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 2012  marzo 30 Venerdì calendario

TRE ESECUZIONI IN GIAPPONE. COME SEMPRE SENZA PREAVVISO

Una questione di «dovere». In senso nipponico. Così ieri tre condannati a morte sono finiti sul patibolo — in Giappone — a 20 mesi dall’ultima esecuzione: quasi due anni di sostanziale moratoria che il ministro della Giustizia di Tokyo ha infranto richiamando il boia al lavoro. «Un sondaggio voluto dal governo ha evidenziato che la gran parte del Paese è favorevole alla pena capitale — si è giustificato Toshio Ogawa, un ex magistrato passato alla politica, in carica come Guardasigilli da 60 giorni —. La legge afferma che il ministro della Giustizia è responsabile dell’esecuzione della pena: ho pensato di fare il mio dovere».
Il «dovere» è stato eseguito senza esitazioni e l’asettica camera delle esecuzioni è stata riaperta e spolverata per bene per accogliere tre pluriomicidi: Yasuaki Uwabe (48 anni, responsabile della morte di 5 persone), Tomoyuki Furusawa (46 anni, uccisione di genitori della ex moglie e di un figliastro), e Yasutoshi Matsuda (44 anni, responsabile della morte di due donne), impiccati rispettivamente nel carcere di Tokyo, Hiroshima e Fukuoka. I condannati sono rimasti nel braccio della morte per almeno dieci anni. Nel Paese sono 132 in attesa della sentenza capitale, che viene eseguita senza preavviso quando il ministro della Giustizia ne firma l’ordine esecutivo. In genere i parenti dei detenuti ricevono notizia dell’avvenuta esecuzione soltanto a cose fatte.
L’Unione Europea ha espresso «profondo rammarico» per le esecuzioni. Amnesty International ha rivolto una dura protesta nei confronti del governo nipponico. «Queste tre esecuzioni riportano il Giappone in quella minoranza di Paesi che si avvalgono ancora della pena capitale», ha detto Catherine Baber, vicedirettrice di Amnesty per l’Asia e il Pacifico, aggiungendo come «giustificare azioni che violano i diritti umani col "dovere ministeriale" sia inaccettabile e, al contrario, dovrebbe essere responsabilità di chi ha incarichi politici di affrontare la criminalità senza ricorrere alla punizione più crudele, disumana e degradante». Amnesty International, soltanto tre giorni fa, nel suo rapporto sulla pena di morte aveva «lodato» Tokyo perché sembrava decisa a proseguire la moratoria «di fatto»: era dal luglio 2010 che in Giappone un condannato non finiva sul patibolo. L’allora ministro della Giustizia Keiko Chiba, attivista e a capo della Lega parlamentare contro la pena di morte, aveva a sorpresa autorizzato due esecuzioni il cui fine era di «aprire un dibattito» nella società nipponica per la sua abolizione. Un’azione paradossale che, a posteriori, non è servita a granché, se non a togliere la vita anche a quei due detenuti.
Paolo Salom