MICHELE BRAMBILLA, La Stampa 29/3/2012, 29 marzo 2012
IL RISCHIO DELLA CACCIA ALLE STREGHE
Ieri nel Bolognese un piccolo imprenditore s’è dato fuoco davanti all’Agenzia delle entrate. L’elenco dei suoi colleghi che negli ultimi mesi si sono tolti la vita perché si sentivano oppressi, oltre che dalla crisi, anche dal fisco, è tragicamente lungo. Molti altri hanno protestato in modi più o meno urbani con Equitalia.
È gente che vive autentici drammi non solo economici o professionali, ma anche umani. Però diciamo la verità: è anche gente che non incontra un granché di solidarietà. Non si vedono manifestazioni di piazza in favore dei piccoli imprenditori. E perché? Anche qua, diciamo la verità: perché i piccoli imprenditori vengono identificati in massa come evasori fiscali. E oggi l’evasione fiscale è la nuova peste, e chi non è lavoratore dipendente è il nuovo turpe monatto.
Sia chiaro: che l’evasione fiscale sia una piaga, e che gli evasori siano tra i principali responsabili del nostro debito pubblico, non c’è dubbio. Così come non ci deve essere dubbio sul fatto che su questo fronte sono benedette tutte le azioni repressive e preventive possibili: compresi i tanto contestati blitz a Cortina o a Courmayeur.
Ma siamo sicuri che il piccolo imprenditore che ha un contenzioso aperto con Equitalia sia sempre un evasore fiscale? O meglio: siamo sicuri che oggi il sistema fiscale, per un piccolo imprenditore, sia davvero equo? E che siano equi gli accertamenti a suo carico?
È certamente impopolare, oggi, porsi queste domande. La vergogna dell’evasione fiscale ha provocato una sacrosanta richiesta collettiva di giustizia. Ma attenzione al giustizialismo, che è cosa diversa dalla giustizia. Il giustizialismo è un fondamentalismo, e come tale vede il mondo e la vita tutto bianco o tutto nero. Così, oggi si sente dire che in Italia le tasse le pagano solo gli onesti, identificati con i lavoratori dipendenti; mentre tutti gli altri rientrano nel calderone dei disonesti.
Questo lo schema. Ma la realtà è diversa. I lavoratori dipendenti (chi scrive appartiene a questa categoria) non pagano tutte le tasse perché sono «onesti», ma perché sono obbligati a farlo da un sistema fiscale imperfetto. È imperfetto appunto perché una parte degli italiani non può evadere mentre un’altra sì: ma non solo per questo.
È imperfetto anche perché grava la piccola e media impresa di un’infinità di tasse alle quali non corrisponde un servizio adeguato. Il piccolo imprenditore è molto spesso un uomo solo. Investe i propri capitali per guadagnare (e ci mancherebbe) ma anche per creare posti di lavoro: rischia di suo, e quando gli affari vanno male nessun articolo 18 lo garantisce. La giustizia civile non lo tutela se i clienti non pagano. I governi non lo convocano quando si incontrano con le cosiddette parti sociali, come se i piccoli imprenditori non fossero anch’essi una parte sociale. Da quando è scoppiata la crisi mondiale, o almeno da quando ci siamo accorti della crisi mondiale, abbiamo dichiarato guerra allo spread, prestato attenzione alle banche, messo mano alla riforma delle pensioni e pensato a licenziamenti e buonuscite. Ma per i piccoli imprenditori, niente.
Problemi forse risaputi, ma mai veramente presi in considerazione. Problemi, poi, ai quali va ora aggiunto quanto sta accadendo in questi tempi di (sacrosanta, ripetiamo) caccia all’evasore. Giusto fare azioni coercitive per riscuotere le tasse. Ma capita che lo Stato esiga tasse anche su redditi non ancora conseguiti. Capita perfino - ce lo riferiscono molti piccoli imprenditori che le richieda su redditi mai accertati ma solo ipotizzati. In giudizio è il cittadino a dover dimostrare di non aver preso denaro in nero, e in questo modo si sta stravolgendo il basilare principio giuridico secondo il quale l’onere della prova spetta all’accusa, non alla difesa.
Fatti e riflessioni di cui occorre tener conto, se non si vuole che la caccia all’evasore si trasformi in una caccia alle streghe.