Sergio Rizzo, Sette 20/3/2012, 20 marzo 2012
LA CASTA ITALIANA DEGLI STIPENDI D’ORO
Tutto era cominciato per una nobile causa. «Ora finirà la fuga dei cervelli. I dirigenti che se lo meritano verranno pagati molto meglio, mentre gli incapaci e i fannulloni rischieranno di perdere l’incarico», sospirò il ministro Franco Bassanini. Era il 5 aprile del 2001. Mancava un mese alle elezioni politiche e alla Funzione pubblica era stato appena sottoscritto il nuovo contratto dei dirigenti statali, denso di suggestioni privatistiche che covavano da almeno dieci anni.
Poi però la situazione è scappata di mano. Se all’inizio del 1992 c’erano soltanto 11 alti burocrati statali il cui stipendio superava, in qualche caso a malapena, i 90 mila euro attuali, si è arrivati oggi a contare un numero impressionante di megadirettori galattici. Almeno quindici portano a casa oltre 450 mila euro. In termini reali, cinque volte più dei loro colleghi di vent’anni fa: mentre la ricchezza prodotta da ogni italiano, sempre in termini reali, è cresciuta nello stesso periodo di appena il 10,5 per cento. Né si può sostenere che con retribuzioni da fare invidia a tante multinazionali il settore pubblico si sia improvvisamente popolato di scienziati della buona amministrazione. Lo dicono i risultati, pessimi, di un Paese finito sull’orlo della bancarotta.
Come tutto questo sia potuto accadere, nessuno esattamente lo sa. Ma di certo qualche solido pilastro era stato già piantato prima di quel fatidico contratto di undici anni fa. Prova vivente ne è Andrea Monorchio.
Ragioniere generale dello Stato fino al 2002, era probabilmente il dirigente statale più pagato. Un giorno però si è sfogato: «Quando sono andato via, al mio giovane successore hanno dato tre volte quello che davano a me, che guadagnavo 400 milioni». Quella cifra, oggi, rappresenta la retribuzione di tanti dirigenti di prima fascia. Anche se, nel caso di Monorchio, era discretamente arrotondata dai compensi per alcuni incarichi di prestigio in società del Tesoro. Nel 1992 l’ex Ragioniere aveva un reddito di 655 milioni: tre volte la paga del primo presidente di Cassazione, che ora il governo di Mario Monti ha fissato come tetto massimo per lo stipendio “onnicomprensivo” dei dipendenti pubblici.
«Incarichi», tenne a precisare l’ex Ragioniere, «che mi hanno consentito soltanto di vivere dignitosamente». Allora come adesso. Perché un decennio buono dopo aver lasciato la pubblica amministrazione con una pensione di 17.892 euro lordi al mese, «frutto del lavoro di una vita senza né riscatti militari né di studi universitari», Monorchio è ancora uno dei principali collezionisti di incarichi statali. Ne ha ben cinque. È presidente del consiglio di amministrazione della Consap (210 mila euro), del collegio sindacale di Fintecna (45 mila), di Fintecna immobiliare (61 mila per la terna di revisori) e Telespazio (94 mila per l’intero collegio) nonché consigliere del Formez. Totale sui 300 mila euro, a occhio e croce.
ZERO TRASPARENZA
Vi chiederete: che cosa c’entra il bravissimo Monorchio con il tetto agli stipendi degli statali? A parte il fatto che anche gli incarichi societari, come vedremo, sono finiti sotto schiaffo, lui si può considerare precursore di uno dei sistemi maggiormente responsabili della lievitazione delle paghe pubbliche. Parliamo, avrete capito, dei famosi “extra” che si cumulano allo stipendio. E cumulando e cumulando fanno crescere gli emolumenti ben oltre il tetto dei 294 mila euro che oggi rappresentano la retribuzione del primo presidente di Cassazione. Senza che nemmeno lo Stato lo sappia. Sembra assurdo, ma nell’epoca di internet non c’è una banca dati unica delle retribuzioni pubbliche. La spiegazione è incredibilmente semplice: i soldi arrivano da soggetti diversi che non si parlano fra di loro. Una situazione sconcertante, come ha ammesso lo stesso ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi quando si è presentato in Parlamento con la lista “provvisoria” dei superstipendi: «Allo stato attuale le aggiunte, i cumuli dei vari compensi, non li abbiamo ancora e cercheremo di averli». Dai diretti interessati. Già. Siccome lo Stato non è in grado di procurarsi rapidamente e con facilità i dati degli emolumenti correnti, non resta che imporre per decreto ai beneficiari di autodenunciarsi. Una scappatoia forse inevitabile, ma che equivale a una resa senza condizioni.
