Il Sole 24 Ore 29/3/2012, 29 marzo 2012
QUELL’INTRECCIO TRIPOLI-PIAZZA AFFARI
Quando la Libia avviò la mini-scalata a UniCredit nessuno immaginava che di lì a poco sarebbe scoppiata una guerra che avrebbe messo fine alla dittatura. L’ingresso in forze dei capitali libici in Italia era il perfezionamento di una strategia approvata dal Colonello in persona. Ed è l’ombra di Gheddafi che ancora si allunga su Piazza Affari. Carlo Marroni La penetrazione finanziaria della Jamahiriya - che ha visto una impennata nel 2008 dopo il trattato di amicizia - era stata pensata per infilarsi (dopo l’esperienza Fiat-Lafico) nei gangli vitali del sistema finanziario nazionale, in chiave di interazione tra capitale e business. E infatti - a parte la Juventus, una divagazione su aveva influito il figlio pseudo calciatore Saadi - i capitali si sono concentrati nel tempo sulla principale banca del paese - che da tempo aveva inglobato il Banco di Roma, l’asset storico dei rapporti tra Roma e Tripoli - nel campo petrolifero con l’Eni e in quello della difesa con Finmeccanica, oltre che nelle telecomunicazioni con Retelit. Una massa di investimenti che è ammontata via via a quasi 4 miliardi: il punto massimo fu toccato nel settembre 2010 quando fu superato il 7,5% in UniCredit (mantenuto fino all’aumento di capitale), che innescò la catena di eventi che portò tra l’altro al cambio della guardia a piazza Cordusio. Ma anche l’ingresso in Finmeccanica aveva avuto quello scopo, legato in qualche modo a rafforzare la collaborazione in campo militare e satellitare soprattuto nel controllo dei confini sud del paese specie per il controllo dei flussi di migrazione clandestina. La guerra ha naturalmente stroncato il progetto complessivo del Colonnello ma gli ex ribelli hanno confermato di voler tenere vivva la collaborazione: il Cnt aveva garantito di non voler vendere le quote dopo lo scongelamento, per evitare sconquassi in Borsa, e questo è di fatto avvenuto. Il provvedimento di sequestro attuato ieri è un elemento nuovo che può far destare qualche preoccupazione nei circuti di Piazza Affari, specie ora che il dossier finanziario libico si stava avviando verso una normalizzazione su tutti i fronti, compresi quelli tra soci. A Tripoli, in attesa che riaffluiscano le disponibilità in mezzo mondo perlopiù ancora bloccate o in via di sblocco, si sta formando una nuova classe dirigente che sarà preposta alla gestione delle risorse che saranno sottratte alla ricostruzione e destinate "a riserva". A decidere sarà il governo che scaturirà dalle elezioni di giugno: il governo italiano - specie dopo il viaggio del premier Monti - sta consolidando i rapporti di amicizia, ma lo stesso stanno facendo le grandi imprese. Tra l’altro in Italia non ci sono solo partecipazioni azionarie di peso: risulta che nei forzieri di UniCredit ci siamo almeno 3 miliardi di depositi liquidi, e 1,5 in quelli dell’Ubae, la banca italo-libica uscita di recente dalla gestione commissariale post congelamento che non è stata interessata dal provvedimento di ieri dal momento che il 67,5% è detenuto dalla Lybian Foreign bank. Questi fondi non sono stati prelevati, come sembrava probabile vista la necessità di risorse: il loro prelevamento va avanti con il contagocce, e solo per motivi specifici di carattere umanitario e assistenziale. L’incertezza che aleggia in ambienti bancari è che si possa presentare allo sportello un emissario senza poteri di firma: in sostanza si attendono le elezioni e la formazione di una stabile classe dirigente. Intanto da Tripoli arriva una presa di posizione netta: «Lia e Lafico non sono dei Gheddafi ma dello Stato - dice l’ambasciatore in Italia Hafed Gaddur - se invece sono una sorta di cauzione per proteggere le nostre proprietà allora va bene, ma vanno subito sbloccate e va trovata una soluzione. Quello che contestiamo è la decisione dell’Aja, non il provvedimento della Guardia di Finanza». Ma chi comanda la finanza libica, che investirà in Italia? In testa ci sono il nuovo governatore della banca centrale, Al-Sediq Alkabir, e il ministro delle Finanze, Hassan Mukhtar Zeghlam. Alla Lia, il fondo sovrano, c’è ancora il vecchio presidente Muhammad Layas (c’era anche con Gheddafi, ma rappresenta la memoria storica, ancora necessaria), ma si è insediato un comitato di gestione composto da Ali Abu Sedra (un avvocato molto stimato che agisce nel Golfo e che risulta essere il coordinatore di questo gruppo), Khled Khajiji e Mohesen Dreja. Carlo Marroni • ENI, NESSUNA CONSEGUENZA SULLE OPERAZIONI IN LIBIA - Non lede gli interessi dell’Eni il sequestro in Italia delle azioni un tempo riconducibili alla famiglia Gheddafi e oggi allo Stato libico. Il provvedimento del tribunale dell’Aja coinvolge i titoli di Eni Spa detenuti da Lia (0,572%) e Lafico (0,008%): lo 0,58% del capitale o secondo altre fonti l’1%, una quota comunque minima, ben lontana da quel 10% che ancora nel 2008, dopo il "trattato di amicizia" italo-libica concesso dall’allora premier Silvio Berlusconi a Muammar Gheddafi, era indicato da Tripoli come l’obiettivo strategico di medio periodo.
