Franco Bechis, Libero 29/3/2012, 29 marzo 2012
MONTI CAMMINA SULLE ACQUE MA COSÌ AFFONDA
Prima dileggia un suo collega senatore a vita, e pure di una certa età, come Giulio Andreotti. Poi ieri mattina fa scoppiare un pandemonio dall’Asia sputando nel piatto dei partiti che con una sorta di hara-kiri lo stanno sostenendo da quasi quattro mesi. Super Mario si è davvero montato un po’ la testa e certo nell’agiografia della sobrietà difficilmente potrà trovare posto quell’incendiario «Il governo gode di un forte consenso nei sondaggi di opinione, ma i partiti no», sibilato ieri da Tokyo. Non di grandissimo gusto nemmeno la decisione dello staff di Monti di fare trapelare alla stampa l’allarmata telefonata di Fabrizio Cicchitto del giorno prima che l’ha tirato fuori da una riunione presieduta dal presidente Usa, Barack Obama. Si deve essere montato la testa anche lo staff, che con sprezzo del ridicolo ha fatto filtrare anche la presunta rabbia del premier per essersi perso – colpa di Cicchitto – i complimenti di Obama alla sua azione. Grottesco, perché anche un bambino comprende che la notizia lì non è nel Cicchitto che telefona, ma nel Monti che scatta sull’attenti, bidona Obama e invece di fare dire all’azionista «richiamo fra un’ora», si precipita a rispondere. Per carità, un paio di anni fa accadde lo stesso incidente a Berlusconi, quando ricevette una telefonata e piantò in asso su un molo Angela Merkel. La differenza è tutta nella stampa: allora si scagliò contro Berlusconi che non doveva rispondere, oggi fa di Monti che ha risposto la vittima e non il gaffeur.
Quello scatto sull’attenti davanti a un non irresistibile Cicchitto è però la vera chiave per capire quanto sia parte in commedia la recita del Monti-braccio di ferro che finge di mostrare i muscoli alla politica. Apprezzati e un po’sopportati per necessità il premier e i suoi tecnici hanno goduto finora di appoggio e stima da parte dei leader delle principali forze politiche. Di settimana in settimana il consenso parlamentare però si è ridotto, e la fragilità dell’esecutivo è sempre più evidente. Comincia a vivere i suoi travagli il Pd da quando nel menù si è apparecchiato l’articolo 18. E attenti perché da quelle parti la corda non si può tirare troppo: Bersani ha già rinunciato a una vittoria elettorale sicura in autunno, non ha grande convenienza a mettersi nelle mani di Casini o di Vendola con la nuova legge elettorale. Perché ha vissuto il potere di ricatto degli alleati prima del voto, e sa che quello post voto è molto superiore. Se si andasse ad ottobre alle urne, lui non avrebbe bisogno di primarie e con il Porcellum arriverebbe al volo a palazzo Chigi. Perciò non va sottovalutato il mal di pancia del Pd. La novità che sta emergendo è quella di un analogo borbottìo nel Pdl. Un esempio? Martedì sera a «Ballarò» la sindrome del bullo ha colpito anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Antonio Catricalà. Che sull’articolo 18 ha detto: «Non accettiamo qualsiasi accordo al ribasso. Se non ci piace ce ne andiamo».
Ero nello studio di «Agorà», trasmissione di Rai Tre, mentre le immagini venivano riproposte. Fuori onda gliene hanno dette di tutti i colori sia Matteo Colaninno, sia Paolo Romani che erano in studio («Ma come si permette di fare questi ricatti? È il parlamento che sfiducia il governo, non viceversa »). Anche in onda l’ex ministro Pdl non si è trattenuto: «I signori tecnici imparino a fare i ministri, che tutti i giorni stiamo cercando di insegnarlo loro in Parlamento. Dovrebbero ringraziare, perché provvedimenti entrati zeppi di errori tecnici sono stati corretti dal parlamento nelle commissioni evitando loro una brutta figura.E non si permettano di dire a noi che se non sono d’accordo su qualche cosa se ne vanno. Se ne vadano! Non è questo il problema dell’Italia».
Ecco, parole così sarebbero state impensabili fino a una settimana fa. Evidentemente al Pdl non bastano più le cene di preparazione ai consigli dei ministri con Catricalà a casa di Pippo Marra. E questo bullismo nervoso di Monti e dei suoi rischia di provocare quel che mai avrebbero immaginato i suoi sponsor: l’ombra di un licenziamento. Senza giusta causa. E senza reintegro.
Franco Bechis