Pensare che per anni e anni ci avevano promesso trasparenza assoluta, giurando che tutti i dati delle retribuzioni sarebbero stati messi online… Una bugia clamorosa. Perché se entrando nei siti dei vari ministeri possiamo sapere quanto guadagna, fino all’ultimo centesimo, anche il più modesto dirigente, non c’è niente di niente sui collaboratori più stretti e pagati del ministro. Meno che mai i compensi extra che si cumulano. «Io non sarò un mago del computer, ma ho avuto difficoltà a rintracciarli», ha confessato l’ex presidente della Commissione per la valutazione della pubblica amministrazione, Antonio Martone. Che in un colloquio con Antonella Baccaro del Corriere ha fatto balenare l’ipotesi di far intervenire la Guardia di Finanza per verificare il rispetto delle norme sulla trasparenza.
LA MAGIA DEI CUMULI
Quando si affronta questo capitolo non si può non ricordare alcuni casi clamorosi, come quello del recordman assoluto Antonio Mastrapasqua. Secondo la tabella resa nota da Patroni Griffi, il presidente dell’Inps guadagna 216.711 euro e 67 centesimi. A sfogliare l’elenco degli altri suoi incarichi, però, gira la testa. In Camera di commercio ne sono registrati 32, dei quali una dozzina in società pubbliche. Prima di tutto vicepresidente di Equitalia: incarico che valeva nel 2010, secondo quello che c’è scritto nell’ultima relazione della Corte dei conti, 465 mila euro. Ben tre volte la paga del presidente. Quindi la presidenza del collegio sindacale di Eur spa, società controllata al 90% dal Tesoro: 25 mila euro. Poi la presidenza dei revisori di Coni servizi: 18 mila euro. E incarichi analoghi in Rete autostrade mediterranee (Invitalia) e in Quadrifoglio (Fintecna). Per non parlare della moltitudine di poltrone in imprese private, fra cui concessionarie pubbliche come Telecom Italia e Autostrade, passando per i pastifici e la casa cinematografica Fandango. Ultima arrivata, la recentissima presidenza di Idea Fimit, società di gestione di fondi immobiliari che per compensare i suoi amministratori e sindaci ha speso nel 2009 ben 2,8 milioni, saliti a 4,3 milioni nel 2010. Dulcis in fundo, Mastrapasqua risulta anche direttore generale dell’Ospedale israelitico. Resta assolutamente misteriosa la dimensione temporale nella quale trovano collocamento tante attività così rilevanti e diverse.
Le sovrapposizioni di ruoli e incarichi nella pubblica amministrazione sono però frequentissime. Ne volete un altro esempio, sia pure di tono minore? Il Garante degli scioperi nei servizi pubblici si chiama Roberto Alesse: il sito dice che guadagna 118.317 euro. Ma leggendo il suo curriculum si scopre che è anche “consigliere di ruolo della presidenza del Consiglio”, e dal sito di Palazzo Chigi si ricava che la retribuzione ammonta a 163.355 euro. Lo stesso curriculum ci spiega poi che Alesse “è docente della Scuola superiore di Pubblica Amministrazione locale”: l’unico dato rintracciabile per quell’incarico sono i 38.250 euro che gli sono stati corrisposti nel 2009. Nessuna notizia, invece, è rintracciabile per il suo quarto incarico: “Consigliere politico istituzionale del presidente della Camera” Gianfranco Fini. E nella lista “provvisoria” di Patroni Griffi il nome di Alesse non c’è.