A causa del sequestro i titoli non potranno essere negoziati, ma questo non ha alcun riflesso sull’Eni. Semmai potrebbe sorgere, esclusivamente per le azioni in questione, un problema di pagamento del dividendo, ma nulla che riguardi le attività operative in Libia dove la compagnia italiana controllata dallo Stato opera da decenni nella produzione di idrocarburi e in particolare nell’estrazione di gas naturale. Diverso sarebbe se il sequestro fosse esteso a conti correnti o a società a capitale misto direttamente impegnate in attività industriali. Ma il problema non si pone. D’altro canto già durante il conflitto, cessato in ottobre con la morte del colonnello Gheddafi, l’Unione europea aveva disposto a un Berlusconi assai riluttante il congelamento degli asset libici senza che ciò avesse avuto conseguenze per l’Eni. Né sono ipotizzabili reazioni dell’attuale governo provvisorio libico, che delle entrate dalla vendita di greggio e metano ha vitale bisogno.
L’Eni è presente nel paese nordafricano dagli anni ’50, quando la società (l’allora Agip Spa) era presieduta da Enrico Mattei. Tra le sue prime scoperte, il ritrovamento negli anni ’60 del giacimento gigante di Bu’ Attifel, il cui greggio è raffinato ancora oggi in Sicilia nell’impianto ex Erg di Priolo, acquistato dalla russa Lukoil. Seguono nel 1976 la scoperta del giacimento offshore di Bouri e all’inizio del decennio successivo la scoperta dei campi di gas che saranno sfruttati molto tempo dopo con il venir meno dell’embargo internazionale contro il regime di Gheddafi.
Oggi i giacimenti a gas di Bahr Essalam e Wafa, di proprietà dell’Eni, sono collegati con l’impianto di trattamento di Mellitah, sulla costa libica, da cui si dirama il Greenstream, il metanodotto che approda a Gela dopo un percorso sottomarino di 520 chilometri e che da qui si innesta nella rete italiana. Oggi la Libia detiene, attraverso la compagnia di Stato Noc, il 50% dell’infrastruttura. L’altro 50% è dell’Eni.
Ed è proprio dal Greenstream che la società di cui è amministratore delegato Paolo Scaroni ha avuto i maggiori problemi durante gli scontri a fuoco tra gli insorti di Bengasi e l’esercito di Gheddafi. Il gasdotto è rimasto chiuso a partire dal 22 febbraio 2011, facendo mancare all’Italia 8 miliardi di metri cubi di gas che servono ad approvvigionare Edison, Gas de France e Sorgenia, e ha ripreso a funzionare nello scorso autunno. La riapertura del Greenstream e gli interventi sui giacimenti Eni rimasti inattivi durante le ostilità sono avvenuti grazie alle buone relazioni tessute dal gruppo con l’esercito ribelle prima ed il governo provvisorio dopo. Giuseppe Oddo • A RISCHIO LA PERMANENZA NEL CONSIGLIO DI UNICREDIT - Impossibilità di esercitare i diritti di voto nell’assemblea dell’11 maggio, congelamento dei futuri dividendi che venissero distribuiti dalla banca e impossibilità di negoziare le azioni. Sono sostanzialmente queste le conseguenze del sequestro da parte della Guardia di Finanza della quota dell’1,256% di UniCredit nelle mani della Libyan Investment Authority. La banca ha preso atto del vincolo giudiziario.
La Libia nel capitale di piazza Cordusio è rappresentata dalla Lia appunto e dalla Central Bank of Libya a cui fa capo circa il 2,9%. La presenza di Tripoli si è tuttavia già ridimensionata a seguito dell’aumento di capitale da 7,5 miliardi varato da piazza Cordusio e sottoscritto solo parzialmente. I due soci libici di UniCredit, come ha spiegato martedì scorso Federico Ghizzoni, detengono attualmente «intorno al 4%» del capitale di UniCredit post aumento di capitale. Un pacchetto finora rappresentato con lo schieramento tra i quattro vice presidenti del consiglio di amministrazione di UniCredit di Farhat Omar Bengdara che sarebbe in uscita. Si tratta di capire, a questo punto, se il nuovo provvedimento giudiziario che di fatto riduce il peso del fronte libico in UniCredit avrà riflessi sulla rappresentanza libica nel consiglio di amministrazione. Risulta, infatti, che i libici abbiano chiesto un posto nel board nell’ambito del rinnovo del consiglio in corso in queste settimane. Proprio due settimane fa, del resto Ghizzoni è volato in Libia per una visita istituzionale e per discutere con i partner di Tripoli anche della questione della governance e del rinnovo della presidenza. «Ho incontrato il governatore della banca centrale, il primo ministro e anche alcuni uomini d’affari – ha spiegato Ghizzoni. – I rapporti con i soci libici sono normali, pur in un contesto complicato e difficile e rapporti con la Banca Centrale Libica sono buoni: lavoriamo con loro, anche sull’import-export che ha riniziato a funzionare».
