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 2012  marzo 30 Venerdì calendario

TABUCCHI NELLA TERRA DI PESSOA - —

Il corteo procede a passi lenti e, dopo aver deviato sulla destra dal viale centrale del cimitero dei Prazeres, hai la prima sorpresa: la tomba destinata a custodire quello che è stato uno dei nostri romanzieri più amati è una cappella neogotica dedicata alla «saudoza memoria» degli «escritores portugueses». La seconda sorpresa — triste anch’essa, e inevitabile dopo una cremazione — viene dall’immagine di quanto sia piccola l’urna che ne contiene le spoglie, con lo sgomento che della sua energia da «acerrimo amico della vita» (secondo l’immagine di Ernesto Ferrero) adesso rimane solo un pugno di cenere. «Per fortuna abbiamo i suoi libri e, fino a quando li sfoglieremo e li interrogheremo, Antonio sarà con noi», sussurra Fausto Guccinelli, suo compagno dalla giovinezza a Vecchiano. Antonio è naturalmente Tabucchi, che da ieri resta per sempre nella sua Lisbona. Non molto distante dal monastero dei Jeronimos dove riposa quel Pessoa che ci ha insegnato a conoscere.
«Obrigado, obrigado», ringraziano con pudore la moglie e i figli, al termine di un funerale laico che a lui sarebbe piaciuto. Tre persone a parlare, con affettuosa semplicità, in tre lingue diverse, quasi per sottolineare l’ancoraggio alle sue patrie europee, dove alternava lunghi periodi di residenza, anche se dal 2004 il Portogallo gli aveva attribuito la cittadinanza (che sommava a quella italiana). Il traduttore francese e vincitore del Goncourt-racconti 2011, Bernard Comment. Lo scrittore portoghese Antònio Mega Ferreira. E lo scrittore italiano, Andrea Bajani.
Insieme tracciano il profilo plurale di Tabucchi. Le radici in Toscana, per la quale provava una permanente nostalgia: «Ricordi com’era bella?». La sottigliezza nella ricerca letteraria. L’infaticabile lavoro culturale. La costruzione visionaria di personaggi ai quali affidava storie da antieroi. L’ansia con cui rifletteva sulla fuga del tempo, «che invecchia in fretta». La collera, da «vero democratico», per gli insopportabili «giochi di palazzo». E il gusto per le citazioni, vere o inventate per gioco. Nelle scorse settimane, per esempio, a Bajani che gli chiedeva come stesse, rispose: «Parliamo d’altro, di letteratura, che per me è come aprire la finestra e respirare… parliamo dei Sonetti a Orfeo di Rilke: "Mi riconosci, tu aria, piena ancora di luoghi un tempo miei?"».
La cerimonia dell’addio aveva avuto un prologo mercoledì, alla camera ardente allestita in Campo Pequeno, nella biblioteca di Palacio Galveias. Qui, dal pomeriggio alla notte, sono passati amici, studiosi e lettori. Maria José de Lancastre, la sua Zé, una maschera di spossatezza, con enorme forza e autodisciplina distribuiva laconici saluti. Andando e venendo anche lei, con la figlia Teresa e il figlio Michele, tra la sala piena di fiori e il giardino sul retro, un prato chiuso da alte mura ai cui angoli campeggiano una palma e un tasso. Poi, verso sera, dopo l’omaggio silenzioso dell’ex premier socialista Mario Soares, era cominciato il rito dei ricordi ad alta voce. Quello del pittore e vecchio amico Davide Benati e quello di alcuni membri della «famiglia allargata» dei suoi editori: l’italiano Carlo Feltrinelli, lo spagnolo Jorge Herralde, la portoghese Maria da Piedade Ferreira. È intervenuto il suo ultimo studente di Siena, Riccardo Greco, oggi ricercatore e piccolo editore a Livorno. E, proprio mentre si affacciava anche il segretario del Pd Pierluigi Bersani accompagnato dall’ambasciatore Renato Varriale, il coro della Gubelkian ha intonato Bach e varie canzoni portoghesi, compresa «Acordai», «Svegliatevi», un pezzo di Lopez Graca che era stato l’inno di protesta dei professori nel periodo della dittatura di Salazar. Poco prima aveva voluto parlare, con la serietà di un’adulta, anche la nipotina Beatrice. Che ha evocato il nonno, con solenne secchezza, come un «uomo onesto».
Definizione perfetta. Ora, coincidenza, tra i libri appaiati nelle pareti c’era pure un testo di quel Georges Batailles che, in polemica con le pretese di vedere reclutati e asserviti gli intellettuali sotto qualche bandiera politica (confrontando all’epoca gli onori tributati all’engagé Sartre rispetto allo svalutato Camus), rivendicava il «non serviam», non servirò, come motto di ogni scrittore davvero libero. Proprio ciò che Tabucchi è stato, con un fermissimo rifiuto di ogni ipocrisia, compromesso o «obbedienze» precostituite. E dunque scegliendo di denunciare con asprezza «la pericolosa anomalia democratica» rappresentata per lui da Berlusconi, a costo di coinvolgere in una sorta di correità oggettiva qualche alta carica dello Stato, ma criticando anche le «enormi responsabilità della pseudo opposizione». Fino a spiazzare tutti con l’accusa di «irresponsabilità» che, in un duro articolo su «Le Monde», rivolse agli «intellò» francesi, innocentisti a priori verso il terrorista Cesare Battisti nella prova di forza aperta dall’Italia per dare esecuzione alle multiple condanne inflittegli dai nostri tribunali.
L’uomo era così: libero, senza ambiguità o timori di rappresaglie. Non a caso ripeteva: «Nella letteratura, tutto ha a che vedere con tutto». Ci ragiona sopra Fausto Guccinelli, preoccupato che troppa insistenza nel rivendicare esclusivamente la passione civile dell’ultimo Tabucchi possa oscurare la sua dimensione di scrittore. «Sì, in lui tutto si tiene, compresa la politica. Ma sarebbe un frutto amaro di questa brutta stagione italiana se chi rammenta i suoi racconti e romanzi fosse accusato di divagare… sarebbe un modo per dimenticarlo presto, come Antonio non merita». Per Tabucchi, «l’italiano che sognava in portoghese», gli animatori di Casa Pessoa stanno preparando una maratona di lettura integrale del suo Requiem. Perché, ha detto la direttrice Ines Pedrosa, «gli scrittori continuano a vivere finché li leggiamo».
Marzio Breda