I FUORI RUOLO PAGATI COME DOCENTI
Compare invece quello di Gaetano Caputi, ex capo dell’ufficio legislativo del ministro Tremonti. Nominato recentemente direttore generale della Consob, avrebbe diritto a 395 mila euro più una congrua gratifica annuale. Cifra cui bisognerebbe tuttavia sommare altri 95.697 euro, ossia l’emolumento della Commissione antiscioperi nella quale figura accanto ad Alesse, come componente. Testimonianza tangibile di un sistema assurdo, che consente a una medesima persona di far parte di due diverse authority. Non bastasse, Caputi figura come docente fuori ruolo alla Scuola superiore dell’economia e delle finanze: 187.139 euro e 20 centesimi. Per un ammontare complessivo, stando alle cifre riportate nei siti, di 677.836 euro e 20 centesimi. Oltre alla gratifica annuale della Consob. Due volte e mezzo la somma che gli viene invece attribuita (280 mila euro) dalla lista Patroni Griffi, che fa riferimento al suo precedente incarico di segretario generale dell’authority ed evidentemente non tiene conto delle altre voci. A dimostrazione, appunto, di come funziona il meccanismo del cumulo.
La scuola già intitolata al grande Ezio Vanoni è stata negli ultimi anni una fonte di guadagni particolarmente lauti. Ne sa qualcosa il capo di gabinetto del ministero dell’Economia Vincenzo Fortunato, che si vede pagare proprio dalla ex Vanoni uno stipendio di 536.906 euro e 98 centesimi, oggettivamente astronomico. E questa è una cifra perfino più bassa rispetto a quella che secondo molti giornali rappresentava il suo reddito nel 2005: ben 788.855 euro. Sull’Espresso Stefano Livadiotti gli ha dedicato questo cammeo: «L’unica cosa che gli piace davvero è il potere. Che esercita senza andare troppo per il sottile. E senza guardare in faccia nessuno. O quasi. Se un ministro di seconda fascia vuole parlare con lui (che, metodicamente, non prende telefonate), deve andare a trovarlo nel suo ufficio. Dove l’inflessibile capo della segreteria, Rita Ruffini, non gli risparmia l’anticamera». Ininterrottamente al governo da 11 anni, prima con Tremonti, quindi con Domenico Siniscalco, poi con Antonio Di Pietro, di nuovo con Tremonti e ora con Monti, non si è fatto molti amici, soprattutto in quel partito della spesa abituato ad assediare il ministero dell’Economia. E siamo certi che non giudica eccessivi i propri emolumenti. Resta comunque da capire come sia possibile che una scuola della pubblica amministrazione paghi a persone fuori ruolo, cioè che non insegnano, stipendi enormemente superiori a quelli di un professore universitario. Perché oltre a Caputi e Fortunato, risulta retribuito senza insegnare, con 264.880 euro e 69 centesimi, anche Marco Pinto, ex consigliere di Stato, vice capo di gabinetto dell’Economia, che dal 2005 al 2008 era stato anche omaggiato con un posto nel consiglio di amministrazione dell’Eni (valore, 134 mila euro lordi l’anno).
Queste cifre ci dicono finalmente la verità. Quella riforma che doveva servire a evitare “la fuga dei cervelli” dal pubblico semplicemente consentendo agli stipendi di lievitare come la panna montata ha creato invece un grumo di potere autoreferenziale nella pubblica amministrazione che obbedisce alle regole della cooptazione e moltiplica i propri redditi con il giochetto del “fuori ruolo” e la distribuzione degli incarichi. Grazie, sia chiaro, a interessate complicità della politica. Una volta erano le società pubbliche, ora sono le authority, spesso in lampante conflitto d’interessi. Perché a ottenere quegli incarichi sono talvolta giudici amministrativi, che appartengono alla magistratura competente per i giudizi che riguardano le autorità indipendenti. Altro che concorrenza con il privato. Viene il sospetto che ci sia una ragione precisa se non è stata mai creata in Italia una scuola di pubblica amministrazione degna di questo nome. Quel grumo di potere è così solido e attrezzato da essere scampato, finora, a tutte le tagliole. E non è detto che non ci riesca anche in questa occasione, tanto il percorso è stato disseminato di ostacoli.