Con il congelamento delle quote si arriva a un nuovo capitolo della complicata vicenda della presenza di Tripoli nella banca di Piazza Cordusio. Dopo il pacchetto storico, "eredità" in UniCredit della fusione Capitalia, Tripoli aveva rafforzato nel corso del 2010, tappa dopo tappa, la propria presenza nella banca fino a diventarne il primo azionista, creando un caso che ha poi finito per coagulare malumori preesistenti nelle fondazioni azioniste, costati poi l’incarico all’amministratore delegato Alessandro Profumo. A seguito della caduta di Gheddafi, agli inizi del 2011 il pacchetto è stato congelato per poi tornare nuovamente «disponibile» alla fine dello scorso anno, poco prima della maxi ricapitalizzazione di UniCredit. Marigia Mangano • SEQUESTRATI I BENI DI GHEDDAFI IN ITALIA - Finiscono sotto chiave 1,1 miliardi di euro in partecipazioni azionarie detenute in Italia dalla famiglia dell’ex rais libico Muammar Gheddafi. Il Nucleo tributario della Guardia di Finanza di Roma, guidato dal colonnello Virginio Pomponi, ha messo sotto sequestro le partecipazioni dei fondi Liybian Investment Authority (Lia) e Liybian Arab Foreign Investment Company (Lafico) in UniCredit (1,256%), Eni (0,58%), Finmeccanica (2,01%), Juventus (1,5%), Fiat (0,33%) e Fiat Industrial (0,33%), oltre ad azioni privilegiate di queste due società per un controvalore, rispettivamente, di 614.358 e 876.906 euro. Il sequestro preventivo è stato disposto dal giudice della Corte d’Appello di Roma, Domenico Massimo Miceli, su richiesta del Tribunale penale internazionale dell’Aia al fine di risarcire le vittime del regime di Gheddafi, morto lo scorso ottobre durante la guerra civile in Libia.
La rogatoria internazionale che ha portato ai sequestri è stata emanata dal Tribunale dell’Aja nell’ambito del procedimento per crimini contro l’umanità nei confronti dello stesso Gheddafi, del figlio Saif Al Islam, arrestato lo scorso 19 novembre al confine tra Libia e Niger, e del capo dei servizi segreti e cognato di Gheddafi, Abdullah Al Senussi, anche lui arrestato. I beni messi sotto chiave dalle Fiamme Gialle erano stati già congelati in via provvisoria all’inizio dello scorso anno, dopo che due risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu e due regolamenti del Consiglio dell’Unione europea avevano richiesto alla comunità internazionale misure conservative su tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti a Gheddafi o a soggetti a lui riconducibili. Ad aprile del 2011, su mandato del Tribunale dell’Aja, la Corte d’Appello di Roma ha incaricato la Guardia di Finanza di individuare beni mobili ed immobili, quote societarie e conti correnti in Italia riconducibili ai tre membri della famiglia Gheddafi. «Il 23 marzo, sulla base di quanto emerso dall’attività investigativa – spiega il colonnello del Nucleo tributario di polizia tributaria, Francesco Vizza - la Corte d’Appello di Roma ha emesso una serie di decreti che hanno portato ai sequestri eseguiti ieri nella capitale e a Torino, Milano, Brescia, Modena e Trapani. Il patrimonio degli imputati dovrà garantire forme di risarcimento per le vittime del regime di Gheddafi».
Tra i beni sequestrati figurano anche le somme depositate dai tre imputati presso una serie di istituti di credito: un conto corrente da 20mila euro e un deposito titoli da 600mila euro presso Banca Ubae a Roma; un conto corrente da 30mila euro presso la filiale bresciana di Ubi Banca; due conti da 90mila euro e da 120mila dollari aperti nella filiale di Abc International di Milano; una serie di conti, tutti in rosso, per un passivo totale di mille euro, alla Bper di Modena. Le Fiamme Gialle hanno anche sequestrato un immobile di Gheddafi a Roma, in via Sardegna, 150 ettari di bosco a Pantelleria (Trapani), alcune automobili e due moto, tra cui una Harley Davidson appartenuta al figlio del rais, Saadi, ex giocatore del Perugia Calcio.
Gli interessi della Libia per l’Italia risalgono a più di trent’anni fa. Era il 1976 quando la Lafico, braccio finanziario di Gheddafi, sbarcò per la prima volta a fare spese, acquistando quote della Fiat. Dall’auto si è poi passati alle banche, al calcio e all’energia. A partire dal 2006 il colonnello ha iniziato a utilizzare anche la Lia, il fondo sovrano costituito per gestire i proventi del petrolio, investendo non solo nel nostro Paese. Nel portafoglio del fondo ci sono azioni UniCredit, Eni e Finmeccanica. Domenico Lusi