavita e perfino di bistecche: memorabile il pezzo sulle carni piene di estrogeni. Lo mandarono inviato in Africa (la conosceva bene, ci aveva abitato con i genitori) e fu la volta di un nuovo soprannome perfido: «Sciupone l’africano», per via di certe note spese gonfie come le bistecche di cui sopra. Già, ma intanto lui mandava servizi sulla carestia del Biafra e intervistava Ailé Selassié. «Sono stato imprigionato in Zambia assieme con mia moglie. Espulso dal Sudafrica per le mie inchieste contro il razzismo».
Quando tornò, gli fecero condurre il Tg della riforma. Funzionava, e parecchio. Era il 1976, quattro anni dopo gli offrirono pro tempore la direzione del Tg1. A capo dell’ammiraglia giusto in tempo per seguire la tragedia di Vermicino, nell’81. Poi il vizio gli ha preso la mano: nell’87 lo mettono alla porta per una storia di gioco d’azzardo. Una passione che ha appreso da piccolo, pare, facendo la vedetta in una bisca di Addis Abeba. Era al casinò quando lo chiamarono per offrirgli la poltrona di direttore del Tg, per il casinò l’hanno defenestrato.
Salvifico fu l’incontro con Berlusconi, che nell’89 lo contattò per metterlo a capo di Videonews. Creò la nuova informazione Fininvest, s’inventò Studio Aperto, infilava scoop. Nel gennaio 1991 diede la linea a Silvya Kramar da New York e sbaragliò la concorrenza sulla guerra del Golfo. Fece il bis sulla storia di Cocciolone. Forse il meglio lo diede con Tangentopoli, creando il maltrattato speciale Paolo Brosio, spedito a vivere al Palazzo di Giustizia di Milano. «Ho inventato Paolo Brosio e me ne pento», dirà poi, «ho inventato anche sua madre, che ha inventato suo padre, che ha inventato suo zio». Del resto, nei giudizi non è mai stato tenero. Del tg di Mario Giordano disse: «Ci sono più culi e tette che non decreti legge». Cecchi Paone lo ribattezzò Cacchio Pacchioni, precisando che di lui si era «rotto». Su Mentana poi...
Fede divenne il più odiato d’Italia quando commentò le dimissioni di Indro Montanelli dal Giornale, dandogli dell’ingrato. Al ristorante dello Sporting Club di Milano2 smisero di salutarlo. Ma lui andava avanti, infilando le bandierine per celebrare le vittorie di Berlusconi, accanto al quale voleva essere sepolto nel mausoleo di Arcore.
Col tempo, han cessato di odiarlo per deriderlo. Anche i suoi attacchi a Roberto Saviano in diretta li hanno liquidati senza l’astio di un tempo. Ormai era diventato l’amico di Briatore, quello delle figliole da mandare in video, delle cene eleganti ad Arcore e Villa Certosa. Nel 2006 scrisse: «Il Cavaliere è un tiratardi, questo sì (...). Storie di galanterie, di belle fanciulle che appaiono e scompaiono (...), sono frutto di fantasia». Quindi l’accusa di aver introdotto Ruby, la vicenda dei soldi prestati da Silvio a Lele Mora su cui avrebbe fatto la cresta, attirandosi il marchio più doloroso, quello del traditore. Infine, i milioni rifiutati dalla banca Svizzera: per Mediaset, è stata l’ultima goccia. Ora annuncia di voler tornare. Lo scrisse pure, anni fa: «In fondo, c’è sempre un po’ di speranza. Finché c’è Fede, naturalmente».

Francesco Borgonovo