A LONDRA GUADAGNANO LA METÀ
Esiste un precedente. Quanti ricordano che il limite dello stipendio del primo presidente di Cassazione era stato già introdotto quattro anni fa, ma non è mai stato applicato? Erano le ultime convulse fasi del governo di Romano Prodi e il tetto, fissato a dicembre 2007, venne lasciato in eredità all’esecutivo di Silvio Berlusconi. Che (ministro Renato Brunetta) promise di fare un regolamento applicativo entro ottobre 2008. Arrivando però, di rinvio in rinvio, a sfornare soltanto nel 2010 una circolare applicativa che annullava del tutto gli effetti di quella legge, “interpretandola” nel senso che il tetto vale solo per gli incarichi extra e comunque a partire da quelli futuri.
Soltanto un anno dopo ecco un altro limite, ancora diverso. La prima manovra Tremonti dell’estate 2011, approvata dal Parlamento all’inizio di luglio, ha stabilito che al pari del “costo” dei membri del Parlamento, pure le retribuzioni degli alti papaveri della nostra amministrazione si devono adeguare alla “media” dei sei Paesi “principali” dell’Unione europea. Ed è cominciata la caccia al Tesoro da parte della commissione coordinata dal presidente dell’Istat Enrico Giovannini, incaricata di trovare i dati per le comparazioni. Inutile dire che stanno impazzendo da mesi, visto che per ogni superburocrate italiano bisogna trovare l’omologo straniero.
Senza poi considerare un dettaglio. Siccome quella legge non è stata abrogata quando si è deciso di imporre nuovamente lo stesso limite, già stabilito da Prodi, dello stipendio del magistrato di Cassazione, ecco che questo potrà far sorgere molti problemi. Quale tetto si dovrà applicare? La media europea o i 294 mila euro della Cassazione? C’è chi crede che sarà necessaria l’ennesima norma interpretativa… Per la gioia di chi non vorrebbe nessun tetto, o che almeno quel tetto si applicasse dai futuri contratti, come hanno fatto chiaramente capire le commissioni parlamentari che hanno esaminato la questione.
Nel frattempo sono venute fuori alcune cifre e si è capito che qualcosa decisamente non va. Il capo della Polizia italiana, Antonio Manganelli, guadagna 621.253 euro. Le sue responsabilità sono grandissime. Ma forse non inferiori a quelle del capo di Scotland Yard, Bernard Hogan Howe, la cui retribuzione ammonta a 253 mila sterline: l’equivalente, al cambio di mercoledì 21 marzo, di 303 mila euro. Ugo Zampetti, segretario generale della Camera dei deputati, organo costituzionale e quindi escluso dal tetto, ha uno stipendio doppio rispetto a quello del capo dell’amministrazione della Camera dei comuni britannica, non superiore a 235 mila euro. E potremmo andare avanti, ma per rispetto dei vostri fegati ci fermiamo qui.
Non possiamo però non sottolineare un particolare. Data la stagionatura piuttosto avanzata dei nostri burocrati, alla quale si contrappone la precocità con cui qualcuno ha guadagnato la pensione, c’è pure chi a uno stipendio già rispettabile somma un assegno previdenziale imbarazzante.
I FORTUNATI IN PENSIONE
Sappiamo, per esempio, che Giuseppe Vegas, ex parlamentare del Pdl ed ex sottosegretario all’Economia, è stato funzionario del Senato ed è andato in pensione nel 2007 con 20 mila euro lordi al mese. Designato l’anno scorso presidente della Consob, con un tempismo che gli ha consentito, prima che l’incarico venisse formalizzato, perfino di votare da deputato la fiducia al governo di cui faceva parte e che l’aveva nominato, ha diritto a 387 mila euro l’anno. Cui teoricamente si somma la pensione. Idem il presidente dell’Agcom Corrado Calabrò, già potentissimo magistrato amministrativo, che dall’authority ha uno stipendio di 475.643 euro. E idem anche Piero Barucci, ex ministro del Tesoro negli eroici e turbolenti mesi del primo governo di Giuliano Amato, componente dell’Antitrust con 396.369 euro. Ma non sono i soli a cumulare. Nelle authority ci sono pure consiglieri di Stato che, fino all’entrata in vigore della norma Monti che impedirà se non per il 25% di sommare la paga da magistrato all’indennità da commissario, hanno fatto un lavoro con due stipendi. Per esempio, il componente della Consob Paolo Troiano. Si è trovato in questa invidiabile situazione, consentita ovviamente dalla legge, anche l’ex presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà, prima di entrare al governo.
