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 2012  marzo 20 Martedì calendario

CACCIATORI DI TESORI


Ci sono entrambi, i due uomini “leonardeschi” del momento. Nicolas Penny, direttore della National Gallery di Londra, e poi Henri Loyrette, direttore del Louvre, al centro dell’attenzione per le due prestigiose mostre di Leonardo nei loro musei (quella inglese già conclusa). Sono venuti al Tefaf di Maastricht (dal 1988 la più importante fiera antiquaria al mondo) per allargare la loro già ampia visuale. «Vedere, vedere e ancora vedere! L’occhio va esercitato costantemente», ci dice Henri Loyrette, velocissimo nel captare stimoli, mentre entra ed esce dagli stand, con fare da tigre felpata. Ci saranno non meno di un centinaio di direttori di musei internazionali (che si confondono tra la folla di collezionisti, dealer, curatori delle case d’asta) e noi abbiamo avvicinato i più importanti. Il Tefaf è il Paese del Bengodi, basta avere risorse illimitate. Musei europei e musei americani si contendono il terreno, ma sono quest’ultimi ad avere la meglio, grazie a un maggiore potere d’acquisto (fondazioni e trust sono molto munifici e attivi, mentre più carenti in Europa). Ma spesso sono i collezionisti a soffiare a tutti loro l’oggetto del desiderio, in corsia di sorpasso (finanziario). Arduo competere con i fratelli Guerrand-Hermès o con Tom Hill del Blackstone Group, che già possiede un cavallo in bronzo del Giambologna e ora vuole un’altra sua opera. Tutti contro tutti, dunque? «La concorrenza tra privati e musei è sempre esistita, ma alla fine sono proprio questi ad arricchire le nostre collezioni», dice Loyrette. «L’arte contemporanea non ha offuscato l’amore per l’antico, che anzi è in crescita. Tutto sta nel far vedere le opere in modo diverso: ciò incentiva la curiosità. L’archeologia è anche un nostro punto di forza», conclude Loyrette che, nel 2011, ha acquisito opere per 9 milioni di euro (le collezioni si sono accresciute per un totale di 20 milioni di euro). E qui al Tefaf, basta entrare in un paio di stand per “bruciarli” subito: a cominciare da un magnifico Cristo in Croce di Rubens (1614, circa, venduto alla famosa Van Otterloo Collection per quasi tre milioni di euro), opera di sua mano, quando ancora non aveva assistenti a bottega. Poi si può entrare da Charles Ede attratti da un magnifico vaso romano del I secolo d.C, intagliato (340mila euro); passare da Domenico Piva per la coppia di comò intarsiati dai Maggiolini (270mila euro); offrirsi un disegno di Picasso, uno studio delle mani di Olga (da Krugier, 5 milioni di euro), e poi una tempera di Kupka (850mila euro) da Sanct Lucas, da non mancare la poltroncina di modernariato della designer Gray (da Arc en Seine, 450mila euro). E, infine, un incunabolo di anatomia del Ketham corredato da dieci xilografie colorate (una delle tre edizioni note, stampata a Venezia nel 1495) a 320mila euro. Sorry, abbiamo sforato il budget! Ma Wim Pijbes, direttore del Rijksmuseum di Amsterdam, ci fa vedere qualcosa di molto economico da Ben Jansen, a soli 3mila euro. «Questi vasetti giapponesi dell’800, in bronzo, molti stilizzati, non sembrano fatti da Carlo Scarpa?», dice, e poi, subito dopo, va a vedere un insolito Warhol, i disegni fatti negli Anni 50 (dai 20 ai 60mila euro, secondo il soggetto). «Scegliere di portare al Tefaf un solo artista è rischioso. Ma il gallerista Daniel Blau l’ha fatto (e con un Warhol minore). E anche l’italiano Tornabuoni, con una trentina di opere di Fontana, un artista di cui amo profondamente la violenza estetica del taglio». Alfred Pacquement, direttore del Centre Pompidou di Parigi, s’infila da Berès. «Vedo con piacere che ci sono opere del pittore ungherese Hantaï, al quale dedicheremo una grande retrospettiva nel 2013», dice Pacquement, che nel 2012 avrà come “appannaggio” due milioni e mezzo di euro da spendere. «Non vado a una fiera con lo spirito di un privato che può decidere subito cosa acquistare. Devo prima riflettere, approfondire, comparare». Ma cosa si prova ad accarezzare, invece, una scultura babilonese di 4mila anni fa? Sophie Aurand, direttrice del Jacquemart-André, un museo-scrigno, in un sontuoso hôtel particulier parigino, è in estasi davanti a quest’anatra babilonese, in basalto (da Rupert Wace, 40mila euro), del 2000 a.C. «Nell’antico ci si rifà veramente gli occhi! Questo pezzo lo considero un Brancusi ante litteram», dice la Aurand, appassionata anche di fotografia d’epoca, che da Kraus ha scovato una straordinaria foto di un panorama di Napoli del 1846 (150mila dollari). Per Sabine Haag, direttrice del maestoso Kunsthistorisches Museum di Vienna, l’oggetto bramato è quel dipinto dell’uomo in lotta fra vizio e virtù del fiammingo Frans Franken II esposto da Van Haeften. Nel 2010 battuto da Dorotheum per oltre 7 milioni di euro e ora venduto al Tefaf a un privato per 10,5. Ma la scarsa dote annua di cui la Haag dispone (100mila euro) non le permette follie. «Venire