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 2012  marzo 28 Mercoledì calendario

Energia, ambiente e meccanica La lunga marcia nella Penisola - I cinesi in Europa sono interessati a fare partnership e investire su energia, industria con buona tecnologia, ambiente, infrastrutture e banche», racconta una fonte diplomatica

Energia, ambiente e meccanica La lunga marcia nella Penisola - I cinesi in Europa sono interessati a fare partnership e investire su energia, industria con buona tecnologia, ambiente, infrastrutture e banche», racconta una fonte diplomatica. «Se fate sul serio, c’è spazio anche per voi italiani…». La brutta fotografia del sistema Italia che Mario Monti si è portato in valigia potrebbe presto abbellirsi. Ieri dal presidente cinese Hu Jintao è arrivato l’invito ad investire in Italia, antipasto degli incontri che il nostro premier avrà a Pechino con il primo ministro Wen Jiabao, il presidente del fondo sovrano Cic, Lou Jiwei, che gestisce masse per 410 miliardi di dollari e poi, al Forum di Boao, con il futuro premier Li Keqiang. Senza leva keynesiana e un programma di grandi investimenti pubblici spinti dall’Ue, non resta che attirare investimenti diretti da Paesi come la Cina che hanno necessità di valorizzare la montagna di riserve accumulate: 3.500 miliardi di dollari, quasi il doppio del nostro debito pubblico. «La Cina può dare un supporto decisivo al superamento della crisi Ue. Tra l’altro ha cominciato a comprare Btp…», spiega a margine della presentazione del rapporto annuale della fondazione Italia Cina, il vice presidente Mario Zanone Poma. A fine 2011 solo il 3,5% degli investimenti diretti totali cinesi è affluito nel Vecchio Continente. Ma lo scenario sta cambiando. Gli ultimi colpi della campagna europea sono stati l’acquisto dell’8,6% della Thames Water (fornisce l’acqua potabile a Londra) con il fondo Cic, e del 21,3% di Energias de Portugal da parte del colosso Three Gorges, che l’ha pagata al governo di Lisbona in difficoltà il 50% in più del valore di Borsa. Dentro a questo risiko l’Italia resta periferia. Gli investimenti diretti in entrata dalla Cina sono briciole: 181 milioni di euro nel 2009; appena 65 nel 2010. Lo abbiamo già scritto: Pechino è spaventata dall’immobilismo e la vischiosità italiana. Le parole di Hu Jintao cambiano però la prospettiva per aziende e fondi cinesi, abituati a rispondere alle sollecitazioni del potere politico. Le riforme messe in campo dal governo Monti abbozzano la traiettoria di un paese che sta imboccando una discontinuità virtuosa. Più credibile in chiave europea dove Pechino ha bisogno di interlocutori capaci di correggere la rotta rigorista imposta dal cancelliere Merkel. Ma soprattutto il nuovo corso italiano incrocia la transizione verso un’economia più attenta ai consumi interni a maggior valore aggiunto. Pechino ha fame di acquisire all’estero quel mix di tecnologie mature e di abilità tecniche da riversare in quelle industrie strategiche indicate nel 12˚ Piano quinquennale (oggi rendono il 3% del Pil, entro il 2015 saliranno all’8%): bio-tecnologie, Information Technology, materiali innovativi, energie rinnovabili, combustibili alternativi, protezione ambientale. In questo senso la «periferia» Italia appare un paese ricco di sapienza industriale, utile a migliorare la produttività della propria industria. Su ecologia, agroalimentare e componentistica meccanica, il made in Italy è nelle condizioni di fornire tecnologia a complemento dei loro processi di produzione. Basta guardare la lista delle imprese al seguito del vice ministro del commercio, Jiang Yiaoping, in missione in Europa (l’altro giorno era a Roma), per capire l’identikit dei nuovi potenziali investitori. C’era ad esempio il gigante dell’energia elettrica Harbin Electric, che ha sedi dal Vietnam al Sudan alla Turchia e una capacità di 20mila Mw; Sedin, conglomerato molto forte nell’industria chimica; LiuGong, che possiede il 14,5% di quota mondiale nella fabbricazione di ruspe; Henan Deng Feng, specializzata nella lavorazione del carbone e del cemento; oppure Bejiing, attiva nel trattamento e distribuzione delle acque in 18 province cinesi. Ma è chiaro che ci vuole nuova autorevolezza politica per passare dai contatti al business e portare l’interscambio Italia-Cina a quegli 80 miliardi di dollari entro il 2015 che i due paesi auspicano nei documenti ufficiali. L’altro grande dossier aperto, dopo le parole di Hu Jintao, sono le partecipazioni strategiche. Pechino si è finora tenuta distante dallo shopping in grandi gruppi occidentali. Ma oggi la crisi europea, che mette in saldo aziende ricche di tecnologia, cambia le carte in tavola. Al centro degli interessi ci sono certamente i gioiellini della nostra industria militare, quote di Enel (che ha molto debito), e soprattutto di Eni. «Si sa che Pechino sta cercando di sviluppare gas da scisti e, proprio con il cane a sei zampe, suo concorrente in Africa, potrebbe avviare progetti per la cattura di gas dannosi», rivela una fonte. Infine «c’è interesse per Alitalia, nella logica dell’Italia piattaforma tra Africa e nord Europa, e per la portualità. Con la Grecia in crisi, sarà utile capire la politica logistica del nuovo governo…».