DALLA BUROCRAZIA AL GOVERNO
Pure il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, che percepisce uno stipendio commisurato al ruolo (199.778 euro), risulta pensionato. Ammiraglio, ha una pensione ammiraglia: 314 mila euro, 20 mila più del famoso tetto. Ma ben 200 mila meno del sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per i rapporti con il Parlamento. Sempre che i 519 mila euro lordi l’anno dell’assegno previdenziale di Antonio Malaschini si possano definire una pensione. Ma almeno l’ex segretario generale del Senato ci ha fatto la grazia di rinunciare allo stipendio da consigliere di Stato, al quale pure avrebbe avuto diritto. Vogliamo dirla tutta? Considerando che su ministri e sottosegretari il tetto non ha effetti, sarebbe un bel gesto se decidesse di farci risparmiare anche lo stipendio governativo: 188 mila euro.
LA MANO DELLA POLITICA
Entro la fine di maggio arriverà poi il decreto sui tetti ai compensi degli amministratori, ripartiti per fasce di fatturato o di dimensione aziendale. Ma molti già sono in preda al terrore. Altri, invece, hanno giocato in contropiede. L’amministratore delegato di Invitalia, Domenico Arcuri (750 mila euro), ha proposto di azzerare gli stipendi e di retribuire gli amministratori esclusivamente sulla base dei risultati: rivendicando, a titolo di esempio, di aver fatto risparmiare allo Stato 6 milioni l’anno di gettoni che prima del suo arrivo Sviluppo Italia pagava a 492 (quattrocentonovantadue!) consiglieri di amministrazione senza deleghe. Il frutto di clientele politiche. Perché su queste società, non va mai dimenticato, c’è sempre la mano della politica.
E se non sono all’apparenza infondate le obiezioni agitate da qualcuno, cioè che con paghe ridotte all’osso si farebbe fatica a trovare manager capaci, in quanti casi questo ragionamento è davvero valido? Ha più senso pagare 390 mila euro l’amministratore delegato dell’Expo 2015 Giuseppe Sala, o 440 il suo collega della Consap (una compagnia pubblica che gestisce, fra l’altro, i fondi di garanzia per le vittime della strada e della caccia) Mauro Masi, sostituito da Lorenza Lei alla direzione generale della Rai? Ha più senso dare 871 mila euro all’amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Moretti (un tempo sindacalista della Cgil) o 590 al presidente delle Poste Giovanni Ialongo, ex capo dei postini della Cisl? Hanno più senso i 750 mila euro dell’amministratore unico dell’Anas Pietro Ciucci o i 551 mila del gestore della Sogin (la società del Tesoro che deve smaltire le scorie delle centrali nucleari chiuse un quarto di secolo fa), Giuseppe Nucci? E i 448 mila euro del presidente della Rai Paolo Garimberti? E le decine e decine di retribuzioni siderali corrisposte dalla tivù di Stato a personaggi (giornalisti compresi) parcheggiati sul binario morto e manager non più utilizzati secondo le loro capacità? Sono tutte domande che dovranno trovare una risposta.
E POI CI SONO GLI INTOCCABILI…
Risposta che dovranno necessariamente trovare assieme ad altri quesiti altrettanto scottanti. Perché il tetto non deve valere per gli organi costituzionali come il Senato, dove uno stenografo al massimo grado di carriera può arrivare a guadagnare come il Re di Spagna, o il Quirinale, il cui segretario generale Donato Marra, ex funzionario parlamentare di altissimo livello e consigliere di Stato fuori ruolo dal 2006, ha un compenso top secret, ma certamente non inferiore al tetto imposto da Monti? Perché i dirigenti statali devono essere soggetti a quel limite mentre i superburocrati degli enti locali no? I casi sono più diffusi di quanto non si creda. Un esempio per tutti: Nicola Durante, capo dell’ufficio legislativo del governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, ha una retribuzione di 176.426 euro, alla quale si somma anche lo stipendio da giudice del Tar.
Perché infine la tagliola calerà sui manager delle società statali non quotate, mentre i loro colleghi delle migliaia di municipalizzate o aziende controllate dalle Regioni e dalle Province non saranno minimamente sfiorati, pur incassando, in qualche caso, compensi ancora più elevati? Perché?