a questa fiera è un dovere, è una mostra di livello museale, con prezzi irraggiungibili per un’istituzione come la mia, benché molto sostenuta nelle acquisizioni anche dalla generosità degli “Amici del museo”. È pur vero che nel nostro passato abbiamo capitalizzato opere eccezionali: impensabile comprarle oggi», dice la Haag. «Qui al Tefaf emergono anche dei trend, proprio come nella moda, ma non così stagionali. Vengono riapprezzate scuole, il mercato dell’alta oreficeria ultimamente si è incrementato». Doppia veste per Klaus Albrecht Schröder, qui come collezionista e direttore dell’Albertina di Vienna (oltre un milione di grafiche dei maggiori artisti di tutti i tempi). «Sono appassionato di scultura europea dal 500 al 900, e poi di quella africana e dell’Oceania. Naturalmente tengo d’occhio anche ciò che potrebbe interessare all’Albertina, nel classico-moderno. Visionerò anche i disegni, genere in ascesa». Si aggira nei “meandri”, con un piccolo seguito, anche Mikhail Piotrovski (direttore dell’Ermitage di San Pietroburgo). Qui verifica i valori del mercato. «Difficile trovare opere adeguate all’Ermitage e a prezzi ragionevoli! Dobbiamo trovare sempre canali alternativi, sebbene a un’asta abbiamo appena comprato un servizio da toeletta in argento del XVIII secolo appartenuto alla “Dama di Picche”, figura del racconto di Pushkin». Nei corridoi sfreccia anche Scott Schaefer, senior curator del Getty di Los Angeles, un personaggio di rilievo che, l’anno scorso, a un’asta londinese, si è aggiudicato un capolavoro di Turner (Campo Vaccino di Roma) per 30 milioni di sterline. «Comperiamo solo opere top», dice. Qui lo affascina un dipinto settecentesco del bolognese Gandolfi. «Talmente fresco nei colori che si direbbe appena tolto dal cavalletto. Anche la cornice è originale, e intagliata». Vedette della fiera è quella signora in rosa di Boldini (da Robilant e Voena, 1,6 milioni di euro). «Meraviglioso, vivace ritratto di una modella. Possiamo quasi avvertire il suo incedere mentre oltrepassa la tela», dice Colin Bailey, vicedirettore della Frick Collection di New York. A questa aggraziata donna fa da contraltare quell’altra sciatta e in sovrappeso, scultura di una shoplover, opera iperrealista di Duane Hanson degli Anni 70. La fiera non esclude il contemporaneo, ma ne argina lo strapotere. «Un museo come il nostro sì è aperto al confronto», dice Agnes Husslein-Arco, a capo del Belvedere di Vienna (che vanta 24 Klimt, di cui due appena ricevuti dal lascito Parzer). «Ma è certo che per l’arte antica occorre una cultura diversa, conoscenza della storia, della mitologia, della filosofia, della letteratura. L’arte contemporanea è cool, easy, trendy. I musei devono re-indirizzare le persone».
Una veduta lacustre dell’Isola Bella di Vanvitelli inchioda Patrice Marandel, curatore principale del Los Angeles County Museum (l’opera è da Moretti). «Un paesaggio reale ma anche fantastico, che mi piacerebbe avere», dice Marandel, fra i 130 esperti del comitato del Tefaf, garanti della selezione e dell’autenticità delle opere. «Il nostro museo vive di fondi privati (alcuni milioni all’anno). Molti nostri mecenati vengono qui per negoziare subito opere che c’interessano».
Affilano le armi, i direttori dei musei: lente d’ingrandimento e pila tascabile. David Jaffe (curatore principale della National Gallery di Londra) rigira con affetto tra le mani un bronzetto del Giambologna (da Altomani a 1,8 milioni di euro) emozionandosi come un bambino. «Un angelo in perfetto stato, con tutte le dita, non monco come quello che avevo alla National Gallery di Canberra di cui ero direttore», dice. Questa scultura alta 20 centimetri era uno degli elementi del ciborio (poi bottino napoleonico) della Certosa di Firenze. Per quel lavoro, nel 1596, lo scultore ebbe ben 215 ducati d’oro, pari a 600mila euro. Ma per capire oggi i prezzi di mercato occorre sempre coniugarli con la storia delle opere. Derek Jones, per un dipinto del leonardesco Marco d’Oggiono, chiede 1,6 milioni di euro. Rudigier, per un Crocefisso del meno noto Gasparo Mola (in lamina d’oro, di fattura medicea) 2,1 milioni. «Uno dei quattro esemplari al mondo», fa notare Andrea De Lorenzo, curatore del Poldi Pezzoli di Milano. «Prima l’attribuzione era incerta. Ma quella placchetta sulla base – una Pietà analoga al quadro di Gaudenzio Ferrari posseduto dal Mola – ha fugato i dubbi». Per 30mila euro De Lorenzo vorrebbe per il Poldi almeno quel disegno del Carlone, l’apoteosi del condottiero Colleoni, di cui il museo ha l’affresco. «I musei cercano di rafforzare le proprie raccolte o colmarne le lacune. Nel 2011 mi fu offerto il Salvator Mundi di Leonardo», dice Bernd Lindemann, direttore della Gemäldegalerie e Skulpturensammlung dei musei di Berlino. «Costo stratosferico a parte (che non rivelo essendo l’opera ancora in vendita), declinai l’offerta considerando che la nostra Resurrezione del Boltraffio riassumeva più che bene lo spirito leonardesco».